Da diversi anni si è diffuso in molte parti del mondo l’utilizzo della canapa a scopo terapeutico. La canapa, pianta originaria dell’Asia centrale, appartiene al genere Cannabis e la sua classificazione è ancora dibattuta. Secondo molti autori il genere comprende una sola specie, la Cannabis sativa, con diverse sottospecie. Le sue infiorescenze contengono cannabinoidi, tra cui il Thc (delta-9-tetraidrocannabinolo), che ha effetti psicoattivi e il Cbd (cannabidiolo), privo di effetti psicoattivi. Sarebbe proprio quest’ultimo ad avere numerose proprietà benefiche: con la liberalizzazione della cosiddetta canapa legale (che contiene, cioè, meno dello 0,6% di Thc e quindi non ha effetti psicotropi) anche alcune celebrità hanno affermato di utilizzare regolarmente prodotti a base di cannabis per i motivi più svariati. Mandy Moore, cantante e attrice statunitense, ha dichiarato di utilizzare olio contenente Cbd per lenire il dolore ai piedi dovuto alle troppe ore sui tacchi; Jennifer Aniston lo usa per ridurre l’ansia e lo stress, e Michael J. Fox per alleviare i sintomi del morbo di Parkinson, che lo ha colpito quando aveva appena 29 anni. Proprio la fondazione dell’attore ha finanziato molti progetti di ricerca sull’uso terapeutico della cannabis, che avrebbe proprietà analgesiche, antipsicotiche, antinfiammatorie e, soprattutto, potrebbe proteggere i neuroni dallo stress ossidativo, un processo comune a molte malattie neurodegenerative, come l’epilessia. Per questa serie di qualità, nei negozi specializzati sono stati messi in vendita i prodotti più disparati a base di Cbd, tra cui oli, biscotti, tisane e caramelle.
L’utilizzo della cannabis in ambito medico non è certo una novità: è stata infatti usata come medicinale per migliaia di anni, prima in Asia, suo luogo di origine, e poi nel resto del mondo. All’inizio del Diciannovesimo secolo, William Brooke O’Shaughnessy, medico irlandese che lavorava in India, ne osservò l’efficacia nel trattamento delle convulsioni infantili e in caso di spasmi e reumatismi causati dal tetano. O’Shaughnessy importò la pianta in Gran Bretagna e da quel momento in poi la cannabis diventò parte importante della farmacopea, prima britannica poi statunitense, fino al 1930. In quegli anni, negli Stati Uniti partì una vera e propria campagna anti cannabis che si estese poi al resto del mondo: secondo il Federal bureau of narcotics i derivati della cannabis rendevano le persone pazze, violente e inclini a comportamenti criminali. I medici, però, avevano un’opinione diversa: quando 30 membri dell’American Medical Association furono interpellati su benefici e pericoli della cannabis, 29 si dichiararono contrari a renderla fuori legge. Nonostante questo, nel 1937, il Congresso degli Stati Uniti approvò la Marijuana Tax Act, una legge che proibiva la coltivazione di qualsiasi tipo di canapa, indipendentemente dallo scopo.
La cannabis diventò a tutti gli effetti una sostanza illegale, inserita nel livello 1 della classificazione Drug Enforcement Administration, il più restrittivo, insieme a Lsd, ecstasy ed eroina. Questo non impedì però agli scienziati di portare avanti la ricerca sui suoi meccanismi d’azione. Negli anni Sessanta del secolo scorso, il chimico israeliano Raphael Mechoulam fu il primo a mappare la struttura chimica di Thc e Cbd, oltre a chiedersi in che modo queste sostanze potessero interagire con il cervello umano. Questa risposta arrivò vent’anni dopo, quando Allyn Howlett, ricercatrice alla St. Louis University Medical School, scoprì i meccanismi di interazione. Negli anni successivi Mechoulam appurò l’esistenza dei cosiddetti endocannabinoidi, molecole lipidiche prodotte nelle cellule neuronali che utilizzano gli stessi recettori dei cannabinoidi di origine vegetale. Il sistema endocannabinoide sembra avere un ruolo importante nella regolazione del sistema immunitario, dell’appetito, della produzione dei ricordi, e probabilmente anche nei processi antinfiammatori, ma le ricerche in merito sono ancora in corso. “Probabilmente nessun altro sistema ha sollevato più aspettative per lo sviluppo di nuovi medicinali” ha dichiarato al New York Times Vincenzo Di Marzo, autore di uno studio pubblicato su Nature Review in cui si cercano di comprendere le dinamiche di interazione tra il sistema endocannabinoide e le molecole presenti nella cannabis, proprio per lo sviluppo di nuovi farmaci. La sperimentazione non si è rivelata semplice: uno dei medicinali testati, il Rimonabant per la cura dell’obesità grave, è stato ritirato dal mercato europeo a causa dei numerosi effetti collaterali, tra cui depressione e predisposizione al suicidio. Per un altro farmaco, pensato per la cura del dolore cronico, è stata interrotta la sperimentazione dopo che un paziente è morto e altri cinque hanno subito danni cerebrali in seguito alla sua somministrazione.
Negli Stati Uniti, partendo da diversi studi sulle proprietà antiossidanti e neuroprotettive del cannabidiolo, Catherine Jacobson, neuroscienziata e madre di un bambino con una grave forma di epilessia farmacoresistente, ha iniziato a produrre autonomamente (e illegalmente, dal momento che non aveva l’approvazione della Food and drug administration) un estratto contenente alte concentrazioni di Cbd e basse di Thc. Il miglioramento delle condizioni del figlio ha dato vita a un movimento di genitori di bambini affetti da epilessia. Tra questi c’era anche Sam Vogelstein, un ragazzino di 11 anni che era arrivato ad avere oltre 100 crisi epilettiche al giorno. La sua storia, raccontata su Wired dal padre, il giornalista e scrittore Fred Vogelstein, ha portato nel 2018 all’approvazione da parte della Food and drug administration statunitense dell’estratto di Cbd come trattamento di due forme gravi di epilessia, la sindrome di Lennox-Gastaut e la sindrome di Dravet. Il medicinale, chiamato Epidiolex, contiene solo Cbd naturale estratto direttamente dalla pianta di cannabis. I dati più recenti sull’efficacia del farmaco mostrano che, su 137 bambini che lo hanno assunto per 12 giorni, in quasi il 50% dei casi si è registrata una riduzione delle crisi, addirittura scomparse nel 9% dei casi.
In Europa molte nazioni, come i Paesi Bassi, la Repubblica Ceca e la Germania hanno preso in considerazione l’utilizzo medico della cannabis e dei cannabinoidi. In Italia, invece, la normativa sulla cannabis terapeutica è ancora molto rigida. Dal 2006 in Italia i medici possono prescrivere prodotti a base di derivati della cannabis confezionati direttamente in farmacia, partendo da infiorescenze essiccate e macinate, a condizione che la pianta sia coltivata su autorizzazione di un organismo nazionale apposito. Dal 2014 le infiorescenze per le preparazioni galeniche sono prodotte dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze. Secondo un decreto ministeriale del 2015 la cannabis in Italia può essere impiegata nella terapia del dolore cronico e di quello associato a sclerosi multipla e a lesioni del midollo spinale; contro nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per l’Hiv; come stimolante dell’appetito in caso di anoressia o di perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da Aids; per la riduzione dei movimenti involontari del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette. La prescrizione è però prevista solo nel caso in cui le terapie convenzionali o standard si dimostrano inefficaci.
In realtà l’accesso a queste preparazioni è molto difficile. Prima di tutto, dal momento che non si tratta di farmaci approvati dall’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) non sempre è facile trovare medici disposti a firmare ricette che prevedono preparazioni a base di cannabis. Anche la burocrazia contribuisce a complicare l’iter per ottenerle: per l’approvazione di un piano terapeutico da parte della Asl, che permetterebbe di recuperare le spese, i tempi lunghi non garantiscono la sicurezza di ottenere il rifornimento necessario ogni mese. Molti scelgono di farsi carico personalmente delle spese (circa 12 euro al grammo, per terapie che in media si aggirano sui 150 grammi al mese), mentre altri si affidano all’autoproduzione, rischiando ripercussioni legali.
L’unica via percorribile è quella di proseguire gli studi scientifici: il meccanismo d’azione dei cannabinoidi non è ancora del tutto chiaro, come non è chiaro il perché una sola famiglia di molecole possa agire su diverse malattie. Le ricerche in merito sono ancora nella fase preliminare, ma molti ricercatori sono concordi nell’affermare che il Cbd ha effetti evidenti su molte malattie. Nora D. Volkow, direttrice del National Institute on drug abuse degli Stati Uniti, ha spiegato che “Sebbene siano necessari altri studi rigorosi per valutare il potenziale clinico del Cbd, la ricerca preclinica sia su colture cellulari che su modelli animali, ha mostrato che il Cbd ha una serie di effetti che potrebbero essere utili dal punto di vista terapeutico: come anticonvulsivante, antiossidante, neuroprotettore, antinfiammatorio, analgesico, antitumorale, antipsicotico e ansiolitico”.
Intanto anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha rivisto dopo sessant’anni la sua posizione sulla cannabis, riconoscendo l’utilità dei cannabinoidi dal punto di vista terapeutico. Questo potrebbe essere il passaggio definitivo per vincere una volta per tutte il pregiudizio sulla pianta e aprire la strada a nuove sperimentazioni di farmaci in grado di migliorare la vita di decine di milioni di pazienti in tutto il mondo.