Il cambiamento climatico ciclicamente torna a fare notizia. Anche se è un problema costante e urgente sembra che ce ne ricordiamo solo di tanto in tanto. Lo scorso 15 dicembre, a Katowice, in Polonia, si è conclusa la Cop 24, la conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite. Le premesse non erano delle migliori: due mesi fa, infatti, un report pubblicato dall’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ha lanciato un nuovo allarme. La commissione scientifica, formata da 91 scienziati provenienti da 40 diversi Stati, ha esaminato oltre 6mila studi scientifici, arrivando alla conclusione che, se le emissioni di gas serra continueranno a questo ritmo, l’atmosfera subirà un riscaldamento di 1,5 gradi entro il 2040, facendo alzare sensibilmente il livello del mare – con il conseguente allagamento di molte zone costiere – e facendo aumentare la siccità e la povertà in molte zone del mondo. Un risultato che mette in discussione anche l’Accordo di Parigi del 2015, in cui si era stabilito di mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma a quanto pare questo non basta più. La Cop24 di Katowice avrebbe dovuto prima di tutto valutare le azioni intraprese, dopo l’Accordo di Parigi, dai 198 Paesi membri per ridurre le emissioni di gas serra, e discutere di nuove strategie da adottare per frenare il cambiamento climatico. Come già preannunciato dagli scienziati, il tempo a nostra disposizione per cercare alternative ai combustibili fossili e ridurre le emissioni di diossido di carbonio, ormai, sta per scadere. Dopo 13 giorni di faticose trattative e negoziati, i delegati di 200 Stati hanno concordato, di nuovo, un insieme di regole comuni per tentare di tradurre in realtà gli impegni presi con l’Accordo del 2015, ma di azioni concrete per fermare o rallentare i cambiamenti climatici non se n’è vista ancora nessuna.
In questa situazione desolante, un nuovo studio, pubblicato lunedì scorso sulla rivista PNAS afferma che se il riscaldamento globale continuasse a essere ignorato nel 2030 la Terra potrebbe tornare alle condizioni di 3 milioni di anni fa. In quel periodo, il Pliocene, le temperature erano più alte di 2-4 gradi, il livello del mare era più alto di circa 20 metri rispetto a ora e le calotte polari erano molto più piccole. A pensarci bene è una situazione non troppo diversa da quella attuale: la temperatura sul nostro pianeta, attualmente, è più alta di un grado rispetto a quella registrata tra il 1850 e il 1900, e questo è dovuto in gran parte alle emissioni di gas imputabili a invenzioni umane, come le automobili e le fabbriche. Alcuni di questi gas, tra cui il diossido di carbonio e il metano, intrappolano il calore nell’atmosfera, producendo un “effetto serra” che riscalda l’intero pianeta.
Oggi stiamo vivendo “uno degli scenari più difficili di sempre”, ha spiegato alla CNN Kevin D. Burke, primo autore dello studio e dottorando al Nelson Institute for Environmental Studies dell’Università del Wisconsin-Madison. “È un periodo in cui il cambiamento climatico sta avvenendo in modo molto rapido. Qualsiasi cosa si possa fare per limitare le emissioni è di estrema importanza“.
Burke e i suoi colleghi hanno stilato delle proiezioni climatiche a dieci, venti e trent’anni, confrontando gli scenari climatici previsti dai modelli dell’Ipcc con quelli, testimoniati da dati geologici, di diversi periodi del passato: il periodo storico, cioè il Ventesimo secolo; quello pre-industriale, intorno al 1850; l’Olocene, circa 6mila anni fa; l’ultimo periodo Interglaciale, circa 125mila anni fa; il Pliocene, circa 3 milioni di anni fa, e l’Eocene, circa 50 milioni di anni fa.
Se i livelli di emissione di gas serra continuassero così come sono ora, non solo nel 2030 il clima sarà pressoché identico a quello del Pliocene, ma la situazione potrebbe anche peggiorare: secondo le proiezioni, infatti, in alcuni luoghi, comprese alcune città degli Stati Uniti, nel 2030 le temperature potrebbero diventare addirittura il doppio rispetto alla media attuale. Se non vengono presi provvedimenti, nel 2150 il clima sarà simile a quello dell’Eocene, risalente a 50 milioni di anni fa, quando le temperature erano superiori di 13 gradi rispetto a ora. In quel periodo non c’era ghiaccio sulle calotte polari e il livello del mare, di conseguenza, era molto più alto. Probabilmente, anche se la geografia terrestre era molto diversa, c’erano foreste pluviali fin quasi al Circolo Polare Artico.
“Dipende tutto da ciò che decidiamo di fare riguardo alle emissioni,” ha detto Burke. “È importante riconoscere che le scelte che facciamo avranno una conseguenza sul nostro futuro”.
Anche altri ricercatori, seppur non coinvolti nello studio, mostrano preoccupazione. Tra questi Nick Obradovich, studioso del Mit Media Lab, afferma che “Il ritorno a un clima come quello di milioni di anni fa, nel tempo, distruggerà completamente il futuro dell’umanità. È possibile che sia i sistemi ecologici che quelli umani non riusciranno ad adattarsi rapidamente, con conseguenze che potrebbero essere devastanti. Nessuno sa esattamente come sarà questo futuro, ma se non tagliamo le emissioni drasticamente e immediatamente, di sicuro il futuro non sarà roseo”.
“Il problema,” continua Burke, “è che non stiamo parlando di un problema di un futuro lontano di cui non faremo parte. Qui si parla di uno, due decenni, quindi è un problema che riguarda direttamente noi e la nostra vita presente. Per evitare di arrivare a questo, bisogna agire: sia a livello individuale, privilegiando l’uso del trasporto pubblico o della bicicletta a quello dell’automobile e mangiando meno carne (un rapporto della FAO del 2010 mostra che dall’allevamento intensivo arriva circa il 4% delle emissioni globali di diossido di carbonio), ma anche e soprattutto a livello governativo mondiale, con delle azioni reali, concrete e immediate”.
I risultati dello studio, però, non sono proprio una novità. Nel 2011 era arrivato alle stesse conclusioni anche James Hansen, ex scienziato della Nasa e ora attivista per il clima a tempo pieno. Non solo: lo stesso Hansen, nel 1988, aveva messo in guardia il Senato degli Stati Uniti attraverso una testimonianza relativa ai suoi studi, quando ancora lavorava per la Nasa. Hansen affermava infatti che “Prima di tutto, nel 1988 la temperatura sul Pianeta è stata più alta che in qualsiasi altro momento dall’inizio delle misurazioni strumentali. Inoltre, il riscaldamento globale è ora abbastanza evidente da poterne imputare la causa principale all’effetto serra. Infine, le nostre simulazioni al computer indicano che l’effetto serra è talmente ampio da garantire, ora e in futuro, la probabilità di eventi climatici estremi”. E anche il report dell’Omm, l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, nel 2017 aveva messo in guardia contro i gas serra, mostrando che la concentrazione di diossido di carbonio nell’atmosfera fosse pericolosamente simile a quella, appunto, di 3 milioni di anni fa.
Dal discorso di James Hansen in Senato sono passati oltre trent’anni, costellati da accordi diplomatici, discorsi, promesse. E le emissioni di gas serra sono cambiate, sì, ma facendo registrare un aumento: nel 1988, la quantità di anidride carbonica immessa nell’atmosfera a livello globale era di 20 miliardi di tonnellate, nel 2017 sono diventati 32. Intervistato dal Guardian lo scorso giugno, Hansen ha manifestato tutta la sua preoccupazione per il futuro. E punta prima di tutto il dito contro i politici, che a suo dire starebbero letteralmente truffando i cittadini: sia chi, come Donald Trump, nega le evidenze scientifiche sui cambiamenti climatici; sia chi, come Barack Obama, annuncia misure che poi nella realtà non vengono messe in atto.
Non si sta più parlando di preoccupazione remota per il mondo che lasceremo alle generazioni future, ma di quello in cui noi stessi ci troveremo a vivere da qui a dieci anni.