La crisi climatica è ormai un’emergenza con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni. A luglio, la velocità dello scioglimento dei ghiacci in Groenlandia ha raggiunto livelli allarmanti, mentre per tutta l’estate frequenti e prolungate ondate di calore hanno colpito l’Europa e gli Stati Uniti. Nelle stesse settimane, milioni di ettari di foresta sono andati in fumo in Siberia, Amazzonia e diverse aree dell’Africa centrale. Eppure, i governi che si stanno impegnando con azioni concrete per limitare il riscaldamento globale sono ancora una minoranza. Gli altri sono ben rappresentati dalla linea seguita dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel corso dell’ultimo G7 di Biarritz, dove si è rifiutato di partecipare alla discussione sul clima e sulla biodiversità, liquidando l’emergenza climatica come “una questione troppo di nicchia”.
A inizio agosto un nuovo report dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, ha fatto luce su altri problemi che ci troveremo a fronteggiare da qui a breve: le modificazioni climatiche indotte dall’uomo, oltre ad avere effetti sulle temperature medie, sullo scioglimento dei ghiacciai e sull’innalzamento del livello dei mari, potrebbero presto avere un impatto anche sulla sicurezza alimentare e sulle migrazioni. L’8 agosto, a Ginevra, è stato presentato il sommario del report Cambiamento climatico e territorio: il documento è opera di più di cento scienziati provenienti da 52 Paesi, tutti concordi nell’affermare che la finestra dei tempi di intervento si sta chiudendo rapidamente. Già in questo momento 500 milioni di persone vivono in zone a rischio desertificazione, più del 30% della popolazione umana è colpita da una forma di malnutrizione e la degradazione del suolo è più rapida dalle 10 alle 100 volte rispetto alla sua formazione. Questi problemi sono aggravati proprio dai cambiamenti climatici e dall’aumento degli eventi estremi, come siccità, incendi, tempeste e alluvioni, che contribuiscono a degradare il suolo in modo ancora più rapido.
Uno dei punti fondamentali su cui intervenire per fronteggiare l’emergenza è proprio l’uso del suolo, dato che, dei 104 milioni di chilometri quadrati abitabili del Pianeta, la metà sono utilizzati per attività agricole. “Il suolo ha un ruolo molto importante nel sistema climatico. Circa il 28% delle emissioni di gas serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo”, ha detto Jim Skea, docente di energia sostenibile all’Imperial College di Londra. Le emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione e sono solo parzialmente compensate da imboschimenti e rimboschimenti e da un uso più responsabile del suolo. L’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, entrambi gas serra molto dannosi per l’atmosfera. La biosfera terrestre, infatti, è in grado di assorbire solo il 30% delle emissioni dovute alle industrie e ai combustibili fossili.
Tuttavia, questa funzione può essere limitata dai cambiamenti climatici, che nel giro di pochi anni potrebbero avere un grave impatto anche su tutti e quattro i pilastri della sicurezza alimentare: la disponibilità, l’accesso al cibo, l’utilizzazione e la stabilità. “La sicurezza alimentare sarà influenzata dai cambiamenti climatici attraverso il declino della produzione – soprattutto ai tropici – l’aumento dei prezzi, la ridotta qualità dei nutrienti e l’interruzione della catena di distribuzione del cibo”, ha denunciato Priyadarshi Shukla, co-presidente del terzo gruppo di lavoro dell’Ipcc. “Ne vedremo gli effetti in diverse nazioni, ma gli impatti più drastici si verificheranno nei Paesi più poveri dell’Africa, dell’America Latina e dei Caraibi”.
Tra le ripercussioni potrebbe esserci anche un aumento dei flussi migratori, come è già successo negli Stati Uniti tra il 2010 e il 2015, quando il numero di migranti diretti verso il confine statunitense da El Salvador, Guatemala e Honduras è aumentato tra il 25 e il 30%, proprio in coincidenza con un lungo periodo di siccità che ha lasciato molte persone senza cibo. Se dieci anni fa una situazione simile era considerata inusuale, nel giro di pochi anni rischia di diventare una costante per milioni di persone in tutto il Pianeta. Secondo un recente rapporto Onu, entro il 2050 i migranti climatici potrebbero essere tra i 25 milioni e il miliardo.
La crisi legata alla carenza di cibo, inoltre, potrebbe colpire diversi continenti contemporaneamente. Secondo Cynthia Rosenzweig, ricercatrice del Nasa Goddard Institute for Space Studies, “Sta aumentando il rischio di una crisi alimentare globale, perché tutte queste cose stanno avvenendo nello stesso momento”. Un allarme sul futuro dell’agricoltura è stato lanciato anche dalla European Environment Agency (Eea), che in un report del 4 settembre ha ribadito l’importanza di varare in tempi brevi misure per mitigare l’impatto del cambiamento climatico e per adattarsi alle prospettive future. In molte parti d’Europa gli eventi meteorologici estremi hanno causato raccolti più scarsi e, di conseguenza, costi di produzione più alti, influenzando il prezzo, la quantità e la qualità dei prodotti agricoli. Mentre l’aumento delle temperature potrebbe avvantaggiare l’agricoltura in Nord Europa, per il Sud vale il contrario. Secondo le proiezioni, senza un impegno globale per rispettare gli accordi di Parigi, i raccolti di frumento, mais e canna da zucchero dell’Europa meridionale potrebbero addirittura dimezzarsi entro il 2050. Il valore dei terreni agricoli, in queste circostanze, diminuirebbe dell’80% entro il 2100, portando a un abbandono del territorio e a gravi ripercussioni sull’intero sistema economico delle singole nazioni e comunitario. Anche se in Europa la sicurezza alimentare non è direttamente a rischio, la maggiore domanda di cibo a livello mondiale si tradurrebbe in un impennata dei prezzi e un conseguente aumento della povertà.
Le alte concentrazioni di Co2, come dimostrato da uno studio pubblicato lo scorso anno su Science Advances, causano anche una progressiva diminuzione delle proprietà nutrizionali del cibo, in particolare del riso, fonte principale di nutrimento per due miliardi di persone in molti Paesi in via di sviluppo. I ricercatori hanno esposto diverse varietà di riso ad alti livelli di Co2, in linea con quelli attesi per la fine del secolo, rilevando una diminuzione della quantità di proteine, ferro, zinco e alcune vitamine, come quelle del gruppo B. Già adesso, a livello mondiale, la malnutrizione è più diffusa di quanto si creda se si considera che non riguarda solo la carenza di cibo o la mancanza di nutrienti fondamentali: nel bacino della malnutrizione rientrano anche tutte quelle patologie tipiche dei Paesi industrializzati, come l’obesità e le malattie metaboliche.
Attualmente, 821 milioni di persone nel mondo sono denutrite (quasi una su 10) e 2 miliardi sono invece sovrappeso o obese (2,5 su 10). Questo succede mentre a livello planetario circa un terzo del cibo prodotto viene sprecato, con poche differenze, in termini di quantità, tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati. A cambiare è solo il momento in cui il cibo viene sprecato: se nei primi il 40% delle perdite avviene a livello della filiera produttiva, nei secondi più del 40% delle perdite si verifica a livello del rivenditore e del consumatore finale. Queste cifre sono doppiamente insostenibili, visto che gli alimenti buttati influiscono sui cambiamenti climatici generando l’8% delle emissioni totali di gas serra.
Secondo gli autori del report delle Nazioni Unite, abbiamo ancora tempo per trovare delle soluzioni e metterle in atto, ma queste passano anche per un nuovo approccio al modo in cui ognuno di noi si rapporta al cibo. Per fermare una potenziale crisi alimentare a livello globale, non bisogna soltanto rivedere le attuali politiche agricole e di utilizzo del suolo, ma anche il comportamento dei consumatori. Rendere l’agricoltura sostenibile, ridurre lo spreco di cibo e convincere le persone a modificare la propria dieta, riducendo il consumo di carne in favore di una dieta a base vegetale, potrebbero fare la differenza nel prossimo futuro. “Non vogliamo dire alle persone cosa mangiare. Ma sarebbe un bene, sia per il clima che per la salute umana, se le persone che vivono nei Paesi ricchi consumassero meno carne, e se le politiche governative incentivassero diete più sane”, ha ribadito Hans-Otto Pörtner, ecologo dell’Ipcc.
Un futuro sostenibile per l’umanità si basa anche su una dieta a base di cibi vegetali, come cereali integrali, legumi, frutta e verdura, e alimenti di origine animale prodotti in modo sostenibile in sistemi a basse emissioni di gas serra. Per la co-presidente del secondo gruppo di lavoro dell’Ipcc, Debra Roberts, una migliore gestione del suolo può limitare i cambiamenti climatici, ma non è l’unica soluzione di un problema che si mostra sempre più complesso e articolato giorno dopo giorno. Per centrare gli obiettivi degli Accordi di Parigi e contenere l’aumento medio della temperatura mondiale al di sotto dei due gradi rispetto ai livelli preindustriali, ripensare il sistema industriale di produzione alimentare è solo uno dei cambiamenti che devono coinvolgere ogni aspetto della nostra società. Siamo arrivati al punto in cui nessun interesse economico può avere la precedenza sul futuro stesso dell’umanità e del Pianeta che abitiamo.