Tra le tante discussioni in ambito zoologico, una delle più sentite è quella sulla distinzione tra animale domestico e animale selvatico, e in particolare sul modo in cui il nostro punto di vista possa influenzare la relazione tra l’uomo e le altre specie. Ma che cosa significano selvatico e domestico? Come considerare gli animali esotici che da generazioni vivono in cattività?
Per dare una risposta serve un confronto dei dati di campi di studio diversi, come genomica, archeologia e antropologia, che permettano di ricostruire la storia dell’evoluzione degli animali e di come sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana. Secondo il professor Greger Larson, direttore della Palaeogenomics & Bio-Archaeology Research Network dell’Università di Oxford, una buona base di partenza sono le definizioni della dottoressa Melinda Zeder, pubblicate nel 2015 per la National Academy of Sciences degli Stati Uniti. Per la ricercatrice la domesticazione è una sorta di mutualismo coevolutivo tra due organismi diversi. Come fa notare Larson, gli esseri umani non sono l’unica specie che ha saputo addomesticarne altre, come dimostrano i casi di formiche che “allevano” afidi (pidocchi delle piante) e “coltivano” particolari tipi di funghi. “ll problema del concetto di domesticazione è lo stesso del concetto di specie. È il tentativo di schematizzare una realtà dalle mille sfaccettature come il mondo naturale in griglie fisse”, sostiene il professore. “Abbiamo infatti tante definizioni di domesticazione, ma non una che sia del tutto soddisfacente. Molti animali cambiano la categoria di appartenenza a seconda della definizione presa in considerazione”.
Un ottimo esempio sono gli animali degli zoo: spesso hanno subito un’importante modificazione dal punto di vista biologico per essere in grado di riprodursi in cattività, tanto che molti di questi esemplari non potrebbero sopravvivere in natura. “In base ad alcune categorizzazioni, si potrebbero dire domestici addirittura tutti gli animali che subiscono l’intervento umano nel ciclo riproduttivo e in altri aspetti della loro vita.
Spesso, quando si parla di domesticazione, si citano gli studi dello zoologo russo Dmitrij Beljaev. Egli aveva portato avanti nel secolo scorso una serie di esperimenti genetici sulla volpe rossa, facendo riprodurre solo gli esemplari che tolleravano di più la presenza umana. Dopo una sessantina di anni il risultato degli studi sono volpi più docili, con una grande varietà di colori del mantello e talvolta le orecchie pendule, che a un occhio inesperto possono ricordare i cani della razza volpino di Pomerania. Gli studi di Beljaev sono spesso usati per dimostrare gli effetti della sindrome da addomesticamento, teoria elaborata due secoli fa da Charles Darwin osservando gli animali domestici. Il naturalista britannico aveva notato che gli esemplari addomesticati avevano delle macchie bianche sul manto, un comportamento più mansueto e dimensioni minori rispetto a quelli selvatici della stessa specie. Per Larson “Non si può negare che la domesticazione provochi dei cambiamenti negli animali, ma non è un fenomeno così semplice come viene descritto. Bisogna stabilire quali caratteristiche vengono influenzate dalla sindrome da addomesticamento e se queste modificazioni valgono per tutte le specie. Non è così. La sindrome da addomesticamento è un’ipotesi intrigante, ma generalmente troppo semplificata”.
“Spesso le persone hanno un’idea sbagliata sul processo alla base dell’addomesticamento. Non si è trattato di un fenomeno determinato, con un uomo primitivo che migliaia di anni fa ha preso un lupo e lo ha trasformato in un cane selezionando, cucciolata dopo cucciolata, gli esemplari più docili. Tra l’animale selvatico e quello domestico esiste un processo dinamico e bidirezionale che continua ancora oggi”, puntualizza Larson. Esistono polli che un mese dopo la nascita, grazie all’intervento umano, sono tre volte più grandi degli esemplari di 60 anni fa, possiamo incontrare alle esibizioni feline razze a metà strada tra il selvatico e il domestico come il caracat e il savannah, nati dall’incrocio con il caracal e il serval africani. Esistono poi casi di animali addomesticati da secoli che sono tornati allo stato selvatico, come i dingo, cani introdotti in Australia dall’uomo circa 3500 anni fa.
Soprattutto negli ultimi duecento anni, l’impronta dell’uomo ha modificato l’ambiente, costringendo gli animali ad adattarsi per sopravvivere. Il fenomeno della sinantropia diventa evidente quando in città come New York e Los Angeles si ambientano e nidificano i falchi pellegrini o a Genova i cinghiali passeggiano tranquillamente nelle strade cittadine, inoltre ci sono i campi e i pascoli necessari per sostenere la popolazione umana: un grande numero di animali come arvicole, volpi e fagiani si è adattato a queste realtà, pur continuando a essere considerati selvatici. Il modo in cui le specie animali si adattano a questi nuovi ambienti assomiglia ad alcuni meccanismi del processo dell’addomesticamento, con dei cambiamenti che modificano il loro comportamento sia con le altre specie che con l’essere umano. La domesticazione non ha solo effetto su animali, piante e batteri, ma anche su di noi. L’esempio più eclatante è la capacità di digerire il latte in età adulta, nota come persistenza della lattasi, sviluppata nell’Europa e nell’Africa subsahariana del Neolitico dalle popolazioni dedite alla pastorizia.
L’etichetta di domestico è in grado di modificare il rapporto che abbiamo con diverse specie, ma spesso si rischiano delle generalizzazioni dannose. Per il professor Larson “La stessa specie animale può manifestare caratteristiche diverse, a seconda del rapporto che ha con l’uomo. Ad esempio, abbiamo conigli negli zoo, nei laboratori, dove sono selezionati per avere determinate peculiarità genetiche, negli allevamenti, nelle case come animali da compagnia e in natura dove resistono diverse specie selvatiche, anche a rischio estinzione. È un errore considerarli tutti allo stesso modo”.
Dare una definizione rigida di cosa sia un animale domestico o selvatico e inserirci a forza interi gruppi di specie non coglie l’essenza di una dinamica complessa, che può essere affrontata solo prendendo in esame il rapporto uomo animale, caso per caso. Rischiamo di perdere di vista la varietà del mondo naturale perché troppo impegnati nella ricerca di una definizione, con l’effetto paradossale di non riuscire più a cogliere la bellezza che la realtà ha proprio nella sua complessità.