Il lavoro del reporter di guerra è forse uno dei mestieri più romanticizzati al mondo: un professionista intraprendente e coraggioso, che, noncurante dei rischi, si spinge dove i più non possono o non vogliono andare. Porta indietro mondi, visioni, atmosfere, e fa sì che quel bagaglio culturale dialoghi con il proprio luogo di partenza, idealmente modificandone l’orizzonte e rendendolo partecipe di quanto avviene al di fuori dei confini nazionali. Pensando alla figura del corrispondente estero viene subito in mente Ryszard Kapuscinski, modello per chiunque voglia intraprendere questo tipo di carriera giornalistica.
Kapuscinski è partito da una Varsavia distrutta dalla seconda guerra mondiale con poco a disposizione, all’infuori di carta e penna. Con pazienza si è costruito una reputazione di giornalista professionista, avendo fin dall’inizio ben chiaro in che direzione tendesse il suo percorso: verso tutto ciò che lo attendeva al di fuori dei confini della Polonia. Una Polonia del secondo dopoguerra stretta da una cortina di ferro, oltre la quale non si doveva spingere lo sguardo, ma che Kapuscinski ha sfidato ugualmente.
La sua stessa biografia è una sequenza di circostanze avverse: nato a Pinsk, nell’attuale Bielorussia, nel 1932, Kapuscinski si trasferisce presto a Varsavia con la madre per sfuggire alle devastazioni naziste. Il padre, chiamato alle armi nel 1939, riesce per un soffio a sfuggire al massacro di Katyn, e si ricongiunge con la famiglia nel febbraio del 1940 a Sierakow, un villaggio a pochi chilometri dalla città polacca. È inverno, la guerra prosegue incessante e famiglie come quella di Kapuscinski riescono a malapena a trovare le risorse per nutrirsi. Ryszard deve improvvisarsi venditore di saponette per potersi permettere un paio di scarpe. Per il resto della sua vita, in tutti i suoi viaggi, si fermerà davanti alle vetrine dei negozi di calzature di tutto il mondo.
Il primo incontro con il giornalismo avviene nel 1946: ancora studente del ginnasio Staszic, incontra il reporter polacco Ksawery Pruszyński. Descriverà l’incontro in Lapidarium: “[…]Serbo ancora oggi il senso di calore che emanava dalla sua persona. L’impressione di qualcosa di buono, di affettuoso, di qualcuno che ascoltava la voce altrui, qualità secondo me indispensabile in un reporter – un reporter deve essere per forza capace di empatia.” Soli tre anni dopo prende in mano la penna e inizia a produrre i primi scritti: poesie che compaiono sul settimanale cattolico, Dziś i Jutro e poi sul socio-letterario Ordrodzenie. I suoi versi compaiono anche sulle pagine di Sztandar Młodych, quotidiano della gioventù comunista con cui inizia a collaborare nel 1950 e fondato il 1° maggio di quello stesso anno. Accanto alla vena poetica inizia a farsi strada anche la vocazione giornalistica che lo spinge, pochi anni dopo, a oltrepassare per la prima volta i confini della Polonia.
Il primo viaggio all’estero è in India, nel 1956, durante il quale scrive il reportage L’India vista da vicino, pubblicato da Sztandar Młodych in dieci puntate, tra il 1956 e il 1957. Poi Karachi e Kabul. L’anno dopo Kapuscinski è Cina, ma con il precipitare della situazione in patria è obbligato a tornare. Non ottenendo un rimborso per il biglietto aereo è costretto a viaggiare in treno fino a Varsavia – esperienza che porterà all’inclusione del capitolo Transiberiana ’58 in Imperium. In quello stesso anno lascia Sztandar Młodych e inizia a lavorare per la Pap, l’agenzia di stampa nazionale polacca, per la quale diventa unico corrispondente in Africa. In questa veste descrive con minuzia e forte capacità interpretativa l’intenso clima politico che accompagna la lunga fase di decolonizzazione del continente. Denunciando in modo eloquente i danni dell’imperialismo occidentale, Kapuscinski vive in prima persona i principali conflitti e le tensioni politiche più importanti degli anni Sessanta e Settanta, a cavallo di tre continenti: Asia, Africa e Sud America. Le sue pubblicazioni, da Ebano a In Viaggio con Erodoto, da La prima guerra del football a Shah-in-Shah, sono un aggregato di testimonianze storiche cruciali, una bibliografia che incarna lo spirito di oltre un ventennio.
Nel corso dei suoi viaggi incontra gli uomini che hanno fatto la storia della decolonizzazione, come Hailé Selassié I, il Negus di Etiopia, deposto il 12 settembre del 1974. Kapuscinski è ad Addis Abeba per capire cosa abbia portato alla fine della millenaria dinastia Salomonide; prende i contatti con l’entourage imperiale e intervista gli uomini più vicini al monarca, ricavandone ritratti poliedrici e minuziosi. Ne nasce un libro, Il Negus, che riesce cogliere il senso di un mutamento storico fondamentale, semplicemente facendo parlare i suoi protagonisti; un resoconto di cosa abbia rappresentato la monarchia di Hailé Selassié, una riflessione sulle cause della sua caduta vista dagli occhi di chi vi ha assistito in prima persona. Durante i suoi viaggi riesce a cogliere le dinamiche che influenzeranno gli equilibri politici per molti anni a venire. Come in Shah-in-shah, dove in poche righe riassume alla perfezione una relazione tra Oriente e Occidente destinata a rimanere sostanzialmente invariata negli anni: “L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente l’Occidente: due mondi che mai s’incontreranno. Mai s’incontreranno e mai si capiranno: l’Asia rigetterà sempre ogni trapianto europeo come un corpo estraneo e niente potrà cambiare le cose, per quanto gli europei si scandalizzino.” Due mondi destinati a non capirsi, a non convergere, nel 1979 come negli anni Duemila.
Kapuscinski ha sempre rincorso l’ignoto, l’esotico, l’inesplorato, animato dalla volontà di sperimentare in prima persona, per poi trasmettere al proprio pubblico quanto imparato in diversi angoli del mondo. Il giornalista polacco non ha mai edulcorato gli scenari in cui si imbatteva, ma ha scelto piuttosto di descrivere le dinamiche di potere e gli sconvolgimenti sociali a cui pochi prestavano attenzione, e a cui ancora meno persone volevano credere. Il reportage, per lui, non è stato solo un lavoro, ma un’ideale a cui dedicare un’intera esistenza di studio, domande e annotazioni. È morto nel gennaio del 2003, lasciandosi alle spalle una letteratura in cui resta racchiuso mezzo secolo di storia.
Avere il coraggio e la forza di uscire al gregge non è scontato, così come non lo è rompere schemi già decisi e imposti come irreversibili. Quando la fiducia in se stessi prevale sul timore della sconfitta, essere voci fuori dal coro diventa a volte un’occasione per lasciare un segno nella storia. Il racconto della vita di questo personaggio rientra nel progetto “Born Confident” sviluppato da THE VISION in collaborazione con Volkswagen, per T-Roc.
Facebook — Twitter — Follow @thevisioncom