James Baldwin: la nemesi del sogno americano - THE VISION

Afroamericano nell’America dei raid punitivi del Ku Klux Klan, omosessuale quando esserlo era ancora ritenuto un’inaccettabile devianza, figlio di un padre biologico mai conosciuto e bistrattato da un patrigno che riteneva la sua dedizione allo studio un’inutile perdita di tempo. James Baldwin non ha iniziato la vita col piede giusto. Eppure è stato in grado di sfuggire dalle strade di Harlem, reclamare con orgoglio la propria identità e sviluppare una visione tutta sua della lotta per i diritti dei neri americani. Visione che spesso l’ha posto in conflitto con altri grandi pensatori del civil rights movement, ma che egli ha sempre difeso con orgoglio e argomentazioni inoppugnabili. Baldwin è stato il teorico più lucido e coraggioso dell’emancipazione afroamericana.

In Italia relegato per anni al ruolo dell’autore di nicchia, il suo nome ha iniziato a comparire insistentemente sulle nostre testate in occasione dell’uscita del documentario I Am Not Your Negro, del regista haitiano Raoul Peck: il lungometraggio accostava sequenze video delle proteste di Ferguson a fotogrammi degli anni del movimento per i diritti civili. Sebbene all’epoca fosse considerato un outsider rispetto alle lotte di Malcom X o Martin Luther King, il suo ruolo per l’emancipazione intellettuale degli afroamericani non può essere sminuito. Al contrario, in un’America che si illude di aver raggiunto una fase post-razziale, dopo l’elezione del primo Presidente nero, Baldwin articola ancora meglio di chiunque altro perché i neri americani siano ben lontani da una condizione di uguaglianza. Ha descritto con una lucidità rara la perversità di un sistema che continua ad autoriprodursi, in cui il soggiogamento di una classe sociale e demografica, quella degli afroamericani, giustifica l’elevamento di un’altra. 

È il 2 agosto del 1924 quando James Baldwin nasce all’Harlem Hospital, a New York. Suo padre non è presente e la sua giovane madre, Emma Berdis Jones, non gliene rivelerà mai il nome; a sostituirne in qualche modo la figura c’è il patrigno David Baldwin, severo predicatore, che la madre sposa quando James ha appena tre anni, e che lo adotta legalmente. Questo primo rapporto turbolento genera nel futuro scrittore un’innata volontà di opposizione alle gerarchie arbitrarie e alle strutture sociali artificiosamente imposte.

Durante i primi anni di scuola, alla Public School 24 di Harlem, incontra la prima persona che lascia un segno importante nel suo pensiero: l’insegnante Orilla Miller. “È certamente anche a causa di quella donna,” spiegherà poi Baldwin, “che è arrivata così presto nella mia vita terrificante, se non sono mai riuscito a odiare del tutto i bianchi.” Miller, da James affettuosamente soprannominata Bill, lo introduce al mondo delle arti, incoraggiandolo al pensiero critico e alla scrittura, discutendo con lui di letteratura, e portandolo finalmente a teatro – rompendo così il divieto imposto per anni e con intransigenza dal patrigno.

Baldwin si trasferisce poi alla Frederic Douglas Junior High, dove incontra i poeti americani Countee Cullen e Herman W. Porter, che insegnano lì. Cullen, al pari di Orilla Miller, influisce in modo notevole sul pensiero di Baldwin. Amato dal giovane ragazzo per il suo calore e la sua apertura mentale, colma quel vuoto lasciato da un padre biologico ignoto e mal rattoppato da un patrigno dittatoriale. Compare nell’esistenza di James e, a differenza di molte altre figure che gravitano nel suo universo familiare, rimane, confortandolo durante una giovinezza sempre più sola e problematica.

Nell’estate del 1938, a soli 14 anni, segue le orme del patrigno, iniziando un percorso da predicatore presso la Chiesa Pentecostale di Harlem. È un periodo di importante conversione religiosa, trattato con estrema lucidità nel suo libro del 1963 The Fire Next Time, ma è anche un gesto di ribellione e provocazione nei confronti di una figura genitoriale oppressiva, che vorrebbe lasciasse gli studi per trovarsi un lavoro. Il pulpito, però, è la scusa con cui Baldwin riesce a ottenere il permesso per proseguire fino al liceo. E, soprattutto, è lì che il futuro scrittore sperimenta la meraviglia e il senso di potere durante le sue omelie e che si rispecchiano nelle grida di entusiasmo della congregazione riunitasi per ascoltarlo. È in questo periodo che il suo discorso assume i toni biblici e solenni tanto familiari e ricorrenti nella sua opera; la sua retorica si fa sempre più chiara e articolata – la sua arma più affilata nella lotta contro una società costruita dai bianchi a misura dei bianchi.

Per quanto preziosa, questa fase dura poco: Baldwin si rende presto conto dell’ipocrisia e del razzismo intrinseci in una Chiesa che venera un dio fondamentalmente bianco, che impone ai neri di porgere l’altra guancia a un sistema di oppressione, portando avanti e giustificando il soggiogamento degli afroamericani. Quelli che seguono sono mesi di confusione e depressione: come sfuggire a una strada popolata da spacciatori e papponi, quando l’unica alternativa apparente – la fede – si rivela in ultima analisi l’ennesimo stratagemma di un America bianca per assicurarsi che gli afroamericani rimangano mansueti?

Nel 1948 Baldwin si trasferisce a Parigi, e la maggior parte della sua vita adulta sarà trascorso a cavallo tra l’Europa e gli Stati Uniti. Paradossalmente, è proprio dal nostro lato dell’Atlantico che riesce a sviluppare con maggior lucidità un pensiero su quanto sta accadendo nel suo Paese d’origine, sulla condizione del nero americano, su cosa ciò implichi. Lo dirà, in un celebre dibattito tenuto a Cambridge nel 1965: il sogno americano è stato costruito sulle spalle ricurve dell’uomo nero. “Io ho raccolto il cotone. Io l’ho portato al mercato. Io ho costruito le ferrovie sotto la frusta di qualcuno”. È forse tra i primi a realizzare, con inaudito coraggio e razionale disincanto, la vera natura dei rapporti tra le razze. Cosa ha portato alla supremazia bianca e che cosa la perpetua: una concezione della realtà che è esclusiva creazione dell’Occidente e che si tramanda di generazione in generazione. “Davvero pensa di poter fare qualsiasi cosa, di poter raggiungere ogni sua ambizione?” pensa il padre, sconsolato e mortificato per non avere in alcun modo il controllo sul destino del proprio figlio. Un senso di impotenza che ha attraversato un oceano, infettando la mente del nero americano, fino ad arrivare alle strade di Harlem. James Baldwin ha visto tutto questo e l’ha dipinto con tratti secchi ed eleganti, pagina dopo pagina.

Il suo pensiero purtroppo non invecchia: The Fire Next Time è il genitore di Tra me e il mondo, di Ta-Nehisi Coates. Un genitore che osserva il proprio figlio e si rende conto di non essere riuscito a fare nulla per far sì che avesse una vita migliore della sua, che qualcosa cambiasse. Medgar Evers, Malcolm X, Martin Luther King Jr: tutti quanti morti assassinati, e per cosa? Perché potessimo avere un Presidente nero? Che significato può avere, oltre al mero simbolismo, un simile avvenimento, se un afroamericano di Detroit o Baltimora che incontra un poliziotto non sa se sarà protetto o buttato con violenza a terra? E così, nel documentario I’m not your negro di Raoul Peck, le immagini delle proteste in Alabama degli anni Sessanta si mischiano senza soluzione di continuità ai riot di Ferguson, mentre fuori campo la voce di Baldwin continua, perentoria, a descrivere uno status quo che tuttora non vuole cambiare. Una piaga, che affligge i neri quanto i bianchi, che deforma e abbrutisce il volto sorridente del sogno americano.

Avere il coraggio e la forza di uscire al gregge non è scontato, così come non lo è rompere schemi già decisi e imposti come irreversibili. Quando la fiducia in se stessi prevale sul timore della sconfitta, essere voci fuori dal coro diventa a volte un’occasione per lasciare un segno nella storia. Il racconto della vita di questo personaggio rientra nel progetto “Born Confident” sviluppato da THE VISION in collaborazione con Volkswagen, per T-Roc.

Seguici anche su:
Facebook    —
Twitter   —