Le origini della performance art si collocano tra i tavolini dei locali europei di inizio Novecento, dove l’estro artistico di attori, pittori e poeti dalla vita bohemien trovava un pubblico per potersi esprimere liberamente. Storicamente, però, vi è un luogo preciso cui venne affidata la genesi dell’arte performativa: il Cabaret Voltaire di Zurigo, fondato – e chiuso – nel 1916 da Hugo Ball, giovane attore e musicista, insieme alla compagna Emmy Hennings, cantante e attrice. Il Cabaret, dedicato all’autore dell’anticonvenzionale Candide ou l’optimisme, divenne la prima sede del movimento Dadaista e la casa di una serie di esibizioni realizzate fuori dal contesto canonico dei teatri: provocatorie, assurde e irripetibili.
Dal 1916 in poi l’arte performativa cambia, evolve, ma senza perdere il desiderio di stupire il pubblico e raccontare le tante nuove sfaccettature dell’uomo moderno tramite un linguaggio inedito: quell’eredità lasciata sulla soglia del Cabaret Voltaire viene raccolta da tanti altri artisti. Negli anni Quaranta, negli Stati Uniti, il compositore John Cage e il suo compagno di vita e di lavoro Merce Cunningham creano un connubio insolito tra musica e danza e nel 1952, con “Theater Piece No. 1”, danno vita al primo happening comunemente inteso, ossia un evento artistico all’interno del quale convivono più forme espressive accomunate dalla creazione di qualcosa di irripetibile. Sulla soglia degli anni Sessanta, sempre negli Stati Uniti Allan Kaprow dà vita ai 18 Happenings in 6 Parts, sconvolgendo le regole del teatro, mentre in Europa Yves Klein e Piero Manzoni propongono anche loro delle azioni con lo scopo di impedire all’arte di essere relegata nelle gallerie o nei musei. Gli anni Settanta, poi, porteranno al definitivo riconoscimento della performance all’interno della storia dell’arte ed è proprio in quegli anni che in Europa si formano due tra i più importanti e acclamati performer del ventesimo secolo: la coppia di vita e d’arte formata da Marina Abramovic e Ulay.
Entrambi nati il 30 novembre, ma in anni diversi: lui nel 1943, di origine tedesca e figlio di un gerarca nazista, una circostanza che in età adulta lo spingerà a disconoscere le sue origini e la sua nazionalità; lei nel 1946, di Belgrado e con genitori partigiani. Si conoscono ad Amsterdam nel 1976, nei locali della Galleria de Appel, ed è amore a prima vista.
Al momento del loro incontro, Abramovic è una ex studentessa dell’Accademia di belle arti di Belgrado che si è trasferita nella capitale olandese per lavorare alle sue performance. Ulay, pseudonimo per Frank Uwe Laysiepen, è invece un ex ingegnere votato all’arte, non ha una canonica educazione artistica formata in un accademia ma, come riconosciuto da Abramovic, ha un forte senso estetico e un grande talento per la fotografia.
Abramovic e Ulay prendono la decisione non solo di vivere insieme, ma di lavorare insieme, e iniziano così a viaggiare attraverso l’Europa in un furgone adibito a camper, un ex cellulare della polizia Citroen HY, che diventa la loro casa e il loro studio; i due artisti nominano questo stile di vita “Movimento permanente”. Vivono di poco, senza riscaldamento, senza acqua corrente, mangiando quello che gli viene offerto, e ogni tanto ricavano denaro dalle loro esibizioni o dalle polaroid realizzate da Ulay, soldi che prontamente riutilizzano per soddisfare i loro bisogni primari. Questa esperienza esistenziale durerà cinque anni ed entrambi la definiranno il periodo più bello della loro vita.
La serie di lavori realizzati in coppia viene denominata Relations works: esibizioni complesse e disturbanti, funzionali a esplorare i limiti fisici e psichici della resistenza umana e il tema della relazione uomo-donna. I loro intenti sono descritti nel manifesto Art Vital. “Arte viva: nessuna dimora fissa, movimento permanente, contatto diretto, relazione locale, autoselezione, superare i limiti, assunzione dei rischi, energia in movimento, nessuna prova, nessuna fine prefissata, nessuna replica, vulnerabilità estesa, esposizione al caso, reazioni primarie”.
Le prime performance che vengono concepite agli inizi del loro rapporto sono fisicamente estreme. In “AAA-AAA”, “Relation in time” e “Breathing in / Breathing out” i due artisti rendono visibili le sofferenze, le contraddizioni e le necessità del legame di coppia: si presentano come un essere androgino, capace di contenere al suo interno le energie maschili e femminili contemporaneamente. Nella prima esibizione, “AAA-AAA”, siedono uno di fronte all’altra emettendo un suono monotono che con il passare dei minuti diventa sempre più intenso, fin quando si trasforma in un urlo e uno dei due cede esausto.
Nella seconda performance, “Relation in time”, realizzata a Bologna, gli artisti influenzati dalle pratiche di meditazione asiatiche, siedono uno di spalle all’altro con i capelli legati saldamente tra di loro per sedici lunghe ore. Al pubblico è permesso di assistere all’ultima ora quando, colti dalla stanchezza, i due iniziano a lasciarsi andare fisicamente.
“Breathing in / Breathing out” raggiunge un livello ancora più alto di suggestione: Abramovic e Ulay serrano le loro bocche l’una con l’altra, tappano le narici con filtri per sigarette e respirano l’aria espulsa dall’altro per 17 minuti fin quando collassano a terra praticamente avvelenati dall’anidride carbonica emessa dall’altro.
Nel giugno 1977, nel pieno della rivoluzione sessuale, Abramovic e Ulay realizzano “Imponderabilia” nei locali della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. L’esibizione è ancora parte dell’immaginario collettivo per l’audacia e l’intelligenza dimostrate tramite l’esecuzione di un gesto semplice e di grande impatto. Si posizionano, infatti, uno di fronte all’altra all’ingresso della Galleria, completamente nudi, costringendo in questo modo il pubblico a passare tra i loro corpi. L’esibizione mette a dura prova il visitatore italiano, obbligandolo a confrontarsi con sentimenti come la vergogna e il pudore, in un momento storico di passaggio epocale da una società puritana a una sessualmente più libera e disinibita.
“Rest Energy” alza poi il grado di difficoltà delle loro prove artistiche fino a fargli rischiare l’incolumità: dimostrando al pubblico che la forza della loro arte sta nel viverla fino all’estremo, pur di creare una frattura nella sensibilità di chi guarda. I due frappongono tra loro un arco: la freccia è puntata al cuore di Abramovic che tira l’arco verso di sé dalla parte dell’impugnatura, mentre Ulay tende la corda. Il baricentro dei due è abbandonato, solo l’arco li tiene in piedi. I microfoni registrano i battiti del cuore e il respiro affannato di entrambi: la vita di lei è in balia dell’equilibrio che si crea tra di loro: un minimo cedimento, la potrebbe uccidere. La performance dura quattro interminabili minuti, in cui riescono a rappresentare i concetti di tempo e di fiducia in un unico gesto.
Abramovic e Ulay hanno condiviso dodici anni, amandosi e lavorando insieme. In una recente intervista televisiva lei ha confessato che gli ultimi tre anni di relazione sono stati orribili: tradimenti, incomprensioni, accuse. Più la loro fama cresceva, più il rapporto di coppia si deteriorava. Ulay mal sopportava la celebrità, mentre Abramovic riesce tuttora a gestirla e a beneficiarne per far conoscere le sue idee.
Nel 1988 decidono di lasciarsi a modo loro: una decisione sofferta e privata viene trasformata ancora una volta in un atto artistico e in un gesto suggestivo per ogni coppia che abbia deciso di porre fine a un grande amore. La loro ultima performance è “The Lovers: The Great Wall Walk”. L’ultimo atto epico di un amore che ha cercato di rendersi intelligibile a tutti, tanto da raggiungere il grado di universalità e quindi di totale condivisione. Con un’azione che ricorda quella che inaugurò l’inizio della loro storia – quando cominciarono a frequentarsi a Praga, simbolicamente scelta come luogo a metà strada tra le loro città di origine, Berlino e Belgrado – per onorare la fine, scelgono la Grande muraglia cinese. Camminando ognuno dai due estremi opposti della Muraglia, stabiliscono di incontrarsi a metà strada dopo novanta giorni e porre fine, con grande commozione, alla loro storia.
Marina Abramovic e Ulay da quel momento non avranno più rapporti per 23 anni, fin quando, in occasione della performance organizzata da lei al Moma di New York intitolata “The Artist is Present” che la costringe a rimanere seduta per sette ore al giorno davanti a un tavolo con di fronte a una sedia vuota, Ulay si presenta. A turno il visitatore può sedersi di fronte all’artista e guardarla in silenzio per due minuti. Inaspettatamente c’è anche il suo vecchio compagno d’arte e di vita a sedersi su quella sedia, dando vita a un momento commovente: una performance nella performance – estemporanea, irripetibile – che, nata nell’epoca dei social network, sarà soggetta al destino della condivisione raggiungendo il pubblico più vasto possibile.
“Io sono una metà, lui è una metà e insieme siamo un’unità”, ha detto Marina Abramovic riguardo a se stessa e a Ulay. Negli anni, molti critici e detrattori li hanno accusati di non aver fatto vera arte, ma comunque la si pensi, non si può negare che i loro lavori abbiano creato suggestioni i cui effetti riverberano ancora oggi negli occhi e nella coscienza di chi decide di rivedere le loro esibizioni. Insieme hanno indagato la forza di un istante, la precarietà del rapporto di coppia, con i suoi veleni e i suoi inspiegabili equilibri e hanno dimostrato l’instabilità del concetto di tempo, dando a loro modo un contributo essenziale all’espressione umana.
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