I cimiteri sono contenitori di storie, luoghi di incontro di morte ed eternità. All’Hendersonville Memory Gardens di Hendersonville, Tennessee, ci sono due lapidi, una accanto all’altra, che appartengono a una coppia che si è ricongiunta a pochi mesi di distanza. Lei è mancata nel maggio 2003, lui a settembre di quello stesso anno. Dietro alle lapidi c’è un monumento con le scritte I walk the line e Wildwood flower, le loro canzoni. Questa è la storia di Johnny Cash e June Carter, e della loro immortalità.
Al Grand Ole Opry, storico show radiofonico che ospita il gotha della musica country americana, il giovane Johnny ci si trova quasi per caso. È a Nashville per la gita scolastica dell’ultimo anno del liceo, sul finire degli anni Quaranta, e ha la fortuna di ascoltare sul palco la Carter Family, gruppo che generazione dopo generazione attraversa i meandri degli States spaziando tra folk, gospel e country. Sul palco è presente anche June, una ragazzina che si esibisce con le sorelle e la madre Maybelle. Johnny resta ipnotizzato dalla sua folta chioma corvina e promette a se stesso che un giorno, se dovesse incontrata di nuovo, le parlerà. Promessa mantenuta nel 1961, nello stesso luogo.
Johnny si presenta nel backstage del Grand Ole Opry per incontrare June. Ormai è anche lui un musicista e cantante di rilievo, e porta con sé gloria e cicatrici. Un fratello rimasto ucciso in un incidente sul lavoro, un rapporto conflittuale con il padre, la fama raggiunta grazie alla musica e il seguente crollo nel vortice dell’alcool, delle anfetamine e dei barbiturici. Una vita in tour e la frase “Hello, I’m Johnny Cash” come preludio ai suoi testi di sofferenza e di riscatto, figli di quell’America rurale, fatta da bibbie e pistole, tanto cara a William Faulkner prima e a Cormac McCarthy poi. Quando incontra June non si perde in preamboli, annunciandole perentoriamente: “Tu ed io ci sposeremo, un giorno”.
Entrambi sono già sposati, June fa parte di una rispettabile famiglia che considera i tipi come Johnny dei tangheri. La sinergia artistica è però sin da subito fortissima e spinge June ad aderire al tour itinerante di Cash in giro per l’America. I due si esibiscono anche insieme, dando vita a duetti di rara intensità emotiva. Un giorno June scrive una canzone, (Love’s) Ring of fire, e la fa registrare dalla sorella Anita. Poi la fa ascoltare a Johnny, che le promette di inciderne una sua versione, se quella di Anita non dovesse raggiungere il meritato successo. La canzone viene snobbata dal pubblico, e Johnny compie la sua rivoluzione sul brano, divenuto semplicemente Ring of fire. La sua interpretazione raggiunge le vette delle classifiche nel 1963. Tra i due l’alchimia è assoluta, e ben presto oltrepassa le barriere dell’arte, raggiungendo un’intimità preclusa a due persone sposate.
Ma June deve anche fare i conti con la vita di Johnny, e con i suoi demoni. Anni dopo, la cantante, dichiarerà: “Mi sentivo come se fossi caduta in un pozzo infuocato, e stavo letteralmente bruciando viva”. Cash sta infatti attraversando una fase in cui droghe e farmaci mettono a dura prova la sua lucidità. Nel 1965 brucia accidentalmente 283 ettari di parco in California per un incendio al suo camper e se la cava con una multa salata. Ma il carcere, in questa spirale di autolesionismo, non tarda ad arrivare. Il caso vuole che non passi mai più di una notte al fresco, anche quando viene arrestato per ubriachezza molesta o quando, sempre nel 1965, viene beccato dalla squadra narcotici di El Paso con anfetamine e sedativi nel fodero della chitarra. L’abisso della droga lo deteriora, la sua mente vacilla nelle zone d’ombra dell’irrequietezza e dell’autodistruzione. Il matrimonio con la moglie Vivian è al capolinea: lei lo accusa di crudeltà mentale e ottiene il divorzio. Anche June si separa dal marito, ma tentenna di fronte alla possibilità di unirsi a Johnny: la sua vita dissoluta le fa paura, ma prova in ogni modo salvarlo dai suoi fantasmi, a costo di renderli anche suoi, portandone il peso sulle sue spalle. Lei, una fervente cristiana che già era in lotta con se stessa quando da sposata desiderava l’uomo di un’altra donna, attraversa un periodo tormentato e decide di correre il rischio di bruciarsi, insieme all’uomo che ama.
Johnny tocca il fondo nel 1968, con un’overdose-tentativo di suicidio che segna la svolta per un risveglio spirituale. L’intenzione è quella di rinunciare per sempre a pillole e alcool. Prova a convincere June dei suoi propositi, definendosi un uomo nuovo, pulito, pronto a seguire quella retta via tanto cara alle tradizioni della famiglia Carter. Le chiede di sposarlo; non una, ma trenta volte. Lei però tentenna, non riesce a tollerare lo stile di vita di Johnny e inizialmente non crede alle sue promesse. Non è disposta a unirsi, pur amandolo, a un uomo del genere. Ogni volta rifiuta. Dopo tutti quei no Johnny si sente smarrito. June gli comunica che gli rivolgerà la parola soltanto sul palco. A London, in Canada, i due si esibiscono intonando la canzone Jackson, quando a un tratto lui si ferma. Il pubblico non comprende il motivo di quella pausa, la musica si interrompe e June rimane sul palco disorientata, senza capire che cosa stia accadendo. In quel momento Johnny le chiede nuovamente di sposarlo, davanti a tutti. D’altronde sono su un palco, quindi lei può rivolgergli la parola. E dice di sì.
Da quell’istante comincia un’altra storia, quella meno cinematografica e più reale. Una quotidianità durata 35 anni e senza mai separarsi. Johnny riscopre la fede in Dio, passa quasi un decennio lontano dalle droghe, sforna successi e dà vita ad alcuni dei concerti più iconici del Novecento nelle prigioni. I suoi celebri album Johnny Cash at Folsom Prison e Johnny Cash at San Quentin sono sinceri e racchiudono l’essenza dell’artista: Cash è probabilmente l’unico artista a risultare coerente in luoghi del genere, i suoi testi vengono apprezzati dai carcerati perché vi riconoscono la verità, senza stratagemmi o scenari artefatti. In qualche modo è uno di loro, perché racconta le loro storie e le ha vissute.
Negli anni Settanta Johnny alimenta la mitologia del Man in black, spiegando di indossare il nero per i poveri e per gli oppressi, distaccandosi dai classici indumenti sgargianti della tradizione country. Verso la fine del decennio la sua popolarità inizia a diminuire, perché i gusti degli ascoltatori virano su sonorità più moderne e Johnny Cash appare come il personaggio sbiadito di un tempo ormai passato. June prova a confortarlo, ma i vecchi fantasmi tornano a galla: Cash torna a consumare anfetamine e, negli anni Ottanta, inizia un percorso di tossicodipendenza che lo costringe più volte a ricoveri per disintossicarsi. Si ammala di diabete, problemi cardiaci, peritonite, polmonite. Il suo fisico sta cedendo, e June se ne accorge.
Lei è costretta a destreggiarsi tra la florida carriera di cantante, alcune apparizioni sul grande e sul piccolo schermo e l’accudimento di un uomo che sta toccando il fondo. Eppure sente che lui resisterà e che non sarà il primo ad andarsene. Nel profetico album Press on, canta: “Se sarò davvero io la prima ad andar via, e, chissà come, mi sento che sarà così, quando sarà il tuo turno non sentirti perso perché sarò io la prima persona che vedrai. Così, senza aprire gli occhi, aspetterò su quella spiaggia finchè non arriverai tu, e allora vedremo il paradiso”. Johnny ormai si regge soltanto sull’amore per June. “Non voglio fare nessun viaggio se lei non può venire con me”, dichiara, e in una celebre lettera indirizzata alla moglie la definisce “la prima ragione della mia esistenza”.
Negli anni Novanta, inaspettatamente, torna per Cash il successo planetario, grazie a cover di brani famosi che reinterpreta nel suo stile. La più riuscita è certamente Hurt dei Nine Inch Nails, una disarmante testimonianza del dolore umano. Sono gli ultimi anni, quelli dell’affanno e del massimo decadimento fisico. Johnny e June, come per gran parte della loro vita, li trascorrono insieme, sostenendosi a vicenda. L’ultimo riconoscimento per lei arriva nel 1999 con il Grammy proprio per l’album Press on. L’ultimo disco, Wildwood flower, viene registrato poco prima di una delicata operazione a una valvola cardiaca. Le complicazioni di questa operazione sono fatali per June, che muore nel maggio del 2003. In quel momento finisce anche la vita di Johnny. Lui lo sa già quando si presenta per l’ultima esibizione in pubblico, al Carter Family Fold in Virginia. Fa commuovere la platea con una frase, la più cruda e sincera di tutte: “Il dolore è così forte che non c’è modo di descriverlo”. E a quel dolore non riesce a sopravvivere. Muore pochi mesi dopo, nel settembre del 2003.
June Carter e Johnny Cash non sono stati soltanto due pilastri della musica americana o una coppia da film, messa in scena per esempio in Walk the line da Joaquin Phoenix e Reese Whiterspoon, ma l’incarnazione di un amore divorante e reale perché vissuto tra le luci della ribalta e i lati più oscuri delle debolezze umane. Fuori dalle canzoni c’era la vita, e loro l’hanno attraversata tenendosi per mano, ferendosi, sanguinando e salvandosi a vicenda ogni giorno, fino all’ultimo.
Non è facile scendere a compromessi quando a esprimersi è il genio creativo, ma ci sono capolavori del mondo dell’arte, della musica, del cinema e della cultura rimasti immortali che non sarebbero mai nati senza la collaborazione, più o meno controversa, tra due personaggi il cui incontro sembrava inevitabile e necessario. Il racconto della storia di questa coppia rientra nel progetto sviluppato da THE VISION in collaborazione con Volkswagen per 2 Share, la nuova iniziativa di noleggio condiviso che ti permette di condividere un’automobile con chi vuoi.
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