Era il 1845 quando Henry David Thoreau si ritirava sulle rive del lago Walden, vicino a Concord, Massachusetts. Per due anni il filosofo americano visse in mezzo alla natura e scrisse la sua opera più famosa, Vita nei boschi. In quel libro Thoreau espresse al meglio quel concetto di wilderness, che nel suo rapporto conflittuale alla civilization contribuì a creare uno dei miti fondanti della cultura americana: la frontiera. La wilderness, intesa come natura selvaggia, immacolata, ha per gli americani il doppio significato di libertà legata all’innocenza, e di conquista, legata all’affermazione del proprio io, della propria identità. Spostare in avanti anche solo di un passo la frontiera – intesa come il confine tra il mondo umano con il mondo naturale – è la più grande conquista immaginabile, conquista per cui, la storia ci mostra, il popolo americano non ha mai esitato a fare vittime. La contraddizione di questo mito fondante nasce nel momento in cui, una volta soggiogata, la natura viene concepita come perduta e come un mondo primigenio a cui l’uomo ambisce ritornare.
Questa antinomia irrisolvibile ha spinto gli americani a compiere alcune delle scelte più tragiche della loro breve storia, una su tutte lo sterminio del popolo indiano. L’intera epopea del Western è infatti fondata sul mito della frontiera, con i nativi americani a rappresentare, in successione, il nemico, lo straniero, il diverso da debellare per conquistare la natura, per poi, neanche troppi anni dopo, riconoscere nel popolo indiano un’umanità così vicina al mondo naturale da rappresentare un’innocenza persa a cui anelare. In termini cinematografici, questo divario così profondo è facilmente comprensibile guardando prima Stagecoach, diretto da John Ford del 1939, e poi Balla coi Lupi, esordio alla regia di Kevin Costner del 1990.
Uscito nel 2015, The Revenant si inserisce in questa lunga tradizione di film che affrontano il concetto di civilization vs wilderness, riuscendo nel difficilissimo compito di aggiornare e portare in avanti il discorso, non solo in termini tematici ma, soprattutto in termini tecnici, di realizzazione della pellicola. Iñárritu con The Revenant è riuscito a conquistare preziosi metri nella frontiera del linguaggio cinematografico e del nostro immaginario. Ambientato nel North Dakota del 1823, il film segue la storia di Hugh Glass, esperto cacciatore e mountain man, incaricato di guidare un gruppo di coloni americani alla ricerca di pellicce. Un attacco della tribù Arikara miete molte vittime nella spedizione, lasciando in vita un manipolo di pochi uomini, tra cui Glass, suo figlio Hawk – avuto da una relazione con una indiana Pawnee – il capitano Henry, il giovane cadetto Bridger e lo spietato cacciatore Fitzgerald. Sulla strada del ritorno verso l’avamposto, Glass viene aggredito da una femmina di grizzly che lo riduce in fin di vita. Fin da subito il gruppo si rende conto che trasportare Glass attraverso il freddo impervio significherebbe decretare la morte di tutti. Solo su insistenza del capitano, Hawk, Bridger e Fitzgerald rimangono con Glass ad aspettare soccorsi. Ma basta poco a Fitzgerald per tradire la promessa fatta e, dopo aver ucciso suo figlio, il cacciatore seppellisce vivo Glass. Capiamo il significato del titolo del film – The Revenant, cioè “colui che ritorna” – quando vediamo Glass uscire dalla sua tomba, moribondo, con gli occhi iniettati di sangue. Attraverso una serie di avventure macabre e di incontri al limite del misticismo, Glass farà ritorno al fortino alla ricerca della sua vendetta su Fitzgerald.
Tratto da un libro di Michael Punke del 2002, a sua volta ispirato alla vera storia del cacciatore Hugh Glass, The Revenant è una classica storia americana di scontro con la natura e di vendetta. I topoi ci sono tutti: un uomo solitario, taciturno, immerso in un mondo che lo sovrasta, meravigliandolo e opprimendolo. Una famiglia uccisa ingiustamente, un cattivo accecato da valori materialistici e un po’ di sano machismo che, in una certa tipologia di film americani, non guasta mai. Fox acquisisce i diritti del libro nel 2001 e in fase di sviluppo non era prevista la partecipazione né Iñárritu né di Leonardo DiCaprio. La prima scelta era caduta su Park Chan Wook, il famoso regista coreano che, avendo già altri impegni, dovette rifiutare, con Samuel L. Jackson nel ruolo di protagonista. Fortunatamente, per tutta una serie di incastri tipicamente hollywoodiani, siamo arrivati al cast tecnico e artistico che abbiamo potuto ammirare sullo schermo.
Il Glass di DiCaprio si muove nel mondo incontaminato canadese in cui si sono svolte le riprese, con la grazia e la coscienza di un eroe di Malick, e i pochi frammenti del suo monologo interiore che abbiamo il privilegio di sentire sembrano riportare proprio a quel tipo di immaginario: un uomo solo, con un rimpianto originale che pesa sulle sue spalle, come una colpa da espiare, un più interrogativi che certezze, interrogativi spesso rivolti al mondo naturale che lo circonda. Glass non è affatto lontano dal Witt della Sottile Linea Rossa (che si chiedeva, rivolgendosi a una foresta nel Pacifico: “Chi sei tu per apparire sotto tante forme?”) o dai monologhi di The Tree of Life. Pur militando nelle file degli oppressori occidentali, che violentano l’innocenza della natura, Glass riesce a incarnare una morale animista e naturalista che i cacciatori americani sembrano aver smarrito. È molto probabilmente grazie a questo suo sguardo puro sul mondo che Glass riesce a fare ritorno dal regno dei morti. In questo senso Glass rappresenta l’impossibile riconciliazione fra le due antitesi di cui si parlava nell’incipit: è sia l’uomo che arriva a profanare la natura, aiutando il percorso di conquista della frontiera – e di conseguenza la civilizzazione – sia l’uomo che riesce a mantenere la propria anima intatta. Per fare questo, però, è stata necessaria la sua morte. Morendo e resuscitando Glass riesce a dire addio alla sua indole occidentale e a diventare tutt’uno con la natura: un percorso, un movimento che, chiaramente, non è stato possibile a nessun americano nel mondo reale. Il Dunbar di Kevin Costner – e tanti altri eroi che nella cinematografia statunitense spostano il baricentro della loro morale da un opposto all’altro – pur compiendo un viaggio simile a quello di Glass, non riesce a rappresentare con la stessa potenza ed efficacia il significato di un simile cambiamento. D’altronde, come ci insegna il cristianesimo, non esiste gesto più efficace in termini simbolici della resurrezione.
Per la sua interpretazione di Hugh Glass, Leonardo di Caprio ha vinto il suo primo Oscar come miglior attore. Si potrebbe cadere nell’errore di pensare che quella a DiCaprio fosse una statuetta quasi dovuta dopo le tante nomination non concretizzate. Ma, così facendo si farebbe un grande torto all’eccezionale performance dell’attore. The Revenant più che un film è un’esperienza: si esce dal cinema esausti ed infreddoliti, contenti che esista la coibentazione a casa nostra, felici dei nostri meritatissimi comfort. E l’interpretazione di DiCaprio ha un ruolo fondamentale nel creare quest’esperienza. La sofferenza è palpabile sulla sua pelle. Quelle che vediamo sono ferite in silicone, prostetiche, ma DiCaprio le porta come se fossero le sue. Il freddo che taglia la pelle è palpabile e ogni singola espressione di dolore appare più che vera. Dopo giorni di digiuno e fame Glass incontra un indiano che gli offre del fegato di bisonte. Di Caprio, vegetariano convinto, ha voluto un vero fegato da azzannare. Il risultato si vede nella sua reazione a quel morso.
Spingere ai limiti la propria professionalità e creatività è stato il mantra di tutta la produzione di The Revenant. Linguisticamente, il regista Iñárritu e il direttore della fotografia Lubezki hanno costruito un’opera incredibile che si studierà sui manuali di cinema per molto tempo a venire. Tutto nella produzione di questo film ha contribuito a spingere la frontiera del cinema un passo avanti. La scelta delle location è stata operata nell’ottica di trovare terre realmente immacolate, non solo paesaggisticamente ma anche cinematograficamente parlando. Iñárritu voleva orizzonti innevati mai ripresi dalle telecamere. Il riscaldamento globale ha reso questa ricerca ancora più difficile perché, una volta individuata la location ideale in un’area vicina a Calgary, Canada, l’inverno più caldo di sempre ha reso la disponibilità di neve minore e si è dovuto supplire con neve artificiale. Lubezki ha voluto girare solo ed esclusivamente con luce naturale, una scelta estrema che ha ripagato, mostrando l’immensa vastità delle terre inquadrate perdersi in cieli mai così bianchi. Ovviamente questo ha reso le riprese ancora più difficili considerato che le location dovevano essere tutte orientate verso Sud e Sud-Ovest e che le ore buone per le riprese erano davvero poche. Questo ha spinto gli attori a vivere ogni singolo take come una pièce teatrale, un unicum spesso irripetibile. Iñárritu ha poi deciso di girare tutto il film in ordine sequenziale: il modo in cui si dipana la storia per lo spettatore è lo stesso in cui le scene sono state girate. Una scelta folle, dal punto di vista della produzione, perché è significato continuare a spostarsi da una location all’altra senza poter mai ottimizzare, allungando a dismisura i tempi di realizzazione.
È così che Iñárritu e Lubezki hanno potuto creare alcune delle scene più memorabili della cinematografia degli ultimi dieci anni. La citatissima scena della lotta all’orso ha davvero qualcosa di incredibile, una magia che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile: ovviamente, infatti, sul set non era presente nessun orso e l’animale è stato interamente ricreato in CGI. Così come l’ambiente in cui si svolge la scena è stato costruito ad hoc: gli alberi sono di gomma e Di Caprio è legato a diversi cavi che gli permettono quei sobbalzi che imitano i colpi ricevuti dalle zampe dell’orso. Era invece presente sul set il cavallo morto dentro cui Glass cerca rifugio durante la notte. L’animale, realizzato interamente in silicone è stato riempito di finti organi e sangue caldo. I lunghi piani sequenza di Iñárritu, a cui ci aveva già abituato in Birdman, qui raggiungono vette inarrivabili se, oltre alla difficoltà del movimento di macchina, si aggiungono tutti gli elementi sopra citati, che rendono evidente l’impresa titanica svolta dalla troupe nei lunghi mesi di lavorazione.
Rivedere tre anni dopo la sua uscita The Revenant offre un piacere ancora intatto, un’emozione che non è stata scalfita minimamente dal tempo. Questa sensazione di immutato godimento è possibile solo quando ci si trova di fronte a un oggetto che si allontana dal cinema di tutti i giorni per entrare a testa alta nel regno dell’opera d’arte.
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