Un piovoso sabato pomeriggio, piazza San Babila a Milano si riempie di una trentina di cinquantenni. Un po’ appesantiti, capelli ingrigiti, indossano giubbotti colorati, occhiali da sole, cinture con vistose fibbie argentate e gli immancabili Timberland Yellow Boots ai piedi. Sono i paninari, o almeno ciò che resta di quella estetica edonistica che fu possibile solo nella parentesi felice degli anni Ottanta, quando tutto, compreso abbinare il giallo con il viola, sembrava possibile. Quasi a cadenza annuale, gli ex frequentatori di Burghy, il primo fast food aperto in Italia nel 1981, si radunano nella piazza milanese per ricordare i bei tempi che furono.
Quello del “paninarismo” fu un fenomeno prettamente milanese, anche se presto si diffuse in tutto il Nord Italia e a Roma, dove gli assidui utilizzatori di bomber venivano chiamati “tozzi”. Il nome stesso del gruppo deriva da un bar di Piazza Liberty, “Al Panino”, che ancor prima dei fast food rappresentò il luogo di ritrovo di galli e squinzie. I paninari non erano un movimento nel vero senso della parola. Non si appoggiavano a ideologie o valori comuni, quanto piuttosto a un’estetica condivisa che era resa possibile dall’estrazione sociale medio-alto borghese. Questo si traduceva soprattutto nell’ostentazione della ricchezza attraverso vestiti firmati, beni acquistati rigorosamente dai genitori. “I gruppi giovanili che una volta si scontravano per ideologie politiche, neri contro rossi, rossi contro neri”, scriveva in proposito Natalia Aspesi nel 1985, “Oggi si coagulano attorno a una marca, scendono in guerra per la conquista di una ‘firma’”.
E la guerra era una vera e propria guerra di classe. Paninari non si diventava, lo si era per dinastia. Con la consueta chiusura delle sottocolture giovani, se non bastava una borchia a farti metallaro, non bastava nemmeno una felpa Best Company a farti paninaro. Ma la differenza sostanziale è che tra i metallari, i punkabbestia o i dark, il ceto sociale e la ricchezza non erano discriminanti: la musica faceva da collante, da terreno comune, e bastava avere il look e i dischi giusti per entrare a farvi parte, al di là delle differenze di classe. Per i paninari, invece, l’immagine era l’unico distinguo, ed era diretta conseguenza di uno stile di vita in cui i soldi non erano un problema, perché ce n’erano in abbondanza. Lo stesso clima di benessere reageniano in America aveva prodotto gli yuppie, i giovani e rampanti lupi di Wall Street, che in Italia vennero parodiati in un film di Carlo Vanzina. I paninari erano frutto della stessa cultura di riflusso disimpegnato, ma a un livello ancora più estremo. Non volevano produrre ricchezza come gli yuppie, ma solo sfruttarla. E chi non la sfruttava, cioè non poteva permettersi di acquistare quegli abiti, era automaticamente escluso.
Il riflusso italiano che permise l’ascesa dei paninari si differenzia da quello americano perché il nostro Paese usciva da un decennio molto difficile. La marcia dei 40mila quadri e impiegati Fiat che nel 1980 protestarono contro i continui picchettaggi degli operai rappresentò un vero e proprio punto di svolta che sancì la fine degli anni di piombo, la vittoria del ceto medio sulle polarizzazioni ideologiche degli anni Settanta. C’è da dire che i primissimi paninari che si radunavano al bar Al Panino e in piazza San Babila, i cosiddetti sanbabilini, erano i giovani di estrema destra che pochi anni prima erano stati immortalati da Carlo Lizzani nel film San Babila ore 20: un delitto inutile. Ma ben presto le aspirazioni politiche vennero lasciate da parte per abbracciare una vita disimpegnata fatta di shopping nei negozi di culto, scorpacciate di hamburger, concerti dei Duran Duran e capodanni a Courma.
Le ultime tendenze si scoprivano su pubblicazioni dedicate, come l’albo a fumetti Il Paninaro – I nuovi galli, pubblicato dal gennaio 1986, o Preppy, la versione femminile. Qui la cultura dei paninari ebbe forse la sua definizione più sistematica, soprattutto dal punto di vista linguistico. Termini come “togo”, “sfitinzia”, “matusa”, “un cifro” sono invenzioni dei paninari (che in qualche caso sono riuscite a sopravvivere anche oggi) talvolta spontanee, talvolta acquisite. L’imitazione del paninaro di Enzo Braschi a Drive In, programma di culto in quegli anni, nata con l’intento di prendere in giro i galli, diventò suo malgrado una fonte d’ispirazione per il vocabolario milanese. Anzi, lo sketch diventò così popolare che Braschi recitò la stessa parte nel film cult Italian Fast Food (1986), al fianco di altri colleghi del programma come i Trettré e Sergio Vastano.
E fu proprio Drive In a fare da cassa di risonanza non solo alla cultura e al lessico paninaro, ma anche all’estetica rilassata intesa come stile di vita. Il gusto per lo scherzo, la vita godereccia, la leggerezza e il disimpegno si tramutarono in un codice stilistico che prendeva ispirazione soprattutto dall’America. Non tanto, come sembrerebbe logico, dallo stile dei giovani squali della finanza, ma da una visione un po’ distorta della classe lavoratrice statunitense. Gli stivaletti Timberland erano le calzature tipiche dei taglialegna, mentre i texani e le cinturone si rifacevano una visione kitsch e stereotipata della cultura western. A completare il look, c’erano i nuovi capi sportivi che cominciavano a essere utilizzati per la prima volta anche dai non atleti. Felpe, pantaloni da jogging e sneakers fino agli anni Settanta – almeno in Italia – si indossavano soltanto in palestra. Nel decennio successivo, ostentare la possibilità di praticare sport diventò una moda. Questo, ovviamente, era un riflesso del culto del benessere riferito non solo alla sfera economica, ma anche a quella estetica. L’abbronzatura tutto l’anno, ad esempio, diventò il segno distintivo di chi poteva permettersi di andare in vacanza non solo a Ferragosto.
In un certo senso, si può dire che questa attenzione all’estetica, anche da parte dei ragazzi paninari, che erano i veri detentori del gusto – e infatti oggi ci ricordiamo di più i loro look che quelli delle ragazze – contribuì anche a creare una nuova idea di mascolinità. Se da un lato permaneva il culto della virilità e del machismo (basta guardare le copertine del Paninaro oppure uno sketch di Braschi), dall’altro l’interesse quasi ossessivo per il proprio aspetto fisico era un’assoluta novità per l’uomo degli anni Ottanta. Nei decenni precedenti l’abbigliamento doveva dar prova di essere rilassato, quasi trascurato, come a dire che c’erano cose più importanti del look e della moda. Per i paninari si può dire l’inverso: il loro disimpegno dava loro la possibilità di dedicarsi anche all’estetica. In questo forse aiutò anche il fatto che il paninarismo si sviluppò a Milano contemporaneamente alla nascita del prèt-â-porter.
Oggi potremmo dire che i paninari sono l’unico esempio di sottocultura giovanile nata e sviluppata interamente in Italia. Anzi, l’estetica del bomber travalicò addirittura i confini nazionali e arrivò nel Canton Ticino. Anche all’estero tutti, poi, conoscono la parola “paninaro”, grazie all’omonima canzone dei Pet Shop Boys, il cui video fu girato proprio a Milano, tra Porta Venezia e il Duomo. Nessun’altra sottocultura ha visto una filmografia così ampia: oltre ai già citati Italian Fast Food e Yuppies – i giovani di successo , come dimenticare un film ormai cult come Sposerò Simon Le Bon, che raccontava le vicende della giovane Clizia, fan sfegatata dei Duran Duran. Tutti e tre questi film uscirono nel 1986, anno in cui venne aperto il primo McDonald’s d’Italia e cominciò a uscire Il Paninaro, forse l’anno in cui questa sottocultura raggiunse l’espansione più grande. Ma come sempre, quando le cose diventano mainstream, finiscono presto. Ormai i galli erano usciti da Milano, avevano invaso il cinema, la televisione e i fumetti. Il Paninaro smise di uscire nel 1989. Un anno prima Drive In cessò le trasmissioni.
Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa del Partito Socialista Italiano venne arrestato dopo essere stato colto in flagrante mentre accettava una tangente per un appalto. Era l’inizio di Tangentopoli, e la fine dell’edonismo e della spensieratezza degli anni Ottanta. E fu anche la fine dei paninari, anche se alcuni di loro si ritrovano ancora in piazza San Babila, nonostante Burghy non esista più da un pezzo. A parte reduci e nostalgici, cosa resta dei paninari oggi? Molti dei marchi sono tornati di moda e vanno a ruba nei mercatini vintage, la musica che ascoltavano i galli oggi è da hipster sofisticati, l’estetica paninara ha fatto il giro e si è spostata alle colonne di San Lorenzo, dove i ragazzi più alla moda indossano jeans usati e bomber colorati. Aspettiamo solo che tornino i mullet.
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