Il sarto inglese Reynolds Woodcock, protagonista de Il filo nascosto, nell’infinita e maniacale attenzione che ripone in ogni singolo dettaglio degli abiti che realizza, si concede il vizio di inserire, nascosto da un orlo, un messaggio segreto ricamato. “Never cursed”, mai maledetta, è quello che cuce dentro un abito da sposa. Non poteva esserci ruolo migliore per Daniel Day-Lewis per celebrare la fine della sua carriera da attore. Proprio come il sarto che interpreta, anche Day-Lewis cuce ogni suo ruolo con la precisione di un artista instancabile e con la maniacalità di una persona che ha dedicato la sua vita all’arte della recitazione. E, proprio come per Woodcock, ogni ruolo di Day-Lewis è come se nascondesse un messaggio segreto, un secondo livello fatto di grazia, ossessione e dedizione, un messaggio celato dietro ogni singolo sguardo dell’attore che rende tutti i film che interpreta meritevoli di essere visti, anche solo per la sua presenza.
Non sono neanche 20 i film da protagonista di Daniel Day-Lewis, in un arco di tempo che si apre nel 1971 con un ruolo minore, non riconosciuto, in Domenica maledetta domenica. Tra questi venti film è difficile, quasi impossibile, trovare un passo falso. Ogni singola parte interpretata dall’attore è frutto di scelte mirate e precise che hanno poi ripagato, permettendogli di regalare sempre interpretazioni superbe. Nato nel 1957 e figlio del poeta inglese Cecil Day-Lewis – che alla nascita di Daniel compose una splendida poesia dal titolo “Newborn” – e di una attrice teatrale di origini ebraiche, Daniel è un ragazzino turbolento a cui piace fare risse. Quando ha 15 anni, il padre muore per un tumore al pancreas e Daniel viene messo in una boarding school, un collegio dalle regole piuttosto severe. Lì inizia la sua passione per il teatro. Studia al Bristol Old Vic di Londra e, dopo l’esordio non accreditato e una lunga carriera teatrale, nel 1982 arriva il primo vero ruolo al cinema, in Gandhi. Restano altri 18 film, tra cui capolavori come Il mio piede sinistro, L’ultimo dei Mohicani, My Beautiful Laundrette, L’età dell’innocenza, Gangs of New York, Il Petroliere, Lincoln e Il filo nascosto.
Questa numericamente esigua carriera è stata più che sufficiente a costruire una mitologia intorno all’attore inglese, che si è sentito all’unisono appellare come il migliore attore della sua generazione, e frequentemente, come il migliore in assoluto; una mitologia che poggia le sue basi ben salde su un primato: quello dell’unico attore al mondo ad aver vinto 3 Oscar come miglior protagonista. Nessuno, neppure mostri sacri come Jack Nicholson, Al Pacino o Robert de Niro si sono avvicinati a questo risultato. Le ultime due statuette, quelle per Il Petroliere di Paul Thomas Anderson e per Lincoln di Spielberg le ha vinte a 5 anni di distanza l’una dall’altra. Il fatto rilevante è che, in questi 5 anni, ha recitato in un solo altro film, il discutibile Nine di Marshall. Per capirci, nello stesso lasso di tempo, Leonardo di Caprio ha interpretato 6 ruoli, Robert De Niro 15. Non c’è bisogno di notare cosa questo, in termini probabilistici, significhi.
Quella cresciuta intorno a Daniel Day-Lewis è una mitologia che si nutre non solo della sua incredibile bravura sullo schermo, ma anche di tanti piccoli aneddoti fuori dallo schermo che raccontano la passione estrema – alcuni la potrebbero chiamare follia – che l’attore mette nel suo lavoro. Partendo dall’ultimo film, per prepararsi a Il filo nascosto, Day-Lewis ha studiato per almeno 3 anni come sarto professionista. Per diventare Woodcock, ha guardato centinaia di video di sfilate degli anni Quaranta e Cinquanta, ha studiato e fatto praticantato sotto Marc Happel, il responsabile costumista del New York City Ballet, ritrovandosi ad aiutare a realizzare di suo pugno i costumi per uno spettacolo. Due anni prima che il film uscisse in sala, Daniel ha sentito l’esigenza di creare un vestito solo con le sue capacità e ha quindi deciso di cucire una replica di un abito molto complesso. Daniel racconta in un’intervista la difficoltà nel ricreare la semplicità di quelle linee e paragona il lavoro del sarto a quello dei grandi artisti. La semplicità è sempre l’opera più difficile da realizzare. E questa sua riflessione dice molto sul suo lavoro di attore. Daniel sembra riuscire con facilità a calarsi nei panni dei suoi personaggi ma, proprio come per quel vestito, si tratta di una semplicità ingannevole. La preparazione di Daniel Day-Lewis per un film non dura mesi, ma anni – da qui i pochi film in filmografia. Prima di porsi di fronte alla macchina da presa l’attore inglese deve conoscere ogni singola sfumatura del suo personaggio, dall’accento fino al modo in cui cammina. Qualsiasi professione interpreti, dal pugile al sarto, Day Lewis deve essere in grado di svolgerla con competenza. Non esiste finzione nel suo metodo.
Seguendo le regole del metodo di Stanislavskij, insegnato da Strasberg (maestro di recitazione newyorkese che, con la sua scuola, ha formato i più grandi attori hollywoodiani, da Brando a De Niro, e che professava la regola per cui un attore dovesse diventare realmente il personaggio che interpretava, imparando tutto quello che quel personaggio sapeva fare, parlando come lui realmente avrebbe parlato, vestendosi con gli stessi abiti), Daniel Day-Lewis ha sperimentato sulla sua pelle tutto quello che, una volta sul set, avrebbero dovuto vivere i suoi personaggi. Doveva interpretare un cercatore di petrolio? Ha imparato tutto quello che c’era da sapere sull’estrazione del greggio e sulla vita dei petrolieri nei primi anni del Novecento. Doveva diventare un pugile per The Boxer? Daniel ha boxato per tre anni, ha disputato incontri reali, arrivando a competere a livello agonistico. Avrebbe potuto comodamente continuare a boxare per il resto della sua vita. Per calarsi nei panni di Hawkeye, ne L’ultimo dei Mohicani, ha imparato a lanciare in modo professionale l’accetta, terrorizzando tutti sul set. Per prepararsi al ruolo di carcerato in Nel nome del padre, si è fatto rinchiudere in una cella per 3 giorni e 3 notti, senza cibo e acqua e, alla fine dei tre giorni si è fatto sottoporre a un lungo interrogatorio da un investigatore. Per Gangs of New York era solito aggirarsi per il set affilando coltelli.
Un altro elemento tipico del metodo di Stanislavskij vuole che l’attore, nelle pause tra un ciak e l’altro, non esca mai dal personaggio. Daniel ha estremizzato anche questa caratteristica. La collega Sally Field racconta che, durante la lavorazione di Lincoln, Daniel le inviava sms scrivendoli come li avrebbe scritti il sedicesimo presidente americano, con la stessa lingua arcaica e firmandosi con una A. Per Il mio piede sinistro l’attore si fece portare in giro per mesi su una sedia a rotelle e si fece imboccare, innervosendo tutti sul set. Per Il Petroliere si rifiutò di condividere la stessa stanza con Paul Dano, l’attore che interpretava il suo antagonista nel film. Sono chiaramente aneddoti che accrescono l’aura di santità attoriale che Lewis si è riuscito a cucire sulle spalle ma, come dimostra lo splendido documentario di Netflix Jim and Andy – dedicato all’interpretazione di Jim Carrey del comico Andy Kaufman in Man on the Moon – sono anche il punto di arrivo di una performance artistica che non vuole limitarsi al rettangolo illuminato della proiezione filmica, ma vuole andare oltre, raggiungere il cuore non solo dello spettatore.
Dietro a quelle che possono sembrare – e a tutti gli effetti sono – delle stramberie, c’è insomma il genio di un uomo che non è mai voluto scendere a compromessi. È una frase che si usa spesso per descrivere un certo tipo di processo artistico ma, nel caso di Daniel Day-Lewis non potrebbe essere più vera. La sua carriera è costellata di scelte senza ritorno, portate avanti con la fermezza di chi è assolutamente convinto delle proprie idee e della propria identità. Come molti attori hollywoodiani di successo, ha iniziato dal teatro, ottenendo ottimi risultati, ovviamente. Ma la carriera teatrale è stata bruscamente interrotta quando, nel 1989, nell’Amleto di Richard Eyre al Royal National Theater di Londra Daniel affermò di aver visto il fantasma di suo padre morto sul palco. L’attore fu così tanto turbato da decidere di abbandonare per sempre il palcoscenico, sul quale non mise mai più piede. Non conosco nessun altro attore che, con una giustificazione simile, abbia posto un veto, finora rispettato, a una possibile fonte di reddito e celebrità. Allo stesso modo, lasciando tutti allibiti e sicuramente tristi, poco prima dell’uscita de Il filo nascosto, Daniel ha fatto uscire un comunicato in cui annunciava il suo ritiro definitivo dalle scene. Altri artisti hanno più volte annunciato il proprio ritiro senza mai rispettare la scelta – uno su tutti Steven Soderbergh – ma a lui viene da credere. Non fosse altro che, tra un film e l’altro, quelli che ha praticato sono sempre stati dei veri e propri, seppur brevi, ritiri dalle scene. Fin dai tempi della boarding school Daniel era indeciso tra il lavoro da artigiano – fabbricante di mobili, per la precisione – e attore. Pur assecondando la passione per la recitazione, non ha mai messo da parte quella per la manualità e, tra un film e l’altro, si è ritirato in giro per il mondo a lavorare in minuscole botteghe. Per un lungo periodo si è addirittura fermato in una bottega vicino a Piazza Santo Spirito a Firenze, facendo il calzolaio. No, non ci sono decisamente compromessi nella carriera di Daniel Day-Lewis e ogni singolo film interpretato nasce dalla volontà chiarissima dell’attore di interpretare un ruolo o di lavorare con un regista.
La speranza è chiaramente che cambi idea sul suo ritiro, per la prima volta in vita sua. Attori come lui sono un patrimonio troppo prezioso per noi appassionati di cinema. La lettura del messaggio segreto cucito nelle sue interpretazioni è uno dei più grandi piaceri di cui un cinéphile moderno possa godere. Abbandonandosi alle parole, agli sguardi, alle movenze dei personaggi interpretati da Daniel Day-Lewis si ritorna a quella fascinazione per la finzione cinematografica che, mi immagino, provassero i primissimi spettatori dell’Ottocento quando, guardando un treno arrivare, pensavano fosse vero. La stessa meraviglia la proviamo noi, guardando i sarti, i macellai, i petrolieri, gli indiani interpretati da lui.
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