“Devi correre a zig zag, così le tue chance di sopravvivere aumentano dell’1%” ha detto Donald Trump in visita al centro di detenzione per migranti illegali Alligator Alcatraz. Sembra un film d’azione scadente, quello ambientato in una prigione della Florida in cui i detenuti, se vogliono scappare, devono vedersela con animali selvatici come alligatori e serpenti, correndo a zig zag, come suggerisce appunto il Presidente degli Stati Uniti; oppure un cartone animato dei Looney Tunes, un episodio di CSI Miami, qualcosa di inventato, insomma, e invece si tratta della realtà. Difendere i propri confini anche in modo disumano, per un Paese nato precisamente dalle spinte migratorie europee e poi da tutto il resto del mondo, dall’apertura verso la diversità, sembra un paradosso, ma purtroppo non lo è.
Che l’immigrazione – e tutte le sue potenziali strumentalizzazioni demagogiche – sia uno dei temi centrali, se non forse il tema per eccellenza, con cui Trump ha vinto le ultime elezioni, d’altronde è ben noto. Ma la ragione per cui ancora oggi questo argomento tocca così tanto il popolo statunitense, al punto da farne un pratico quanto efficace mezzo di propaganda, è che la difesa del confine, il contatto con l’altro, inteso come nemico, diverso, pericoloso, è la base stessa dell’epica americana. Un’epica che si traduce nella forma di rappresentazione in cui il Paese dei sogni realizzabili e delle possibilità ha dominato: il cinema, e più nello specifico, nel cinema western. Cowboy, indiani, pistole, cavalli, sguardi intensi, duelli, territori da conquistare, confini da difendere, sono l’essenza della mitologia statunitense, decisamente più recente rispetto a quella europea, e forse proprio per questo più facile da inquadrare nei suoi archetipi. Il western come genere narrativo, infatti, presenta strutture ed elementi ricorrenti che, proprio per la loro essenzialità – che rimanda alla cultura profonda su cui si basa l’identità americana, collettiva, composita, esplorativa dell’ignoto –, possono essere riutilizzati in declinazioni infinite. È il caso di un film come Non è un Paese per vecchi, lungometraggio dei fratelli Joel ed Ethan Coen uscito nel 2007 e tratto dal romanzo del 2005 del grande scrittore americano Cormac McCarthy, disponibile in streaming su Paramount+.
Più che un vero e proprio western, infatti, Non è un Paese per vecchi, che già nel suo titolo – No country for Old Men – tratto da una poesia di William Butler Yeats sintetizza il senso di un racconto fondato sulla spietatezza della legge della sopravvivenza e del più forte, potrebbe essere definito un neo-western, dal momento che presenta diversi tratti tipici del genere ma ne sovverte altri in modo radicale. La struttura del western classico solitamente ruota attorno a un dualismo quasi elementare: bene e male, cattivi e buoni. Questa configurazione molto riconoscibile, tanto da diventare uno schema tipico del gioco per i bambini, come guardie e ladri, cowboy e indiani, in Non è un Paese per vecchi si annulla, lasciando che il male agisca in modo orizzontale attraverso tutti e tre i protagonisti del film: Llewelyn Moss, un cacciatore, Anton Chigurh, un killer, ed Ed Tom Bell, uno sceriffo della Contea di Terrell, in Texas.
Nel caso del primo, che ritrova una valigia piena di soldi sulla scena di uno scontro tra cartelli messicani e che, nonostante ne abbia la possibilità, si rifiuta di salvarne uno ancora in vita, il male si manifesta in forma di persecuzione per le sue azioni. Moss non è un vero e proprio cattivo, è un uomo che sceglie di praticare il male nel momento in cui si trova davanti l’occasione di diventare padrone del suo destino attraverso i soldi che gli capitano tra le mani. Chigurh, a differenza di Moss, è invece un uomo che del male ha fatto mestiere: sicario ingaggiato dai criminali che rivogliono indietro il contenuto della valigetta, la sua presenza quasi spettrale nel film ricorda quella della morte stessa che implacabile decide il destino di chiunque gli capiti di fronte, senza alcuna traccia di pietà. Lo sceriffo, infine, in un certo senso incarna la resa al male, la sconfitta della forza che dovrebbe arginarlo, nonché l’accettazione passiva di una impossibilità di fronte alla grandezza della violenza che Bell si trova davanti. In un certo senso il male peggiore, perché rassegnato e incapace di vedere il futuro.
In queste tre linee di racconto, dove ciascuno insegue l’altro in una battaglia fatta di violenza fisica, proprio come nei western più classici, c’è la ricerca del proprio predominio, nonché della demarcazione di un territorio. La guerra del Vietnam riecheggia come un lontano passato che potrebbe legare i protagonisti in una sorta di ricordo comune, ma non resta altro che il dolore soggettivo che ha provocato su ciascuno di loro, in alcun modo tradotto in solidarietà o sostegno reciproco. Al contrario, gli Stati Uniti dei fratelli Coen e di McCarthy sembrano ancora più feriti e sanguinanti di quelli in cui l’avanzare e la ricerca della terra da conquistare avveniva in modo brutale: nel neo-western, questo processo non ha un punto di arrivo, non c’è la linea dell’orizzonte che fa da sfondo scenografico ai duelli. Piuttosto, c’è un senso di contrasto tra destino e volontà che fa da sfondo alla trama, a partire proprio dal personaggio più spietato, quello di Chigurh, interpretato da Javier Bardem. Il killer finge di dare alle sue vittime una via di fuga, un appuntamento con il fato che esercita attraverso il lancio di una monetina. L’arma con cui uccide, poi, non ha proiettili, dal momento che si tratta di aria compressa sparata dritta in fronte alle sue vittime: Chigurh non lascia tracce, o meglio, non lascia la traccia che caratterizza qualsiasi scontro a fuoco, i proiettili. È come se, in questo Texas assolato e violento degli anni Ottanta, lo scontro tra le forze che agiscono per la prevaricazione avvenga in modo tanto diffuso e capillare da aver perso persino i segni evidenti del suo passaggio. Non serve più neanche un proiettile per uccidere qualcuno, la morte arriva non per chi se la merita, come un racconto edificante vorrebbe raccontarci, ma per chiunque si trovi di intralcio.
La colonna sonora quasi assente, ma fondamentale nei momenti in cui compare, scritta da Carter Burwell, così come la semplicità scarna, fino a diventare inquietante, della regia dei Coen hanno reso Non è un Paese per vecchi un classico istantaneo del cinema americano. Non a caso il film vinse l’Oscar nel 2008, oltre a moltissimi altri premi, e divenne un successo anche in termini commerciali. Viene anche spesso considerato come l’opera migliore dei fratelli Coen che, già in film come Fargo, dove troviamo una trama sovrapponibile per alcuni aspetti – la sceriffa che cerca il colpevole di un crimine, la vita in una piccola comunità di provincia –, o in Arizona Junior, dove è presente il tema dell’inseguimento, seppur con toni molto diversi, o ancora in Blood Simple, avevano messo in scena alcuni degli elementi già fondativi del loro cinema estremamente vario, sia per i toni che per gli argomenti trattati. In Non è un Paese per vecchi, che esce nel pieno dell’inizio della grande crisi economica che ha modificato il corso della storia dell’Occidente, nonché a pochi anni di distanza dall’attentato alle Torri Gemelle che ha segnato un cambio culturale enorme per gli statunitensi, i Coen danno prova di saper trattare un genere solido e archetipico come il western, conferendogli un nuovo senso che pesca a piene mani nelle origini di un Paese che ha un modo di intendere il predominio materiale e dei confini molto radicato. Quello stesso Paese che, anche oggi, nella brutalità di cui spesso si macchia, specialmente quando si parla di difesa, barriere e demarcazioni, continua a non essere un Paese per vecchi, se per “vecchi” intendiamo non solo gli anziani e gli ultimi ma una metafora che includa le categorie sociali subalterne al potere dominante.
Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Non è un Paese per vecchi” – la pellicola cult dei fratelli Coen tratta dal romanzo di Cormac McCarthy e vincitrice degli Oscar per il miglior film, miglior regista e miglior sceneggiatura non originale, oltre che quello per il migliore attore non protagonista a Javier Bardem – e gli altri contenuti esclusivi.
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