Noi esseri umani viviamo in gruppi, e questi gruppi si raccolgono intorno a norme. Regole – non sempre giuste, anzi – che sanciscono ciò che si può e non si può fare, ciò che è lecito e ciò che no, usi e costumi. Se uno di noi viola una regola, per quanto ingiusta, solitamente invece che essere considerato un eroe, viene escluso, criticato, esiliato. Perché il violare la norma, nella mente della maggior parte degli elementi del gruppo, educati a rispettarla e mai a metterla in discussione, significa aprire una crepa nel sistema, farlo vacillare, e nulla alle persone piace meno dell’incertezza, lo sappiamo molto bene di questi tempi. Secondo loro sarebbe necessario arrendersi, abbassare il capo, essere più umili, accettare la norma anche se non la si ritiene corretta. In questi casi il gruppo ha un enorme potere sull’individuo, che anche quando sceglie di agire secondo coscienza poi subirà comunque le punizioni, dirette o indirette del suo atto. Come si legge nell’antico testo sanscrito Trattato di Manu sulla norma poi “è una sola l’azione che il possente ha assegnato allo shudra: obbedire alle altre classi senza rancore”. Le donne, fino a relativamente poco tempo fa in Italia, erano considerate proprio come gli shudra nel sistema castale indiano, ovvero servi. Servivano in casa, servivano a soddisfare il desiderio dell’uomo e servivano a produrre forza lavoro: i figli. E così è anche per Marta, la protagonista de Il mio posto è qui, opera prima del 2024 di Daniela Porto vincitrice come miglior regia al Bari Film Fest, tratta dal suo omonimo romanzo e realizzata insieme a Cristiano Bortone, disponibile in streaming su Paramount+.
Ambientata in un piccolo paese in Calabria subito dopo la seconda guerra mondiale, la storia narra il faticoso processo di emancipazione di Marta (interpretata da Ludovica Martino), ragazza madre di un bambino che ha avuto da un ragazzo morto in guerra e data in sposa a un vedovo, con due figlie, molto più vecchio di lei. La sua storia si intreccia a quella di Lorenzo (interpretato da Marco Leonardi), il sacrestano, del quale il parroco si avvale data la sua professionalità e intelligenza, nonostante sia omosessuale. Inutile dire che entrambi sono presi di mira costantemente dai loro compaesani, che nemmeno si prendono la briga di mormorare alle loro spalle, dicono loro direttamente ciò che pensano in faccia. Sia Marta che Lorenzo (ruoli che sono valsi ai loro interpreti i premi per i giovani talenti ai Nastri d’Argento) sono quindi i capri espiatori del villaggio, su di loro c’è uno stigma profondo, che invece di essere accolto dagli altri, familiari compresi, con compassione e pietà, diventa una colpa, quasi voluta, meritata, da punire.
La storia mette in scena quindi le vicende di due figure emarginate che rappresentano veri e propri gruppi sociali, le donne da un lato e dall’altro le persone omosessuali, entrambi sottomessi alla cultura patriarcale, ed entrambi capaci di servirsi di doloroso pragmatismo ed escamotage per ritagliarsi un loro piccolo spazio in cui poter vivere senza soffrire troppo, ben consapevoli di non aver abbastanza potere per sfidare il sistema a viso aperto. La loro condizione è un continua negazione della parte più profonda e vera di sé, così come del loro dolore e del loro senso di rispetto e di giustizia. Molti uomini omosessuali, infatti, in quegli anni, a differenza di Lorenzo, che in un certo senso ha trovato protezione nella chiesa, si sentono costretti a nascondersi sapientemente dietro una facciata di “normalità”, e anche le donne dal canto loro sotterrano allo stesso modo i loro desideri. Secondo il senso comune Marta dal canto suo non dovrebbe considerarsi una vittima, ma ritenersi fortunata per il fatto di non essere stata ripudiata dalla famiglia, nonostante le incresciose conseguenze sociali del suo atto, e poi per essere stata chiesta in sposa da un uomo, anche se non le piace, e nemmeno lo ama. Queste contraddizioni vengono messe in scena nel momento del carnevale, in cui le pulsioni per un giorno escono allo scoperto, ricordando la famosa scena del Trionfo della morte di Gabriele Dannunzio.
Grazie al sostegno di Lorenzo, che la riconosce come simile e che comunque ha molta più esperienza di lei, e in ogni caso è un uomo, quindi pur essendo gay parte da un livello leggermente più privilegiato di Marta, lei trova la forza di resistere a tutti i torti sistematici che subisce, innescando il suo processo di emancipazione, nonostante i tanti ostacoli che incontra sul suo cammino, e sapendo leggere – passione e talento coltivato proprio grazie a Lorenzo in tempi non sospetti che le infilava in tasca i libriccini con le vite delle sante – decide di mettersi alla ricerca di un lavoro che le permetta di ottenere un’indipendenza economica, classico topos narrativo di questo genere di storie, così come l’amicizia tra Lorenzo e Marta non può che ricordare Una giornata particolare, film del 1977 di Ettore Scola, con Marcello Mastroianni (a cui in effetti Marco Leonardi somiglia) e Sophia Loren.
Ciò che Marta e Lorenzo mostrano è la fatica di vivere fuori dalla norma, l’energia spesa non per essere felici, ma semplicemente per non essere schiacciati, per sopravvivere. E questa fatica non viene loro mai riconosciuta: non viene premiata in alcun modo, non viene raccontata, non viene nemmeno vista. La loro – ma così ancora purtroppo quella di tante donne e persone omosessuali, ma per esteso quella di qualsiasi gruppo oppresso – è una resistenza quotidiana fatta di piccoli atti: nel loro caso vestirsi come si vuole, leggere un libro, uscire di casa anche quando si ha paura, osare guardare qualcuno dritto negli occhi. È una lotta invisibile, che non fa rumore, che spesso viene scambiata per rassegnazione, ma è tutto il contrario: è una grande forma di resistenza, di forza, di dignità. Anche perché le donne, così come le persone omosessuali, nella società patriarcale sono tollerate solo se obbedienti e utili, efficienti e produttivi, come se avessero qualcosa da farsi perdonare, come se dovessero dimostrare costantemente di valere qualcosa per gli altri, fare sempre qualcosa per essere accettati. Appena escono da questi confini, e alcune reazioni al Pride lo dimostrano bene, ma non solo, vengono aspramente criticati, considerati appunto come una minaccia all’ordine costituito. Perché mostrano con la loro vita, semplicemente esistendo, e mostrandosi alla luce del sole, che un altro modo di esistere è possibile, che è possibile cambiare le regole del gioco.
Il corpo della donna e il desiderio omosessuale sono due elementi che il potere patriarcale cerca in ogni modo di contenere, regolare, zittire. Marta, che ha osato generare un figlio senza permesso, e Lorenzo, con il suo desiderio che non può essere espresso liberamente, sono scandalosi. Non tanto per ciò che fanno, ma più ancora per ciò che rappresentano, per i fantasmi che evocano. Il solo fatto che esistano è una minaccia per il gruppo. E allora la comunità si compatta nel giudizio severo contro di loro, nella loro umiliazione, nel metterli alla gogna. Non importa quanto facciano, quanto siano gentili, disponibili, generosi, intelligenti. Non importa nemmeno se fanno del bene agli altri. La loro sola presenza rompe l’incantesimo dell’uniformità. È un meccanismo antico: chi non si piega, viene sacrificato. E chi lo sorveglia, chi lo punisce, chi lo esclude, per dirla con Foucault, non si sente nemmeno in colpa, tanto è profondamente convinto di aver ragione, incarnando appunto la norma, il potere.
Eppure, in mezzo a tutto questo, Marta e Lorenzo si riconoscono e si scelgono, non come gli amanti, ovviamente, ma come chi è simile, affine. Si vedono per ciò che sono, senza paura, senza pietà, senza bisogno di fingere di essere qualcosa di diverso da quello che sono. Nella profonda accettazione che dovrebbe essere alla base di qualsiasi legame di affetto, sia amicizia o amore. E questa è una forma di salvezza, che non li rende immuni al dolore, no, ma che rende quel dolore condivisibile. Li rende meno soli. Nella loro relazione si crea uno spazio per quanto minuscolo, ma dal potenziale immenso, di cura. È lì che si deposita qualcosa di sacro. Perché quando qualcuno ci vede davvero, senza disprezzo, senza paura, iniziamo a vederci anche noi stessi, e allora è anche possibile immaginare una versione di noi stessi più autentica e libera, non più definita dal giudizio degli altri. Come Antigone, anche loro scelgono di onorare una legge più profonda di quella del potere: quella della coscienza, della giustizia interiore, dell’amore che non chiede permesso.
E allora capiamo che l’emancipazione non è per forza un atto pubblico, rumoroso, ma che è soprattutto un processo interiore, che si nutre come una valanga della sua stessa forza, diventando sempre più ampio, certo, e a quel punto sì, anche visibile dall’esterno. Spesso inizia come un gesto quotidiano e silenzioso, come cercare un lavoro, prendersi del tempo per fare ciò che amiamo, leggere un libro di nascosto, praticare una certa attività, frequentare un certo corso di formazione; a volte è una semplice attitudine, un cambiamento nel modo che abbiamo di pensare e di percepirci, di ricevere ciò che arriva dal mondo. È decidere che, nonostante tutto, si può essere sé stessi, non ci si può lasciar schiacciare dagli altri, non importa quanto forte spingono, si smette di credere alla loro voce, si smette di lasciarla passare fino al nucleo più vivo di ciò che siamo. Non è arroganza, è lucidità. Marta non diventa una rivoluzionaria, Marta diventa una donna che sa di valere come persona libera, e che comincia a chiedere al mondo che le venga riconosciuto, di avere una dignità, di essere rispettata. Così il peso della tragedia a mano a mano si scioglie, e si apre l’orizzonte, per quanto nebuloso, della possibilità. E forse non c’è liberazione più grande di questa: sapere che, anche se non si è conformi, anche se si è sempre stati messi da parte, esclusi, emarginati, anche se si è cresciuti nella mancanza di affetto, di comprensione e di amore, si ha comunque diritto a una vita piena. E non perché la permette il gruppo, ma perché ce la si costruisce, ce la si va a prendere. Marta e Lorenzo lo imparano insieme. E, guardandoli, forse ricominciamo a crederci anche noi.
Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Paramount+, il servizio globale di streaming di Paramount che offre un’ampia selezione di serie originali e film grazie ai suoi brand iconici. Guarda ora “Il mio posto è qui” – il film di Cristiano Bortone e Daniela Porto, candidato ai Nastri d’Argento e vincitore dei premi per la miglior regia e la miglior attrice al Bif&st 2024
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