Giulia Bersani racconta, tra corpo e identità, la meravigliosa disperazione della giovinezza - THE VISION

Occhi chiusi su cui veglia la macchina fotografica e sguardi complici, insicurezza e innocenza, pelle, la scoperta della sessualità e la ricerca della libertà, corpi che diventano adulti, immersi nell’acqua come in un liquido amniotico che riporta ai primi istinti.

La prima volta che ho intercettato le immagini di Giulia Bersani, fotografa nata nel 1992, è stato nel 2015, ricordo che stavo vagando tra i profili di Instagram dal divano di casa mia, e che mi sono imbattuta in una delle foto della sua serie Lovers. Mi sono innamorata a mia volta dei suoi innamorati, ho visto in quelle immagini una sincerità e un’immediatezza difficili da trovare in tante altre fotografie che rappresentano momenti simili, e insieme c’era la delicatezza di uno sguardo capace di farsi invisibile. 

Scoprire che l’autrice di quelle immagini era poco più che ventenne mi ha stupita. Con il tempo, però, ho realizzato che certi doni si manifestano presto se gliene si dà l’opportunità, e il fatto che il racconto di quei momenti di passione o tenerezza le riuscisse così bene dipendeva proprio dal fatto che i soggetti erano suoi coetanei: Giulia non stava raccontando qualcosa di estraneo, ma il mondo in cui era immersa. Due anni dopo comprai il suo libro 23, un insieme di pagine in cartoncino bianco su cui erano incollate molte delle fotografie scattate durante il suo ventitreesimo anno di età: autoscatti, amici e sconosciuti, dettagli, parole. Un anno prima era uscito, ed era finito quasi subito sold out, il libro Vietato lamentarsi, vietato pensare, vietato piangere, interamente realizzato a mano. Ogni libro è un pezzo unico, in edizione limitata, e porta con sé qualcosa dell’autrice nel momento in cui viene creato.

“Non sono né precisa né paziente, in cambio sono molto impulsiva. I libri nascono quando sto male, mi sento svalutata e devo dimostrare che le mie emozioni non sono eccessive, ma hanno un valore. Dal modo in cui li assemblo e ci scrivo sopra si capisce se sono ubriaca, se sono stanca, se sono in forma… Mi piace l’idea che siano imperfetti, credo sia la loro potenza”, dice Giulia. 23 è una sorta di album fotografico realizzato in casa dall’artista, un secondo capitolo dopo l’esperimento di 21 e come ogni album fotografico che si rispetti riassume senza artifici com’era l’autrice, cosa pensava, come guardava in quel momento in cui l’adolescenza è ormai trascorsa, ma non si ha ancora decifrato se stessi e l’età adulta. 

“Uno dei motivi per cui fotografo,” mi racconta Giulia, “è il mio bisogno di trattenere, nel senso che non sono molto brava a lasciar andare, ad accettare il cambiamento, ho paura della morte e della fine delle cose in generale, soprattutto delle relazioni”. Capisco perfettamente cosa intende: ho sempre invidiato quelle persone che non hanno timore di ciò che ancora non conoscono, di perdere il loro status quo, che seguono l’istinto pensando a quello che c’è da guadagnare anziché da perdere e non si aggrappano alle cose. “Per me ogni grande cambiamento è tragico. A lungo termine lo accetto e mi scopro elastica, ma c’è sempre un iniziale shock. In questo senso, la fotografia mi fa sentire un po’ più tranquilla: so che quella cosa non c’è più, non esiste più quella relazione, quella persona in quella sua versione, ma in realtà ce n’è ancora un po’, la sto conservando attraverso le foto. A maggior ragione, con me stessa”. Attraverso gli autoscatti, folgorata nel 2010 dalla mostra su Francesca Woodman al Palazzo della Ragione di Milano, Giulia ha compreso di poter studiare e mostrare anche il suo corpo, la maturazione della sua identità e della sua femminilità insieme al suo modo di vivere la sessualità.

Ha cominciato intorno ai 19 anni a diffondere le sue foto su social ormai tramontati come Flickr e a riscuotere i suoi primi successi, confermati poi su Instagram. Il suo stile, in questi 10 anni, non è mai cambiato: si è evoluto, certo, insieme alla tecnica e alle capacità, ma è rimasto sempre molto coerente. Oggi siamo abituati a vedere fotografie di ragazze e ragazzi nudi, che vengono ritratti mentre mostrano il proprio corpo – con le dovute censure imposte da Meta, ma è solo un bene. “Penso che farsi vedere come si vuole, autorappresentarsi, risponda a una volontà di liberazione e di normalizzazione, e sia un atto politico,” dice Giulia. Le sue immagini, cariche di una fortissima sensualità e insieme lontane da qualsiasi tipo di pornografia, parlano di amore in tutte le sue forme: per se stessi e per il proprio corpo – che magari si è anche odiato –, per la propria famiglia, l’amore tra madre e figlio, o quello tra amici, quello di coppia – qualsiasi sia il sesso –, nelle sue manifestazioni quotidiane, segrete o manifeste che siano.

Amore carnale, tenerezza e cura dell’altro, espressione di un impulso fisico o mentale. La passione traspare dalle scene che Giulia osserva e a cui ruba, restituendola, energia, parla del suo rapporto con la materia, con la macchina fotografica, con l’umanità e l’animalità. Pur essendo nata e cresciuta a Milano, non ci mostra mai le coordinate urbane di questa grande città. Le sue scene sono sempre ambientate nelle case e nelle camere da letto, negli spazi protetti dove ognuno di noi può mostrarsi per quello che è, o in mezzo alla natura, dove forse si va a ritrovare se stessi. “Milano è casa mia, ci sono affezionata e ci sto bene, ci sono i miei amici, la mia famiglia. Ma l’intimità non si trova in giro per le strade: ho bisogno di raccoglimento, del sentirsi al sicuro, oppure del contatto diretto con la natura che per me riflette un bisogno di liberazione”.

Blanco

Da un lato l’influenza di Nan Goldin, dall’altro quella di Ryan McGinley: Giulia non ne sceglie una tra le due, perché sono entrambe parte del suo modo di vedere o, meglio, di vivere le cose, perché la fotografia per lei diventa proprio una scusa per vivere, per entrare in contatto con l’altro. “Per me è una grande distrazione, qualcosa che mi migliora la vita,” racconta. “Magari sto vivendo un periodo in cui ci sono dei problemi, o semplicemente ho avuto una giornata difficile, ma il concentrarmi sull’altra persona, sulle sensazioni che mi dà in quel momento mi allontana dalle preoccupazioni che avevo e dalla loro visione distorta e mi fa tornare a terra. Chiacchierare, avvicinarmi, assorbire l’energia dell’altra persona e stupirmi ogni volta, scoprire sempre qualcosa di nuovo è la cosa che preferisco”.

Oggi Giulia vive di fotografia, realizzando insieme ai suoi progetti personali anche lavori commissionati che non si allontanano però dal suo stile e cerca di farlo sempre alle sue condizioni. Trascorrere con il proprio soggetto più tempo possibile e con meno persone intorno possibile: è così che si crea quell’intimità e quella sincerità che non tradiscono nulla di artificiale e quando un soggetto come la cantante Elisa, Blanco, o Massimo Pericolo guarda dritto in camera, corre nudo nella notte o controlla il cellulare a lume di abat-jour poco prima di addormentarsi, ci sembra che davvero si annulli ogni distanza. 

Chiedo a Giulia come fa a rintracciare e a restituire, senza dare un’idea estetizzante, sempre così tanta bellezza, anche nelle imperfezioni. “Sono molto brava a idealizzare,” mi risponde. “Nelle relazioni, e anche attraverso la fotografia, ho la capacità di vedere solo i tratti belli di una persona e di lasciarmi trasportare da quelli. Credo che questo aiuti a far venire foto più forti e far vedere in esse solo i tratti ‘belli’ – e il bello è soggettivo, a me piacciono per esempio tantissimo i difetti. Rispetto alle persone che fotografo, da parte mia c’è sempre molta attenzione ad ‘ascoltare’ come vorrebbero essere viste”.

Il suo punto di vista, però, non è quello di un ammiratrice, bensì quello di un’osservatrice che in quell’ascolto trova se stessa riflessa nelle altre ragazze, in un atto non narcisistico, ma di scoperta.


Questo articolo fa parte di PARALLAX, il nuovo Vertical di THE VISION dedicato alla fotografia e al fotogiornalismo, e realizzato in collaborazione con Fujifilm Italia. L’intervista a Giulia Bersani è stata curata da Alessandra Lanza.

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