Ogni iconografia in ambito musicale contemporaneo – dal jazz all’hip hop, dal rock al pop – esiste grazie alle immagini di fotografi e registi che hanno contribuito a plasmarla. La prima immagine che mi viene in mente pensando a Syd Barrett, ad esempio, è quella della copertina del suo album The Madcap Laughs, un pavimento a strisce che si prende la scena, relegando l’artista nella parte alta dell’inquadratura, rannicchiato a piedi nudi. Quella foto, insieme ad altre, raccontava uno spazio intimo. Vennero scattate da Mick Rock nell’appartamento londinese dell’artista nel quartiere di Earl’s Court così come lo aveva trovato e oggi, più di quarant’anni dopo, non sono ancora invecchiate. Insieme alla loro musica, ciò che rende indimenticabili le figure di alcuni artisti sono senza dubbio le loro fotografie. La musica è potente, ma senza l’immaginario visivo creato intorno a certi artisti, a partire dalla loro identità, forse non avrebbe lo stesso impatto.
Il lavoro di Enrico Rassu, fotografo nato in Sardegna nel 1996 che oggi vive tra Milano e Londra, si inserisce in questo solco. Enrico crea un immaginario per gli artisti della scena musicale che fotografa, partendo innanzitutto dalle domande “Dove vuoi andare?”, “Cosa ti rappresenta?”, e da lì inizia a costruire tutto quello che vediamo: dal libro fotografico in formato fanzine del primo disco di 13Pietro – Assurdo – dove unisce un racconto fotografico di oltre un anno alle pagine del diario del musicista e alla direzione creativa del video del suo singolo “Tu non sei con noi bro”, al racconto di come nasce un disco, in particolare 68 di Ernia, un reportage dietro le quinte realizzato a Barcellona durante le sessioni di registrazione, confluito in un breve documentario e in una raccolta di immagini del backstage. Il dietro le quinte diventa il vero e proprio pezzo forte della promozione del disco, sovvertendo le regole non scritte del marketing “classico”.
Enrico non si accontenta di restituirci quello che già sappiamo, che abbiamo visto e che potrebbe esserci trasmesso durante un set fotografico o un’intervista, a lui interessa soprattutto quello che c’è dietro, lo spazio intimo lontano dal palco o da un limbo bianco circondato di flash, che si tratti di una stanza d’albergo dove raccogliere le forze prima di un live fuori città, del proprio bagno di casa, di una festa con gli amici di sempre o di un semplice viaggio in macchina. In quei momenti qualunque, le persone, grazie allo sguardo di Enrico, sembrano rivelare se stesse. Il fotografo non le spia, ma le accompagna. Entra in confidenza con loro grazie alla sua capacità di creare una connessione che non nasca dal desiderio di analizzare o giudicare, ma di condividere. “All’inizio ero molto timido,” mi racconta, “era una sfida con me stesso, ero piccolo, con poche esperienze. Peraltro alcune delle persone che fotografavo per me erano idoli, cosa che rendeva tutto ancora più difficile. Con il passare del tempo ho capito che portando me stesso dentro la relazione il confronto diventava bidirezionale e così risultava molto più ricco e ampio”.
Ormai siamo abituati a osservare la vita privata delle persone famose grazie ai social. Vediamo i loro pasti, le feste e le vacanze, conosciamo a memoria gli spazi delle loro case, le loro varie esperienze di vita: alcune sapientemente costruite – il set c’è sempre, anche se non si vede – altre, forse, più spontanee, ma chi può dirlo. Spesso ci chiediamo che cosa ci resti ancora da guardare in questa continua espressione di individualismo e di autoaffermazione di sé. Anche il racconto di Enrico potrebbe dare l’impressione di inscriversi in quegli spazi, ma in realtà non si sovrappone in alcun modo a quel tipo di immagini, realizzate con la collaborazione di attenti social media manager e veri e propri team di consulenti, e che quindi ci arrivano come ultra-consapevoli, apparentemente spontanee ma in realtà attentamente progettate, costruite senza lasciare nulla al caso. In questo caso, il controllo, condiviso con la fiducia di chi gli accorda l’accesso, è quello del fotografo, che segue il proprio istinto e fa della vita dell’artista materiale per un reportage, alla ricerca di qualcosa di inedito.
La storia si svolge dietro le luci della ribalta, nelle pause, tra uno show e un pomeriggio in studio di registrazione. “Il desiderio di molte persone,” spiega Rassu (e lo dimostra nella sua fotografia), “è quello di vivere più vite possibili: per questo le persone guardano film e leggono libri, per riuscire a immedesimarsi in una vita che non è la loro. Questo mio approccio nasce da un bisogno umano, un bisogno di vicinanza che cerco di rendere nelle mie fotografie: non ho mai riflettuto troppo su come fotografare, è sempre stato il flusso generato dagli incontri che mi ha portato a creare determinate immagini”.
“Dove sono cresciuto [a Sassari] non c’erano molte situazioni da fotografare, quindi la mia voglia di scoprire qualcosa di diverso e di più entusiasmante era nata già all’epoca”, mi racconta Enrico. Dopo un’adolescenza trascorsa tra i creativi della sua città, nel 2015 si trasferisce a Milano per frequentare l’università, mentre porta avanti progetti audio-video, occupandosi di promozione e direzione creativa, ma è poco dopo che realizza che il mezzo più adatto a raccontare la sua visione del mondo è la fotografia, cominciando così a inseguire la scena rap internazionale che transita dall’Italia. “Arrivato a Milano,” mi spiega, “è stato fondamentale partire da sotto il palco, dai backstage dei video musicali, per farmi conoscere e rispettare, ma subito mi sono reso conto che per me e per la mia ricerca era altrettanto fondamentale il rapporto umano, e piano piano sono passato dalla parte legata allo show a quella più di off-show”, quella dove, più che assistere a un’esibizione, ci si confronta con un contatto diretto con l’artista.
A portarlo da un posto all’altro sono i suoi scatti e il desiderio di non perdere mai nessuna occasione. “Spesso, con solo qualche ora di anticipo mi sono arrivate richieste di lavori in cui mi sono catapultato. Credo che il mio dire in queste occasioni di sì e il mio essere sempre aperto al mondo abbiano aiutato il mio percorso”. Nel 2018 Enrico ha vinto il contest di Milk Magazine che lo ha portato a seguire il tour europeo del duo R&B canadese Majid Jordan, nella scuderia di Ovo Sound. L’intesa tra gli artisti è stata immediata e così è arrivata l’occasione di seguire anche Drake in una data del suo tour a Parigi e documentare il viaggio di Roy Woods in Italia.
Le immagini analogiche in bianco e nero che Enrico scatta in queste occasioni hanno attirato l’attenzione della scena italiana ed è nata così la collaborazione con artisti italiani – come Ernia, FSK, Tredici Pietro, Gaia, Madame – e internazionali, come la cantante IMDDB e Lous And The Yakuza. “Nell’ultimo anno ho raccontato le storie di riscatto personale che caratterizzano artisti italiani e nomi internazionali, in particolare nella scena londinese”.
La voglia di costruire e di creare legami ha spinto Enrico a lavorare con alcuni degli artisti più interessanti della scena musicale contemporanea italiana e internazionale, giovani e determinati quanto lui, ma anche con talenti internazionali. Enrico segue e ritrae “personaggi e scene culturalmente rilevanti che in un primo momento si distinguono per poi riconoscersi sotto un unico comun denominatore che dà origine a veri e propri fenomeni di costume”.
Così, in Inghilterra Enrico è andato alla ricerca di personalità legate al racconto della musica come terapia ed evoluzione della propria storia, al di là di un successo – effimero e impossibile da governare, come Enny e Jay1. Con la prima ha condiviso dal soundcheck al post show l’ansia e l’adrenalina che precedono un concerto; con il secondo, invece, ha viaggiato all’interno del quartiere di Londra in cui Jay1 è nato e cresciuto ed è poi entrato in casa sua, in cima a un grattacielo con vista mozzafiato sulla City, realizzando immagini in cui l’artista si è messo a nudo, anche letteralmente. “È questo il potere della fotografia”, mi dice Enrico, che la usa come strumento per superare il limite dell’imbarazzo e della timidezza e generare un’autentico incontro, capace di dar vita a qualcosa di nuovo.
Abituato a scattare con i tempi lenti dell’analogico, Enrico in questa occasione si è anche misurato con la fotografia istantanea, utilizzando una Instax Wide di Fujifilm, che gli ha permesso di mostrare in tempo reale le sue immagini agli artisti che stava seguendo. Con la stessa macchina ha fotografato anche Epoque, Eyelar, Gué Pequeno, Madame e Rkomi.
“Mostrare subito dopo il risultato degli scatti agli artisti è stato qualcosa di molto potente, che ci ha permesso di sperimentare un tipo di legame inedito”, mi dice. Restringendo il tempo di stampa e annullando la postproduzione, l’istantanea permette di fermare il presente per riguardare ciò che è appena accaduto, attraverso un filtro che sembra dare materialità al tempo, facendone emergere l’intimità e il senso di affinità. Il concetto di istante, d’altronde, è fondamentale non solo nella fotografia, ma in ogni ambito della percezione e della narrazione umana. L’istante, misurato dal tempo di scatto, nel mondo dell’immagine corrisponde per convenzione a un centoventicinquesimo di secondo e attraverso questo gesto la fotografia rende possibile realizzare nella maniera più concreta possibile il nostro desiderio di fermare il tempo e trattenerne qualcosa, un momento unico e irripetibile. L’istantanea potenzia ancor di più questa caratteristica, contribuendo a enfatizzare anche la delicatezza delle inquadrature di Enrico, grazie ai colori della pasta delle pellicole Instax.
Ecco Rkomi attraversare le tende del sipario del Teatro Carcano di Milano e sistemarsi il colletto della giacca prima di esibirsi in una versione acustica dei suoi successi per MTV Unplugged; Epoque che, insieme alle dj Polly e Pami, sfida lo spettatore con il suo atteggiamento sicuro di sé, in una scena del videoclip del singolo “Cliché”. L’approccio di Enrico non cambia a seconda della persona su cui pone l’obiettivo, ed è sempre in grado di metterla a proprio agio, facendo trasparire il calore che si genera. In una delle istantanee a colori, vediamo Madame sdraiata sulla prua di una barca nelle acque di fronte a Capri, mentre si prepara per aprire la sera stessa un concerto di beneficenza che vede come headliner John Legend, il nome più conosciuto con cui abbia mai diviso il palco. Ha un asciugamano che le protegge il viso dai raggi del sole, Enrico è con lei ma potrebbe non esserci, testimone silenzioso di un gesto, di un momento che potrebbe sembrare collaterale, magari poco interessante, perché non c’è azione, non c’è volto, ma che lo diventa proprio perché il fotografo, testimone silenzioso, decide di scattare e di includerlo nel racconto, trasformandolo così in un ricordo che si mostra al pubblico. Gli artisti, allora, si fidano di lui e scelgono di aprirgli spazi ad altri proibiti, forse proprio grazie all’intuizione che attraverso le sue immagini la loro identità verrà trasmessa al futuro. Dal lavoro di Enrico non scaturiscono solo belle immagini, ma documenti che raccolgono e conservano le testimonianze dell’epoca in cui vive, attraverso la forma che assumono le sue relazioni.
In copertina: Immagine di una giornata con alcuni membri dell’Asap Mob, Harlem, New York, 2019
Questo articolo fa parte di PARALLAX, il nuovo Vertical di THE VISION dedicato alla fotografia e al fotogiornalismo, e realizzato in collaborazione con Fujifilm Italia. L’intervista a Enrico Rassu è stata curata da Alessandra Lanza.
Facebook — Twitter — Follow @thevisioncom