Luci ed effetti speciali rendono un concerto memorabile e Jacopo Ricci ne è il king indiscusso - THE VISION

Jacopo Ricci è un ragazzo romano di ventotto anni, che nel giro di pochi mesi è passato dall’essere un elettricista freelance della periferia romana a lavorare dietro e davanti le quinte dei palcoscenici più grandi del mondo, con artisti del calibro di Alesso, Fedez, Marin Garrix, Gemitaiz, Janet Jackson, Achille Lauro, MadMan, RL Grime, Travis Scott, Skrillex.

A fargli trovare così rapidamente il suo posto nel mondo è stata una curiosità ossessiva – esercitata per tutta la vita – nel capire cosa stia dietro le cose e quali siano i meccanismi che le fanno funzionare, unita a un imprevedibile colpo di fortuna. 

Jacopo Ricci con il suo laptop GS66 MSI fotografato da @EnricoRassu

Jacopo è una figura professionale fluida (come l’acqua che ama e in cui è cresciuto), altamente specializzata, in grado di svolgere su un’immaginaria gerarchia lavorativa i compiti più diversi con la stessa attenzione e creatività, perché sa che tutto, se osservato nel modo giusto, può insegnargli qualcosa.

Come nasce Jacopo Ricci professionalmente? Ti va di raccontarci chi sei?

Il mio primo lavoro l’ho trovato su Instagram. Ormai si vende tutto lì. Ma in realtà è curiosa come cosa. C’era un’azienda che faceva produzione di show a Ibiza e io gli ho scritto un commento banalissimo, dicendo che mi sarebbe piaciuto andarli a trovare nei loro nuovi uffici. Loro mi hanno detto: “Sì, vieni, e mandaci un curriculum!”. Gliel’ho mandato e loro mi hanno richiamato, abbiamo fatto un colloquio e mi hanno mandato a fare una stagione a Ibiza.

Correva l’anno?

Era il 2017. Sono stato lì sei mesi. A Ibiza entri in contatto con manager, tour manager, artisti e quant’altro… è un altro mondo. Così ho finito a ottobre 2017 e a gennaio 2018 ero direttamente in tour. Dopo due mesi in cui mi sono detto “Oddio e mo’ che faccio”, ero in tour: partito. E fino al Covid non mi sono più fermato. È stato un vortice assurdo e solo adesso sto tirando le somme di quel periodo, sto cercando di accettare meno lavori all’estero e di concentrarmi di più sulla scena italiana, forte della mia esperienza con grandi artisti stranieri.

In questi pochissimi anni hai davvero seguito un sacco di progetti, assumendo diversi ruoli…

Sì, diciamo che è molto simile al cinema. La componente artistica e quella tecnica si sviluppano di pari passo. C’è un ambiente, ci sono delle produzioni e di volta in volta magari ci entri con un ruolo tecnico leggermente diverso. Io nasco come programmatore luci ed è una cosa che faccio ancora quando mi capita, perché la amo molto. Ad esempio, adesso ho progettato il light design per il tour di Achille Lauro, e prima abbiamo sviluppato insieme lo spettacolo per l’Eurovision. Per quanto riguarda il tour: è uno show di due ore nonstop, tutto suonato live e con l’orchestra, quindi una roba pazzesca, gigante. Sono felice di essere arrivato ad avere un rapporto diretto con gli artisti, in modo da sviluppare insieme lo spettacolo, parlando anche col direttore musicale. In questi casi la parte creativa del lavoro è fortissima, sinergica, e poi per quanto riguarda il mio ruolo inevitabilmente si scontra con la tecnica e il budget. La mia figura è a metà. Propongo le idee che ritengo migliori per un certo artista, ma poi devo anche riuscire a realizzarle in maniera efficace, in relazione ai budget.

Per LOVE MI hai assunto la veste di direttore artistico, cos’è cambiato?

Devo dire che mi piace molto occuparmi di progetti a 360 gradi, anche se è un impegno enorme. In un lavoro come quello, per esempio, sono io a chiamare il team dei visual, a disegnare il palco, le luci, a decidere quando partono gli effetti speciali, se un artista ospite ha delle richieste particolari deve parlarne con me… ma mi occupo anche di capire su quale materiale l’artista vuole stampare i banner con gli sponsor. Quindi passo da cose assolutamente astratte a dettagli del tutto materiali.

Per sviluppare un grande evento, che magari prevede una scaletta in cui appaiono più artisti con necessità molto diverse tra loro, quanto tempo è necessario?

Con grandi artisti come Fedez, ad esempio, può instaurarsi una grande sintonia, così ci si capisce al volo e in poco tempo si riesce a trovare la giusta quadratura del cerchio, che poi andrà progettata e realizzata dal punto di vista tecnico e produttivo. Ora il mio lavoro non si limita più a programmare le luci, ma è più gestionale e organizzativo. Avere un ufficio mi mette di fronte anche a tutti quegli aspetti meno divertenti e affascinanti del lavoro, ma che richiedono una responsabilità. Richieste di logistica, la gestione di collaboratori e dipendenti. Devo assicurarmi che mangino, che possano lavorare nelle giuste condizioni, che siano soddisfatti e possibilmente che respirino bene, perché comunque è un lavoro molto complesso e faticoso. Insomma, adesso ho molte più occupazioni e preoccupazioni. A volte finisci di lavorare alle cinque del mattino, altre stai magari due mesi senza niente da fare.

Questo tipo di lavoro, proprio come nell’industria cinematografica, obbliga a venire a patti con repentini cambi di ritmo.

A volte finisci di lavorare alle cinque del mattino, altre stai magari due mesi senza niente da fare. Hai botte in cui passi da zero a cento nel giro di un giorno, e viceversa. Oggi non fai assolutamente nulla – e magari ti annoi pure – e domani sei disperato perché hai 800mila cose da fare e stai facendo quattro giornate in una, ma almeno la tecnologia può venirti in aiuto dal punto di vista tecnico-gestionale e organizzativo. In ogni caso si deve imparare a far pace con gli sbalzi di adrenalina.

Jacopo Ricci con il suo laptop GS66 MSI fotografato da @EnricoRassu

Tu sei molto giovane.

Il Covid mi ha mangiato due anni, in cui non potendo fare praticamente niente ho avuto tempo per pensare a me stesso e capire cosa volevo fare davvero e come evolvermi. Così ho fatto un mio portfolio e l’ho cominciato a mandare in giro, a tutti. Ho fatto proprio un portfolio cartaceo, duecento copie di cinquanta pagine, rilegato, come si faceva una volta, perché mio padre ha una tipografia e io ho il mito della carta. Ci ho inserito tutti i miei lavori, anche quelli apparentemente meno importanti.

Il senso e il problema di qualsiasi portfolio d’altronde è proprio il raccontare una storia. O hai il coraggio di raccontarla dall’inizio, mostrando anche le cose più piccole che hai fatto, da cui sei nato e grazie a cui ti sei formato, oppure elimini, trucchi mostrando solo le luci, ma perdi il percorso.

Esatto. Io ho fatto anche grandi progetti, tipo Travis Scott. All’epoca non ero certo il direttore creativo, ma stando in quell’ambiente, avendo l’occasione di lavorare in una produzione così grande, ho imparato moltissimo. Ho assorbito ogni cosa che potevo di quel lavoro, per nutrire il mio sogno, che mi piacerebbe portare avanti con tanti miei coetanei in Italia.

Un ruolo come il tuo necessita di una grande capacità di mediazione tra varie figure artistiche e professionali.

Sì, devi essere molto fluido. Adattarti, saper ascoltare gli altri. Trovare il modo e le parole giuste per porti. Empatizzare ma, al tempo stesso, saperti distaccare per riuscire ad avere un lucido quadro d’insieme. È strano.

In questo mondo sei stato catapultato in questi ultimi anni o già da prima avevi fatto un percorso al suo interno?

Io non sono figlio d’arte. Tutta la mia famiglia dal lato materno, e in parte dal lato paterno, è nello sport. Mia madre era allenatrice di nuoto sincronizzato. Ora fa le maratone e dirige piscine. Anche mio nonno, a 86 anni, corre e nuota ancora. Io pure sono un ex nuotatore, sono un animale d’acqua, non ho ancora fatto pace con la gravità. Il contatto col pavimento è troppo duro, soffro. Mio papà, invece, è un ex guardalinee di Serie A e parallelamente ha sempre fatto il tipografo. Aveva una doppia vita, tipo Batman. Il venerdì sera partiva per seguire le partite che io vedevo in televisione, anche se in realtà non ho mai capito e amato a fondo nessun gioco che prevedesse una palla. I miei compagni di scuola erano increduli, ma io non sono mai stato appassionato di calcio, sempre e solo di cose che riguardavano la tecnologia.

Jacopo Ricci con il suo laptop GS66 MSI fotografato da @EnricoRassu

Qual è il tuo rapporto con la tecnologia?

Mi ha sempre affascinato quello che succede dietro le cose. I meccanismi. Ero quello che prendeva una cosa e invece di usarla la smontava, e spesso la distruggeva, perché poi non ero più in grado di riassemblarla, dai giocattoli ai computer. Mio padre, d’estate, mi portava nei villaggi turistici e io invece di farmi la foto col mare o col calciatore che era lì di passaggio mi facevo la foto col fonico.

[Jacopo si scusa, deve rispondere per forza al telefono. Capto solo: “Sì, sì, no, quelle le devo chiamare io dal vivo, perché andiamo proprio a braccio con quella roba. Comunque guarda, se vuoi, scrivigli che le prime fiammate arrivano da ‘Spirale ovale’, e poi il resto non lo so, da quel momento in poi può succedere qualunque cosa”. E io improvvisamente ho di nuovo tredici anni]

Considera che io quando devo seguire un evento vivo dentro al suo perimetro ventiquattr’ore su ventiquattro. Sto in un container. Passo dall’aiutare gli artisti a dar vita alla loro idea di performance ad andare da Ikea e comprare un tappeto e una pianta. [Ride].

Cioè, essere un direttore artistico vuol dire fare davvero tutto.

Sì, la mia evoluzione è stata questa: da bambino, già con questa curiosità verso tutto ciò che era tecnologico, mi sono detto “Tu andrai a fare lo scientifico, perché poi ti iscriverai a ingegneria elettronica”. Il mio futuro era già proiettato nella mia immaginazione. Spoiler: io non sono laureato.

Cos’è successo?

Vado al liceo, un liceo normale, all’Enriques, perché io sto a Ostia, in periferia, comunque comune di Roma. Esco con 75. Lo faccio per farlo. Io non ho mai imparato nulla se mi sentivo obbligato a impararlo. Posso passare ore a guardare video su come si smontano i trattori su YouTube, è tutta conoscenza intuitiva, ma se mi obblighi a studiare qualcosa solo per avere un voto non ce la posso fare. Così finisco comunque a Ingegneria elettronica, ancora abbastanza sicuro, se non fosse che dopo tre anni avevo dato solo sei esami, di cui uno era l’idoneità d’inglese per poter passare all’anno dopo. In inglese però ero fortissimo, perché i miei da sempre mi hanno detto di studiarlo, che mi sarebbe servito, e io mi guardavo un sacco di video su internet.

Ha fatto la differenza per te sapere bene questa lingua?

Per me è stato fondamentale per poter passare a un ambiente lavorativo internazionale, dall’Italia al mondo, senza troppa fatica o traumi. Ancora una volta, in maniera fluida, spontanea. L’inglese mi ha salvato e ringrazierò sempre i miei per avermi fatto capire la sua importanza. Grazie all’inglese mi sono potuto risparmiare lavori magari necessari per sopravvivere mentre cercavo di fare quello che volevo fare, ma che mi sarebbero risultati inutili da un punto di vista strettamente professionale. Ho comunque fatto la gavetta, dal mio punto di vista assolutamente necessaria, ma quella per poter imparare a fare bene il mio lavoro. E quindi elettricista, montatore di luci e così via, fino ad arrivare a studiarmi e a imparare a usare da solo tutti gli strumenti digitali necessari per fare il mio lavoro: software di vario genere, computer, monitor, consolle, eccetera. È un ambiente in cui l’esperienza sul campo fa tantissimo, ti sgamano subito se non sai fare le cose, o se le conosci solo in teoria. Ci mettono mezzo secondo a capire se sei solo un raccomandato.

Cos’è che si è rotto, cosa ti ha fatto capire a un certo punto che dovevi cambiare strada?

Io mi sono reso conto che volevo fare questo lavoro, perché nel frattempo avevo iniziato a organizzare delle serate in discoteca. E in questa discoteca uno dei soci era un tecnico luci in televisione e mi ha attaccato questa passione. Infatti quando organizzavo ‘ste serate, mentre il mio migliore amico era quello che vendeva i biglietti e ci metteva la faccia, io ero quello che stava dietro le quinte e si occupava della parte tecnica. Disegnavo, architettavo, facevo tornare i budget. Così ho fatto un salto nel vuoto, perché in effetti all’epoca io non avevo un lavoro. Ero un elettricista freelance. [Ride]. L’ultima ruota del carro… per di più freelance. Zero. Era un suicidio. Ma i miei da sempre mi hanno detto “Puoi fare quello che vuoi”, anche se sicuramente a quel punto si saranno cagati un po’ sotto senza dirmelo. Però, almeno dall’esterno, sono stati molto supportive. Così mi sono tuffato: ho dato la rinuncia agli studi, senza un lavoro, e dopo circa un anno è apparsa l’opportunità di Ibiza da cui è partito tutto.

Da un punto di vista tecnico, raccontaci come funziona il tuo lavoro…

Ci sono vari step e varie professionalità. Quando fai questo tipo di lavoro sei sempre in giro, segui i tour, a volte con date molto serrate, e il computer diventa praticamente una tua estensione, devi poter fare affidamento al cento per cento sulla macchina. È fondamentale avere attrezzatura con un’ottima portabilità, quindi molto leggera e con una batteria resistente, ma che allo stesso tempo offra prestazioni elevate per seguire i diversi aspetti del lavoro. Per sviluppare questo genere di progetti, infatti, serve un laptop che offra risultati ottimali con software estremamente esigenti (sia di disegno vettoriale sia 3D), che abbia quindi una scheda grafica di altissima qualità e processori molto potenti, per gestire una grande mole di calcolo ed essere performante ovunque e in qualsiasi situazione, come fa il mio GS66 Stealth di MSI.

Tecnica e creatività a questo punto si mescolano: quali sono gli step per raggiungere il risultato finale a cui poi assisterà il pubblico?

Per iniziare c’è una parte ingegneristica di CAD [disegno vettoriale n.d.r.]: le strutture che compongono i palcoscenici sono modulari e autocertificate e a me arriva un progetto su cui poi andare a lavorare, a meno che non sia un palco custom. A questo punto si inserisce la parte del disegno luci. Questa si fa sempre con software che derivano dal CAD, spogliati dalla classica interfaccia architettonico-ingegneristica e rivestiti di strumenti ad hoc per la progettazione delle luci. Ci sono quindi librerie di corpi illuminanti e via dicendo. Io per esempio uso Vectorworks, che vende un pacchetto specifico per chi fa il mio lavoro. In questa fase di disegno in CAD, posiziono i vari effetti speciali, dov’è la regia rispetto al palco (cosa che varia da comune a comune e che quindi prevede l’integrazione di una pianta che viene fornita dal municipio), eccetera. Dopo la tragedia di piazza San Carlo a Torino, il 3 giugno del 2017, per la finale della Champions, i comuni hanno sviluppato protocolli specifici per i transennamenti e quindi questi dettagli cambiano da città a città e sono già decisi. Dopo si passa alla fase 3D, quella che richiede le macchine più potenti, perché è come se si entrasse in un vero e proprio videogioco. Questi software simulano tutto lo show in 3D, con luci ed effetti speciali, senza renderizzarlo ma in real time – quindi è fondamentale che il computer non si surriscaldi. Anche in questo caso MSI offre soluzioni termiche dedicate per CPU e GPU con 4 heat pipe. Ingrandendone il diametro interno e utilizzando un’esclusiva pasta termica, vengono garantite le massime prestazioni professionali per poter sviluppare opere molto elaborate. In questo modo io posso programmare uno spettacolo con la stessa consolle con cui poi controllerò le luci reali, ma in questo caso controllo luci virtuali nello spazio 3D. Lo show di Achille Lauro lo abbiamo sviluppato così, come se fosse un videogame, solo che poi diventa realtà. È questa la cosa più bella.


Questo articolo è realizzato da THE VISION in collaborazione con MSI, tra i principali colossi nel settore dell’Information Technology e del gaming a livello globale, oggi sinonimo di costante ricerca di qualità e design avanzato. Grazie a laptop progettati specificatamente per gamer, content creator, professionisti di vari settori e studenti, MSI realizza soluzioni tecnologiche all’avanguardia ed è impegnata in prima linea anche nel settore dell’intelligenza artificiale, della realtà virtuale, del metaverso e dell’Internet of Things.

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