La scena musicale italiana negli ultimi anni ha vissuto una vera e propria rinascita, ibridando generi che fino a poco tempo fa si mantenevano a debita distanza, e costruendo un vero e proprio immaginario, che si nutre non solo di musica, ma anche di performance, temi sociali e civili, così come legami con altre arti, in particolare la fotografia, il cinema e l’alta moda. Il risultato è che se prima ascoltavamo soprattutto hit straniere e facevamo fatica a farci piacere la maggior parte dei prodotti creati dal mercato musicale, oggi producer, autori e interpreti, sembrano essere riusciti a trovare la formula perfetta per rinnovare il panorama, rendendolo di nuovo attraente e competitivo, anche fuori dai nostri confini. Se poi queste tre figure coesistono in un’unica persona si crea una condizione a dir poco speciale.
Scrivere un brano musicale è molto vicino al comporre qualcosa a metà tra un preparato chimico e una formula magica; un processo che si avvicina per certi aspetti all’alchimia, in cui convergono intuito, razionalità, regole formali, libertà creativa e interpretativa, conoscenze tecniche, curiosità, desiderio, ripetizioni e tentativi. Lo sa bene Dario Faini, in arte Dardust, pseudonimo adottato nel 2014 per dedicarsi alla creazione di brani che mescolano sonorità neoclassiche ed elettroniche, in omaggio a Ziggy Stardust di David Bowie e ai Dust Brothers – poi divenuti celebri come The Chemical Brothers. Musicista, compositore e produttore discografico dal percorso ricco e stratificato, che comprende anche una laurea in psicologia e un’esperienza professionale nel musical, Dardust ha collaborato con molti grandi nomi che sono andati a formare l’attuale costellazione musicale italiana – Fedez (“Magnifico”), Francesca Michielin, J-Ax (“Assenzio”), Madame, Marco Mengoni, Elisa, Elodie, Gué Pequeno, Emma, Alessandra Amoroso, Ermal Meta, Thegiornalisti, Fabri Fibra, Levante, Giusy Ferreri, Irama, La rappresentate di lista, Sfera Ebbasta, Jovanotti, Ghali, Marracash – dando vita a super hit, molte delle quali passate per Sanremo, come “Soldi” composta con Mahmood – con cui è iniziata una stretta collaborazione nel 2018 – che vinse il Festival nel 2019 e si piazzò seconda all’Eurovision, “Voce” di Madame, “Andromeda” di Elodie, “Amare” de La Rappresentante di Lista e “La genesi del tuo colore” di Irama.
La sua prima pubblicazione sotto il nome Dardust è stata 7, album uscito nel 2015 per la INRI, che rappresenta il primo passo di una trilogia – composta successivamente da Birth, del 2016, e da S.A.D. Storm and Drugs, del 2020 – volta a percorrere l’asse geografico Berlino, Reykjavík e Londra. Il concept album ruota attorno al numero sette: presenta sette brani, registrati in sette giorni e prodotti in sette mesi, e a seguito del suo lancio, Dardust è stato candidato agli MTV Music Awards nella categoria Best New Generation e agli MTV Digital Days nella Best Generation Electro.
Evidentemente in Dardust c’è qualcosa di peculiare (e non sono solo i capelli bicromi), che attira l’attenzione e non solo gli permette di creare brani che intersecano perfettamente ciò che il grande pubblico desidera, ma in qualche modo segnano una strada, e arricchiscono l’immaginazione di dettagli originali, che parlano direttamente alle nostre emozioni, tenendo sempre viva la nostra attenzione. Abbiamo provato a iniziare da qui.
Perché proprio la psicologia? Cos’ha portato nella tua arte questo tipo di conoscenza strutturata?
La psicologia era il piano B. Io volevo fare il musicista, ma i miei genitori mi hanno sempre consigliato di mantenere anche un altro tracciato, nel caso non fossero andate bene le cose, così ho scelto la facoltà che mi intrigava di più, sia perché volevo conoscere più cose di me stesso, sia come funziona il mondo. Alla fine sono riuscito a indirizzarlo nella fase finale sulla musica, per indagare l’ascolto musicale, grazie a un professore di Psicologia dell’Arte e della letteratura, che insegnava in un corso presente solo a Roma. La psicologia quindi mi ha permesso di esplorare/indagare tanti meccanismi dell’ascolto legati all’emotività e anche al processo di identificazione, al creare aspettative, sorprese, colori emozionali. Per me è stato quel quid in più che mi ha aiutato sul lato creativo ma anche nell’approccio con gli altri artisti.
A questo proposito: come gestisci il prisma di professionalità diverse che incarni – dall’essere artista in prima persona, all’essere autore per altre voci e produttore – tre ruoli in cui di volta in volta è necessario calarsi?
Avendo avuto un’infanzia molto fantasticata, basata sull’immaginazione e sull’interpretazione di vari ruoli, ho sempre switchato in maniera sana e costruttiva tra diverse personalità, innamorandomi di volta in volta di varie identità diverse, era il mio gioco preferito. Studiando dei profili, degli artisti, delle figure che mi erano vicine e lontane nell’immaginario musicale ho collezionato tratti e colori diversi. Questo mi ha aiutato a essere molto versatile, quasi come se fossi un attore e infatti senza aver mai studiato sono riuscito a fare teatro a livelli molto alti, ma in maniera istintiva, grazie alla mia formazione spontanea. Anche nel mio essere interprete mi è facile passare dall’essere un performer elettronico al piano solo, creando una dualità, che dal lato commerciale può essere difficile da far comprendere, ma per me è naturale.
Il tuo percorso risulta impossibile da sintetizzare con un’etichetta, tanto è ricco, variegato e prolifico. Lascia quasi disorientati. Immagino non sia stato facile all’inizio farne capire a livello creativo l’importanza e la necessità. Fino a quindici anni fa i percorsi a zig zag venivano spesso visti con sospetto, come se la pluralità venisse concepita solo ed esclusivamente come mancanza di decisione o impegno univoco.
È vero, c’era un certo atteggiamento purista del dover appartenere a una sola categoria. Sono stato spesso messo in guardia da persone vicine che mi dicevano “Guarda che quando si vogliono essere tante cose il rischio è poi che si finisca a non essere nulla”, ma alla fine non mi sono più fatto problemi. Se sono due cose diverse non posso nasconderlo, e se riesco a integrarle nella mia esistenza spero possano anche arricchire la mia arte. Perché devo scegliere una sola strada da percorrere, inserendomi in un solco già tracciato da altri, quando posso essere pioniere di qualcosa di diverso, di mio?
Il tuo prossimo tour non a caso si chiamerà Duality e vedrà la presenza di due mondi musicali coesistenti, ma per la prima volta nettamente separati: l’elettronica e il piano solo, che da sempre ti accompagna, e che emergerà come mai prima d’ora.
In un certo tipo di ambiente neoclassico la melodia viene vista con un certo pregiudizio, ma io ho voluto avere un’attitudine pop, anche molto minimale. Se si trovano dei temi belli secondo me è giusto enfatizzarli, lasciar loro spazio, senza paura di apparire leziosi.
I pregiudizi su forme che vengono considerate piacevoli sono diffusi in molti ambiti, ad esempio quello della poesia. Ma Mozart non ha mai certo avuto paura delle melodie “orecchiabili” e ancora oggi lo ascoltiamo. Penso che il tuo lavoro possa contribuire a smantellare questo tipo di visione austera. Il lasciare spazio a un certo tipo di piacere, di intrattenimento, di semplicità dell’espressione viene spesso ostracizzato in favore del tentativo di risultare complessi a tutti i costi, magari perdendo di vista il senso profondo di ciò che si vuole dire.
Arrivare alla semplicità a volte è più difficile che raggiungere la complessità. Dipende sempre dal percorso che si fa, dalla tipologia di sintesi e dalla maturità con cui la si affronta. Volevo fare qualcosa di diverso. I miei due mondi nel prossimo tour saranno divisi, ma ci saranno temi del piano solo, che torneranno nell’elettronica; degli spunti, dei passaggi, dei colori che si sposteranno tra i brani. Volevo andare agli estremi, esplorare qualcosa di nuovo creando qualcosa di diverso.
La dualità riverbera anche in fase tecnica di realizzazione. Si passa infatti dal pianoforte – strumento tradizionale, analogico, in cui tutto si gioca tra lo strumento e il corpo – a software e macchine digitali che necessitano di un approccio completamente diverso.
Esatto, non a caso ho fatto uno split del processo creativo rispetto all’emisfero destro e all’emisfero sinistro. All’emisfero destro è collegata la parte più emozionale, intuitiva, lirica, inconscia, il poeta; al sinistro la razionalità, l’organizzazione, l’ordine, la progettualità, l’architetto. Così ho dato al piano un’istintività emotiva, senza elaborazioni o contrappunti, una qualità semplice e immediata, ho lasciato che emergessero questi temi in maniera molto pura, senza andarci a giocare come faccio di solito, complicandoli col contrappunto. Invece, per quanto riguarda la parte elettronica, connessa alle strumentazioni, c’è un uso mescolato sia di una tecnologia analogica che digitale, sono quindi partito dalla tradizione per passare poi a un approccio più moderno e “futurista”. Anche nell’elettronica c’è un grande pregiudizio: spesso ciò che è analogico viene considerato più figo rispetto ai trick digitali che si usano nei software e nei plug-in virtuali di ultima generazione, che sono visti come più legati all’EDM [Electronic Dance Music], e quindi a un genere considerato più basso. Anche qui ci sono categorie e purismi, atteggiamenti di separazione. Io sono voluto restare completamente fluido. La fluidità, al di là della demarcazione dei generi, è per me proprio un concetto legato alla definizione delle categorie e degli approcci, anche rispetto alle tecnologie.
Qual è il ruolo della ricerca, dell’esercizio e del tentativo rispetto ai mezzi digitali all’interno del tuo processo di creazione? Hai un approccio più empirico o analitico alle strumentazioni?
Per me sono entrambi fondamentali. Prima c’è un aspetto di conoscenza, di studio delle macchine, dei software, dei plug-in che è poco artistico e molto analitico, è come imparare l’alfabeto di un certo tipo di linguaggio, dello strumento che stai utilizzando, dal sintetizzatore al computer passando per tutto ciò che ci sta in mezzo. Una volta che conosco l’alfabeto passo alla fase creativa, dove tutto ciò che ho imparato e che conosco si muove a livello inconscio, senza una logica, e dove emerge l’errore, mostrando spesso qualcosa di nuovo e inaspettato. In questa fase istintiva non mantengo controllo analitico e matematico di ciò che sto facendo, qualcosa sfugge, anche perché si muovono in contemporanea moltissime cose. Si crea così un margine d’errore e nell’errore scopro sempre qualcosa di nuovo. L’errore è ciò che razionalmente non faresti e quindi se lavori solo in maniera analitica dai vita per forza di cose a qualcosa di logico e quindi di prevedibile e ripetitivo. Nell’imprevisto, invece, c’è sempre qualcosa di nuovo, per questo per me è importante espormi a questo tipo di rischio, anche con la tecnologia.
Un altro aspetto importante del tuo lavoro è la geografia: Berlino, Reykjavik, Londra, Tokyo…
I luoghi hanno dei landscape, dei paesaggi, che trasformo sempre in soundscape, sul lato simbolico. Ogni luogo ha delle proiezioni che tu metti in atto, studiando il luogo stesso, immaginandolo, attraverso l’ascolto di alcuni dischi, film, documentari, immagini. Prima immagino il luogo, lo idealizzo, attraverso la sua cultura, la sua storia. Poi andando lì la mia idea e la realtà si sovrappongono creando altre suggestioni, prospettive nuove, che a mia volta traduco in luogo sonoro. Per me è un processo magico. Viaggiare è fondamentale. Cambi prospettiva, orizzonte, sguardo. Ogni luogo ha le sue fascinazioni che attivano dei processi creativi. Il nuovo disco doveva essere legato a Tokyo, ma purtroppo a causa della pandemia non ci sono potuto andare, e quindi è restata solo la tensione verso quel luogo. Ma in un certo senso è sempre stato così: quando ero a Berlino, a scrivere 7 [Seven], avevo già la suggestione dell’Islanda, in Islanda avevo già quella di Edimburgo. In questo disco quindi ci sarà il Giappone, pur non essendoci mai andato fisicamente.
E le tue origini in questo panorama come si inseriscono, come ti hanno influenzato?
Io vivevo in campagna, nei boschi, quindi in una dimensione quasi favolistica, un’atmosfera magica, poi per studiare mi sono spostato in città, ad Ascoli Piceno. Per me questi luoghi sono stati una sorta di gabbia che mi ha fatto sognare spazi diversi. Perché poi Ascoli per me è sempre stata un luogo molto chiuso. Io avevo già fatto tante cose in ambito musicale ma quando incontravo qualcuno per strada mi si chiedeva sempre “Allora quando ti laurei?”, come se il resto, che io ritenevo più importante, più interessante, non esistesse, quasi non avesse valore. C’era sempre una difficoltà nel far capire quello che volevo fare, ma è stato importante per trovare la forza di abbattere il muro.
Adesso che hai concluso il tuo nuovo album, stai già proiettando la tua creatività in un’altra direzione o continuerai ad abitare questa dualità finalmente affermata?
Non ho ancora pensato a dove andare in futuro, sicuramente questa dualità è talmente complicata che sento di doverci stare ancora dentro a lungo, per esplicitarla e riuscire ad esprimerla al meglio. Sicuramente andrò in Giappone per il nuovo disco e lì penso immaginerò un altro luogo, anticipando il mio prossimo passo. La sovrapposizione di mondi è fascinosa ma complicata, perché crea una costante contaminazione. D’altronde, l’imprevisto, la sorpresa, sono ciò che rompono l’aspettativa e creano uno scenario nuovo, inatteso. Io baso tutta la mia vita su questo, sul non assecondare mai quello che gli altri si aspettano. Sarebbe semplice, saprei farlo, è ciò che faccio in continuazione per gli altri, ma per me non mi interessa. Non perché sia un sadico, ma perché sono affascinato dall’adrenalina del mistero, dal rischio, e l’artista per essere tale deve rischiare, mettersi in una posizione scomoda, avere coraggio.
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