Se è vero che ciascuno di noi non può fare a meno di vivere nella bolla della sua singolare esperienza, il digital artist Andrea Colacicco, in arte Black Elephant A.C., vive perennemente in una realtà aumentata. Nato a Reggio Emilia nel 1991, approfondisce il mondo del graphic design e della visual art all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nella bassa emiliana, la noia fa sì che cerchi in tutti i modi di dar vita a un mondo più ricco e interessante, nato dalla sua immaginazione: è così che si avvicina alle possibilità offerte dai computer, tra cui il video mapping, quando ancora era una nicchia conosciuta da pochissimi.
Selezionato nel 2020 da i-D Italy tra i migliori digital artist e vincitore del premio Abbado come miglior graphic designer italiano durante il suo periodo accademico, Andrea è tornato da poco da Londra – dove ha esposto alcune opere di digital art al Huckletree, il nuovo web3 and new-world tech in Oxford Street.
Negli anni, i suoi lavori hanno iniziano a girare tutto il mondo: Londra, Berlino, Amsterdam, Parigi, New York, Los Angeles, Shanghai, e anche in Italia. Ha fatto inoltre VJing per dj e artisti di fama internazionale, tra cui Cassius, James Zabiela, Benny Benassi, Louie Vega, Daddy G (membro dei Massive Attack), Adam Port, Azari and III, Dj Tennis, Tiga, Ralf. Tra i suoi video mapping architettonici di rilievo c’è quello di Parigi al Louvre e a Firenze, a Palazzo della Signoria e a Palazzo Capponi.
È più alto della media, ama il basket, si confeziona i suoi stessi vestiti, e si taglia e si tinge i capelli da solo, come se la sua stessa testa potesse essere un supporto artistico, o il segnale che qualcuno aspetta di vedere in un periodo di apatia urbana ed esistenziale, una sorta di ispirazione.
Qual è il tuo percorso, Andrea? Qual è stato il tuo primo approccio creativo?
Tra i sedici e i diciotto anni mi sono reso conto – anche grazie a internet – che in città internazionali come Milano, New York e Ibiza c’era una vita parallela da cui io, che stavo a Reggio Emilia, ero completamente escluso. Oltre a essere ancora giovane, mi chiedevo: “Ma perché qui non succede niente di tutto ciò, se non qualche festa?”. A sedici anni ho iniziato come PR, chiamavo gente, portavo bottiglie per i club e ok, era divertente, ma non mi sembrava abbastanza, sentivo il bisogno di creare qualcosa di mio. Un giorno incontrai Giovanni Silvanini, quello che di lì a breve oltre a essere un amico diventò il mio socio, iniziammo a gestire e creare un evento a Reggio Emilia. Questa cosa è andata avanti per quattro anni e siamo diventati un gruppo di trenta, trentacinque persone. Abbiamo creato una situazione clubbing ibrida, tra creatività e divertimento. Queste serate che organizzavamo – Clapx – sono diventate dei veri e propri contenitori dove la creatività era la parte fondamentale, creando allestimenti, mostre di artisti, installazioni anche di 5/6 metri totalmente videoproiettate… e questo è stato estremamente apprezzato dalle persone. Siamo stati molto riconosciuti dalla città perché abbiamo dato vita a qualcosa di nuovo.
Dieci anni fa, infatti, non c’erano molte persone che si occupassero di video mapping e 3D…
Assolutamente, eravamo in pochissimi all’epoca a lavorare il 3D per creare installazioni di video mapping. Io ho imparato a mia volta dai Lumière Brothers, dei ragazzi che avevano iniziato prima di me a sperimentare tra animazioni 2D e 3D. E poi, da lì, ho iniziato a studiare per evolvermi. Le tecnologie in quegli anni erano estremamente basic, e appena inserivi qualche elemento in più su Cinema 4D esplodeva. Allora si dovevano inventare dei “trucchi” per simulare gli effetti di profondità che volevo, nonostante i limiti dei software e dei computer – allora con molta meno ram e con schede grafiche quasi primitive rispetto a quelle di oggi. Ho scoperto i computer MSI durante una rappresentazione di Wacom in cui si usavano come strumento di passaggio dalle tavolette grafiche. Tra i colleghi che si occupano di 3D se ne sente sempre parlare. Una mia collega che utilizza soprattutto Windows e si assembla i suoi stessi computer non avrebbe dubbi nel scegliere una di queste macchine, soprattutto per il sistema di raffreddamento e la capacità di renderizzare. Per me è sempre più importante trovare la quadra tra velocità di rendering e il mantenimento della qualità del video, soprattutto quando devo fare cose molto complesse, magari con molti materiali differenti tra loro.
A questo proposito, qual è il tuo rapporto con la macchina? Per alcuni il computer è una vera e propria estensione fisica e cognitiva.
Per me il dialogo con la macchina è super lineare, familiare, un software può essere molto rassicurante. E un rapporto in cui ci possono essere incomprensioni, con qualche margine d’errore, perché anche la macchina può soffrire, ma una volta che impari a conoscerla tutto diventa più semplice. Credo che il vero esercizio, il più delle volte, lo fai quando parli con le persone, devi sempre cercare di capire cosa vogliono veramente. Molte volte vengono usate parole intendendone altre, mentre con i software se tu digiti uno shortcut resta semplicemente uno shortcut, un comando diretto che genere un’azione specifica al programma che stai utilizzando (direi molto più semplice). Per raggiungere un punto comune con un essere umano ho capito che la cosa migliore è sempre l’utilizzo delle immagini, lo strumento con cui è più facile incontrarsi e capirsi, al di là delle definizioni e delle possibili etichette. Se ti mostrassi un’immagine come reference visiva quella sarebbe oggettiva, lascerebbe spazio a pochi dubbi. Se invece iniziassimo a definirla tramite aggettivi potrebbero essere infiniti e totalmente soggettivi – glossy, minimal, mat, gothic, fashion, caravaggesca – e comunque non essere in grado far capire cosa si intende all’altra persona, perché spesso utilizzati come sinonimi, anche se in realtà si riferiscono a cose del tutto differenti.
Com’è stato il passaggio da Reggio Emilia a Milano, dalla provincia a una delle realtà culturali più ricche d’Europa?
Nel 2020 sono stato notato e inserito nei top digital artist italiani da i-D, e questo mi ha fatto conoscere, e poi parallelamente quando è esplosa all’improvviso la moda del 3D io ero lì, pronto già da anni. Una volta questa arte era considerata una cosa molto sperimentale, mentre negli ultimi due o tre anni c’è stato un salto enorme. Tutti, anche brand molto grandi con cui ho lavorato, tipo Loewe o The North Face, si sono interessati a questo linguaggio, desiderando di declinarlo a modo proprio. Per sviluppare il mio ultimo progetto con The North Face ho impiegato circa quattro mesi, clip molto studiate con tantissima ricerca, comprendendo un lungo periodo di sviluppo di bozze iniziali, per riferimenti estetici, elementi naturali, colori e design dei characters. Un altro fattore importante di questo sviluppo digitale è stato il lockdown, che per caso mi sono trovato a passare a casa dei miei in Emilia – senza quasi nulla, se non il computer e la macchina fotografica, che per fortuna avevo portato con me. Mi sono potuto immergere nei miei progetti, e continuando a sviluppare varie commissioni, dandomi la possibilità di non stare mai fermo.
Da che punto parti per ibridare le tue diverse competenze, analogiche e digitali?
Per me partire da uno schizzo o da una fotografia può essere utilizzato come primo frame concettuale. Non mi interessa arrivare a una perfezione, però è fondamentale come primo input – di taglio, luce, composizione, ispirazione – importantissimo.
Non ti capita mai di sentirti deluso dalla realtà, nuda e cruda, senza la sovrastruttura della tua fantasia?
Mi sento splittato tra due tipologie di cervelli: una ipersatura di sfumature, percezioni e visioni che possono accadere, e un’altra che cerca purezza e minimalismo in quello che sto vivendo in quel particolare momento, in cui cerco di apprezzare un singolo stimolo, godendomi solo quello. Ogni tanto serve semplicemente respirare.
Per te è più interessante il rapporto con la macchina o con le altre persone?
Sicuramente il rapporto con la macchina è diventato molto più appagante di un tempo; ti dà la possibilità di dar forma ai tuoi sogni, e ogni volta rimani sorpreso dei risultati, anche se in questo ultimo periodo per me sta diventando sempre più importante il valore dei rapporti umani. Sto conoscendo persone vere, che ti guardano negli occhi e ti possono ascoltare. Una cosa che al momento mi sta dando molta soddisfazione è fare da allenatore al campo da basket di Famagosta. Sono partito nell’inverno dell’anno scorso con “Maury e Lollo” due ragazzi di sedici anni con il sogno di imparare a giocare, e che da quel momento, dopo un anno intenso, oltre al gioco hanno imparato a essere più forti e sicuri di sé, diventando come figli con cui condividere gioie e dolori dentro e fuori dal campo.
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La foto in copertina è di Edward Scheller
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