La Type III Trucker Jacket di Levi’s ha attraversato cinque decenni diventando per chiunque l’abbia avuta una tela bianca da personalizzare con il proprio gusto, le proprie idee e la propria storia. Per celebrare i 50 anni della Trucker Jacket abbiamo chiesto a cinque giovani creativi italiani di raccontarci la loro storia e di raccontarla direttamente sulla giacca attraverso una personalizzazione con la loro tecnica preferita. Vittorio Marchetti è un giovanissimo art director marchigiano trapiantato a Milano. Ci ha parlato di università vs lavoro, feedback e libertà creativa.
“Quattro anni fa sono arrivato a Milano dalle Marche per studiare art direction. Mio papà è fotografo ed è stato molto utile crescere in una famiglia che già lavorava in ambito artistico, non solo perché mi hanno sostenuto, ma perché ho avuto accesso da subito agli strumenti del mestiere: a tre anni scarabocchiavo su una tavoletta grafica davanti a Photoshop, non solo con carta e pennarelli. È una cosa che ti fa crescere con un’altra testa.”
COME MAI HAI SCELTO ART DIRECTION?
Al liceo ho fatto grafica, ma quando sono arrivato a Milano non volevo più fare solo il grafico, mi volevo avvicinare di più alla pubblicità. Studiando art direction hai un’infarinatura di grafica, ma si studia molto altro, anche l’audiovisivo, che è un ambito che seguo molto per lavoro. Non tengo direttamente la camera in mano, ma lavoro molto sulla parte creativa e produttiva, dall’ideazione del video, al disegno degli storyboard, alla scrittura di eventuali testi.
COME È STATO IL TUO PRIMO APPROCCIO AL LAVORO?
Ho iniziato quando ancora studiavo, quindi mettevo subito in pratica quello che imparavo – anche se spesso mi capitava di fare cose che erano più avanti rispetto ai miei studi, o che addirittura non venivano insegnate in università. Questa è stata una grande fortuna, quando ho finito sapevo cose che non avrei mai imparato in aula.
QUALI SONO LE COSE CHE NON INSEGNANO ALL’UNIVERSITÀ E CHE INVECE SAREBBE UTILE SAPERE?
Quando esci dall’università non hai idea di come approcciarti a un cliente. Nessuno te lo spiega. Il mio indirizzo era molto improntato alla pubblicità e a entrare in agenzia, dove certe dinamiche sono più lontane da te. Lavorando da freelance ho dovuto capire come funziona il rapporto tra creativo e brand, come proporre un’idea e come gestire i feedback. Ho imparato che quando un cliente dice no, è no.
Poi c’è tutta la parte burocratica da gestire quando sei freelance, di cui nessuno ti parla a scuola. Sarebbe utilissimo avere un’ora al mese di amministrazione personale, da come fare una fattura a come gestire i conti. Sembrano elementi secondari, ma è anche con queste conoscenze che dimostri la tua professionalità.
CHE LAVORI STAI SEGUENDO IN QUESTO PERIODO?
Lavoro part-time con un’agenzia pubblicitaria, mentre da freelance seguo progetti vari, molti legati a brand di moda, ad esempio gli ultimi spot di Dior Perfume, ma anche la comunicazione digital del nuovo album dei Negramaro.
COM’È PASSARE DA UN CLIENTE ALL’ALTRO, ANCHE IN AMBITI E CON STORIE DIVERSE?
La sfida di un creativo è la versatilità. È sempre meglio se ci sono tanti progetti diversi, altrimenti si rischia di sacrificare la creatività. È anche la prima richiesta che ti fanno all’interno di un’agenzia, imparare a portare avanti più progetti contemporaneamente.
COME FUNZIONA IL TUO PROCESSO CREATIVO?
Una volta ricevuto brief e tempistiche (ovviamente è sempre tutto urgentissimo), inizio a studiare il prodotto e la storia del marchio. A quel punto cerco di farmi venire delle idee. A volte ci vuole più tempo, altre volte capita di avere subito l’illuminazione, che immancabilmente al cliente non piace – a volte capita che boccino tre creatività di fila. La mia ricerca di idee in realtà è continua, la faccio anche quando non ho brief. Salvo reference, immagini, suggestioni anche quando sono sdraiato a letto a scrollare l’homepage di Instagram. Poi ci torno quando devo mettermi al lavoro.
CHE SOGGETTO HAI SCELTO PER LA GIACCA?
Ho iniziato a ragionare sul mio lavoro di tutti i giorni nella pubblicità. Levi’s ha fatto delle campagne bellissime. La mia preferita è quella di Flat Eric, e poi Mr. Bombastic. Ho ripreso Flat Eric facendo dei patchwork di tessuto simile a quello del pupazzo e poi disegnando gli storyboard dello spot su pelle nera – disegnare storyboard a mano è parte del mio lavoro.
TI CAPITA DI USARE LA MANUALITÀ?
Al primo anno di università ho seguito un progetto editoriale, dove lavoravo ai font o alle grafiche a mano e poi importavo in digitale. Ora disegno abitualmente sketch per i video, ma non facevo un lavoro manuale da circa un anno, l’ultimo è stato un progetto per Illy in cui ho creato una nuova edizione del pack in metallo partendo da un acquarello su tessuto. In passato avevo personalizzato una Trucker Jacket bianca con un sacco di toppe di band rock old school, ma purtroppo l’ho persa nei vari traslochi.
QUANTA LIBERTÀ HAI NEL TUO LAVORO?
Avendo a che fare con brand, bisogna sempre seguire i loro canoni, quindi ci sono pochi margini di manovra. Spesso cerco di spingere verso un’immagine più forte rispetto a quella che ha già il marchio, ma è difficile che vengano fatte scelte più coraggiose, c’è sempre un po’ di protezionismo.
A volte mi è capitato che mi dicessero “Fai quello che vuoi”, ma mi trovo più in difficoltà di quando mi vengono dati tanti paletti. È bello che un brand si affidi a te, ma un po’ di linee guida tornano utili, soprattutto quando si lavora con progetti importati e il rischio di sbagliare è alto. In ogni caso, il giudizio del cliente è costante sull’intera lavorazione, quindi la libertà assoluta è utopica.
COSA TI AUGURI PER I PROSSIMI LAVORI?
Spero che tutto continui cosi come sta andando adesso. Il mese scorso sono stato a Parigi per seguire un brand con cui collaboro, mi piace molto l’aria che si respira lì. Spero nasceranno delle nuove occasioni di lavoro anche fuori dall’Italia.
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