La Type III Trucker Jacket di Levi’s ha attraversato cinque decenni diventando per chiunque l’abbia avuta una tela bianca da personalizzare con il proprio gusto, le proprie idee e la propria storia. Per celebrare i 50 anni della Trucker Jacket abbiamo chiesto a cinque giovani creativi italiani di raccontarci la loro storia e di raccontarla direttamente sulla giacca attraverso una personalizzazione con la loro tecnica preferita. Giada Yeya Montomoli è un’artista metà colombiana e metà toscana, abbiamo parlato con lei di tessuti, famiglia e dell’importanza di conoscere se stessi.
“Quando vuoi fare il designer e lavorare in uno studio sei un esecutivista: hai il tuo gusto e le tue preferenze, ma la maggior parte del tempo fai quello che ti viene detto di fare. Quando lavori su progetti personali ti devi chiedere continuamente chi sei e cosa vuoi dire. Io chi sono? Io sono Giada, sono metà colombiana e metà maremmana, ho fatto graffiti da adolescente, mi piace la moda, sono fidanzata con Luca, sono legata alla comunità LGBT. Quello che voglio fare nei miei lavori è unire tutto questo. Ma faccio fatica a definirmi in modo preciso, penso di essere semplicemente un creativo.”
COME MAI HAI SCELTO DI STUDIARE INTERIOR DESIGN?
Non sapevo bene cosa fare, e allo IED lessi sulla parete “Se quando eri bambina ci mettevi più tempo a costruire la casa di barbie invece di giocarci, dovresti fare interior design”. Io da bambina ero così. A ripensarci ora, credo sarebbe stato meglio fare un’università con un approccio più artistico, meno “al computer” e con più contatto con i materiali.
COSA HAI FATTO DOPO L’UNIVERSITÀ?
Ho vissuto quattro mesi a San Francisco, dove ho conosciuto artisti che mi hanno aperto a una mentalità più “fricchettona” [ride]. Poi quattro anni fa ho lavorato per Lotta Jansdotter, una pattern designer di New York. Ho messo insieme varie esperienze e ho capito che non si doveva fare per forza solo l’interior designer o il grafico. In questo momento mi sto tenendo dei lavori part-time che mi paghino la libertà di cui ho bisogno per i miei progetti personali, che faccio in collaborazione con altri designer, con brand oppure che vendo online.
LA MAGGIOR PARTE DEI TUOI LAVORI SONO SU TESSUTO.
Principalmente sì, anche se in quest’ultimo periodo mi sono dedicata a un progetto sulle porcellane, in passato ho seguito progetti editoriali con grafica e illustrazione. Ho creato anche un neon a forma di tette per il negozio Wovo di Milano e altri tre per i ragazzi di Virgo, una serata del Rocket. A proposito di tette, ho creato anche dei cuscini con lo stesso design per un albergo di Follonica, lo Sleep, e si è rivelato un ottimo prodotto di marketing visti tutti i selfie che la gente si scatta con quel cuscino.
La scelta del tessile è nata un po’ per caso. I miei disegni avevano bisogno di un supporto che desse loro più carattere della semplice carta.
HAI INIZIATO SUBITO CON IL RICAMO?
Ero partita con la stampa su tessuto, ma era troppo costosa. La mia prima produzione era una stampa su 60 metri di tessuto, avrò speso più di mille euro per poi tenermela in un armadio. Agli inizi non sai esattamente quanto può costare un lavoro del genere, quindi ti lasci prendere dall’entusiasmo. Ma credo sia fondamentale per un designer trovare un modo sostenibile per portare avanti i progetti personali. La scelta migliore è farsi tutto da soli. L’importante è non buttare soldi, ma investirli per fare in modo che i progetti che segui si autoalimentino.
A COSA TI SEI ISPIRATA PER I TUOI PATCHWORK?
Mi sono ispirata alle tele “arpilleras”, dei tessuti tipici del Cile e del Perù cuciti a mano dalle donne durante la dittatura di Pinochet. Queste tele raccontavano scene di vita molto forti, legate alle esecuzioni, alle persone disperse. Erano la voce delle donne. I miei nonni avevano alcune tele in casa. Ho deciso di usare questa tecnica per raccontare me, le mie caratteristiche. Ho realizzato una arpillera con quello che guardo su Instagram prima di andare a dormire – la moda, le feste, il fitness – e un’altra con gli oggetti legati al mio viaggio in America. Uno dei soggetti che uso spesso sono le labbra, le faccio sempre non proporzionate perché io ho il labbro leporino.
È STATA TUA NONNA A INSEGNARTI QUESTA TECNICA?
Mia nonna è mancata a marzo, ho iniziato questo progetto poco dopo. Uso i fili che ho trovato a casa sua, che aveva comprato in Colombia negli anni ’60. Mio nonno in quegli anni seguiva la costruzione di grandi opere là, mentre mia nonna passava il tempo a cucire insieme alle altre mogli degli operai del cantiere. Questo progetto mi ha fatto capire che avevo tanti insegnamenti suoi che non avevo mai usato. Quando ero piccola ricamavamo e facevamo la maglia insieme, ed è strano cucire con i suoi materiali qualcosa che non vedrà mai. Ogni tanto penso ai consigli che avrebbe potuto darmi.
CHE SOGGETTO HAI SCELTO PER LA GIACCA?
Per prima cosa l’ho indossata e ho iniziato a pensare a che cosa faccio quando indosso una giacca, cosa metto nelle tasche. Io perdo continuamente gli accendini, così ho avuto l’idea delle mani che tastano le tasche in cerca dell’accendino. Ultimamente il tema delle sigarette mi ossessiona, perché ho la tosse da un po’ di tempo e mi ripeto che non devo fumare anche se vorrei… Quindi le ho messe tutte sulla giacca, con la domanda sotto il colletto “tienes fuego?” ovvero “hai da accendere?” e l’occhio rosso di quando fumi troppe sigarette. Ho usato un filo da lenza di modo che non si veda la cucitura, perché un eventuale ricamo si sarebbe “mangiato” delle applicazioni così piccole.
HAI UN APPROCCIO AL LAVORO MOLTO PRATICO, DA DESIGNER, MA ANCHE ESTREMAMENTE PERSONALE E ASTRATTO, DA ARTISTA. QUALE DIREZIONE VORRESTI PRENDERE?
Non ho una direzione precisa al momento. Mi piacerebbe sia andare avanti così, lavorando a tanti progetti diversi con tanti materiali, oppure, chessò, lavorare come direttore creativo di un brand che mi piace. Non so se sono una designer o un’artista, dipende dalle occasioni della vita.
IN QUESTO PERIODO STAI LAVORANDO CON LA PORCELLANA.
È un progetto che sto portando avanti con Agnes Fries, una designer svedese che da 10 anni lavora in Cina. Abbiamo realizzato due vasi e un piatto con la tecnica della porcellana blu e bianca di Jingdezhen. Il problema iniziale è stato con la strumentazione per disegnare: ero arrivata con delle illustrazioni, ma avrei dovuto usare i pennelli, che non ho mai usato in vita mia. Io uso le tecniche dei writer, gli spray e i marker. Così abbiamo creato un marker fatto apposta per la porcellana.
QUINDI AVETE INVENTATO UNA TECNICA CHE NON ESISTEVA?
Abbiamo creato uno strumento che non esisteva. Abbiamo fatto ricerca su spugne per trovare quella più adatta a rilasciare il colore sulla base della porcellana (che è estremamente secca e molto assorbente), e insieme ai vasi abbiamo creato una scocca in ceramica per tenere la spugna e vari tipi di punta.
COME È STATO PASSARE DAI TESSUTI ALLA PORCELLANA?
Lavorare coi tessuti significa prenderli, strapparli, bucarli… La porcellana invece può rompersi, va controllato ogni piccolo dettaglio, ogni imperfezione. Però la porcellana dura per sempre, mentre i tessuti dopo qualche decennio si logorano. Mi sono resa conto di quanto degradano i tessuti solo dopo questo progetto, non mi ero mai soffermata a pensare al “per sempre”. Ho ripensato a quando ho trovato i tessuti lavorati di mia nonna e ho voluto conservarli – è vero che ti basta metterli sotto vetro, ma a quel punto cambia la loro natura. Però per me non è fondamentale l’indistruttibilità di un’opera. Siamo noi umani i primi a decomporci, perché le nostre opere dovrebbero vivere per sempre?
HAI INTENZIONE DI LAVORARE IN ALTRI PAESI?
Ora voglio assolutamente fare un progetto in Colombia, e sto già avviando i miei contatti in quella zona. Mi piace scegliere una tecnica ed eseguirla nel posto in cui è nata. Ora vorrei lavorare sui tessuti utilizzando i personaggi della cultura precolombiana andando dagli artigiani che portano avanti questa tradizione.
CHE CONSIGLI DARESTI A UN RAGAZZO CHE STA STUDIANDO E VORREBBE LAVORARE CON LA CREATIVITÀ?
Il primo consiglio è cercare di diventare unici: a tutti piace creare qualcosa, però va avanti chi ha qualcosa da raccontare. Poi bisogna capire qual è il mezzo con cui esprimere te stesso nel modo migliore. Io ho passato anni a provare disegni o stampe o digitale prima di capire la mia strada. Poi è importante raccontarsi. Capire quali sono i propri interessi, le proprie caratteristiche, le proprie passioni e metterle nel proprio lavoro. Io metto quello che sono, metto sempre dei messaggi che per me sono importanti, non faccio mai qualcosa in un certo stile perché va di moda o perché assomiglia al brand che mi piace. Sapere chi sei è davvero la cosa più importante.
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