Tutte le volte che il caffè ha rubato la scena al cinema

Una delle prime lezioni che viene impartita nelle buone classi di sceneggiatura è: se dovete far comunicare due personaggi, date loro un’azione da compiere, questo renderà la scena più dinamica. Ma attenzione – chiosa spesso l’insegnante – guai a voi se quell’azione è preparare o bere del caffè. Questo non deriva da una immotivata avversione dei bravi insegnanti di sceneggiatura nei confronti della bevanda – credo anzi che gli sceneggiatori cinematografici siano tra i maggiori consumatori di caffeina al mondo – bensì dalla imponente tradizione di stupende scene cinematografiche consumate intorno a una tazzina di caffè. Quello degli insegnanti è quindi un consiglio premuroso rivolto agli esordienti: non confrontatevi con gente come Pietro Germi, Sergio Leone e Tarantino. Trovate azioni differenti per le vostre penne inesperte.

Le Iene (1992)

Pulp Fiction (1994)

Il rapporto tra caffè e cinema è una di quelle relazioni di lunga data, affettuose e consolidate, mai vittima di stanchezza, con momenti di puro splendore, identificabili in alcune scene culto che possiamo dire abbiano fatto la storia del cinema. È difficile cercare la ragione di questo sodalizio. Si potrebbe pensare che il caffè, rappresentando lo scandire di una quotidianità archetipica, possa essere un buon tentativo di raccontare una normale routine finzionale: il nostro personaggio ha una vita normale? Bene, probabilmente beve spesso e volentieri del caffè. Ma la verità è che il rapporto tra le storie in pellicola e la caffeina è ben più complessa di così. Moltissime volte una tazzina di caffè diventa il punto focale di una scena pur senza nessun motivo apparente. Pensiamo, per citare un film dalla trama di non facile lettura, a Mullholland Drive. Siamo nel 2001 e David Lynch ci ha combinato un altro scherzetto dei suoi, uno dei migliori a dir la verità. In una scena Justin Theroux, regista che cerca di realizzare la propria visione, si siede a un tavolo con due personaggi misteriosi che cercano di influenzare la scelta della sua attrice protagonista. “È lei la ragazza,” ripete ossessivamente uno dei due. La scena è tesa, carica di quell’orrore immotivato che solo Lynch sa creare. A uno dei due personaggi viene portato un espresso. L’uomo avvicina la tazzina alla bocca, accompagnandola con un tovagliolo di stoffa. Dopo pochi sorsi, rigetta il caffè sul tovagliolo in malo modo: “Che merda,” conclude con disprezzo. Proprio grazie a quel caffè, la scena raggiunge l’apice della sua tensione, il climax, portando il regista a ribellarsi e i due personaggi misteriosi a urlare, come solo in un film di Lynch può succedere.

Mullholland Drive (2001)

Era forse un rito quotidiano quello a cui abbiamo appena assistito? Proprio no. E allora perché il caffè?

È innanzitutto necessario fare un distinguo tra la visione americana del caffè nei loro film e quella, ben più articolata, italiana. Per gli americani il caffè sembra allontanarsi da quella particolare ritualità a cui spesso noi italiani lo associamo, per entrare nel regno dello scontato e del gratuito. Il caffè in America non è quello della caffettiera napoletana, della gestualità quasi artistica nella preparazione, bensì quello delle brocche ribollenti di liquido nero diluito e solubile. Quello dei diner, quello che, quando ti siedi, ti viene portato quasi automaticamente, senza ordinazione. In questo caso, se due personaggi di un film si siedono in una qualsiasi tavola calda, avremo un’altissima possibilità di vedere una scena in cui sorseggiano caffè. Non è possibile stilare un elenco di queste scene perché si tratterebbe della quasi totalità dei film americani degli ultimi 70 anni (una su tutte, giusto per il gusto del citazionismo: When Harry Meets Sally: la famosa scena dell’orgasmo simulato di Meg Ryan si svolge nella classica caffetteria sopra citata).

Harry, ti presento Sally (1989)

Ma ci sono alcuni momenti cinematografici in cui il caffè assume un ruolo più significativo rispetto allo sviluppo della linea narrativa ed emotiva della scena o, perché no, del film, come per esempio Coffee and Cigarettes, film compilation del 2003 di Jim Jarmusch. In pieno periodo low key indie, Jarmusch raccoglie undici cortometraggi in bianco e nero in cui una serie di personaggi si trovano seduti in una tavola calda a riflettere sul senso delle cose e della vita, omaggiando il piacere del bere caffè e del fumare. È chiaramente una scelta obbligata, ma basta ribaltare gli elementi del titolo, Cigarettes & Coffee per scoprire quello del primissimo cortometraggio di Paul Thomas Anderson, realizzato ben dieci anni prima del film di Jarmusch. Il corto di PTA unisce le storie di cinque sconosciuti intorno a una banconota da 20 dollari e si svolge interamente in un diner dove i personaggi ordinano e gustano caffè. Nei 24 minuti, dal costo di 20mila dollari, è racchiusa gran parte della poetica di Anderson (le strane connessioni tra sconosciuti, le linee narrative di diversi personaggi che si intrecciano grazie al caso, i dialoghi schizofrenici scritti con la precisione di un orologiaio) ed è alla base del suo primo lungometraggio, Sidney (o Hard Eight a seconda del cut distribuito). Il buon Anderson, da assiduo consumatore di caffè e sigarette non ha potuto non omaggiare le sue più ricorrenti abitudini nel suo primo lavoro visivo.

 

Coffee and Cigarettes (2003)

Tralasciando il facile riferimento alla famosa scena di Pulp Fiction in cui recita lo stesso Tarantino, ci sono altre due scene in cui la bevanda ha un ruolo centrale. In Dance with the Wolves, western esordio alla regia di Kevin Costner del 1990, il tenente John Dunbar cerca di conquistare la fiducia di una tribù di pellerossa e lo fa mostrandogli alcune delle “meraviglie” tecnologiche del suo popolo. Fra queste la costruzione di un macinino per chicchi di caffè. Costner riunisce i rappresentanti della tribù per offrirgli del caffè, come se quel rito fosse il corrispettivo occidentale del calumet della pace indiano. Da quel momento in poi la tribù inizia a fidarsi di Dunbar e ad accoglierlo tra le sue fila, mostrandogli un diverso modo di vivere che lo porterà a combattere a fianco dei nativi americani contro i confederati. Non si può non includere una scena scritta da Charlie Kaufman, in uno dei suoi film meno citati, Confessions of a Dangerous Mind, un altro esordio alla regia, questa volta di George Clooney. Il film racconta la apparentemente vera storia di Chuck Barry, presentatore di quiz di successo per la NBC e, a tempo perso, assassino per la CIA. Barry è un personaggio instabile, pieno di tic, irrequieto come solo la penna di Kaufman riesce a tratteggiare. Verso metà della pellicola si capisce che una talpa è presente nell’organizzazione e il compito di Barry, prima del completo collasso psicologico, è quello di trovarla. Quando la spia Julia Roberts si siede per un caffè insieme a Barry, i due parlano della “normale” vita che potrebbero avere insieme. Ma una delle due tazzine è avvelenata. Quale dei due caffè sia quello mortale decreterà il finale del film.

Pulp Fiction (1994)

Dance with the Wolves (1990)

In Italia il discorso è, se vogliamo, più lineare. Il caffè fa parte del nostro essere italiani. Non esiste un invito a casa d’altri che non sia accompagnato dall’offerta di una tazzina di caffè ed è la caffettiera l’oggetto che, più di qualsiasi altro, definisce la “casa”. Svegliarsi al mattino e bere il caffè, mangiare a pranzo e prendere il caffè, bere il caffè dopo cena per stare svegli ancora un po’. L’italianità è scandita da quei semplici chicchi e la nostra cinematografia non poteva non riflettere questo amore incondizionato. Troppi sono i film, i registi e gli attori che andrebbero citati, in primis Eduardo de Filippo che, in Questi Fantasmi del 1954, a tutto può rinunciare tranne “che a questa tazzina di caffè presa sul terrazzino con nu poco de sole”. Per quasi cinque minuti Eduardo si rivolge in camera al “professò” e racconta a noi che lo guardiamo i piccoli segreti del caffè napoletano e il piacere che lui stesso prova nel prepararlo. È un racconto a suo modo dolce, delicato che, una volta terminato, sfida lo spettatore a non godere dello stesso piacere provato dal protagonista.

Eduardo de Filippo in Questi Fantasmi (1954)

Dal caffè di una piacevole pausa giornaliera passiamo al caffè del condannato Fefè di Divorzio all’Italiana, film di Pietro Germi del 1961 che, di fatto, definisce l’inizio della commedia all’italiana.

Marcello Mastroianni è sposato alla fastidiosa e pedante Rosalia ma sogna di potersi maritare con la cugina sedicenne, Angela. Il divorzio non è ancora accettato, ma lo è il delitto d’onore. Fefè cerca quindi in ogni modo di trovare un amante per sua moglie in modo da poter essere giustificato a ucciderla. Il Fefè di Mastroianni è l’incarnazione perfetta di tutte le viltà del maschio italiano: la sua codardia e pusillanimità influenzeranno l’immaginario della nostra cinematografia per molti anni a venire. In una scena del film Rosalia porta il caffè al marito nella sua stanza. Dando una vera e propria lezione di sceneggiatura e regia, Germi trasforma questa semplice azione in un ritratto precisissimo dei due personaggi. Fefè è pigro, vile, accaldato, Rosalia è insistente, appiccicosa e tutto questo lo capiamo semplicemente dal modo in cui i due affrontano il rito del caffè.

Divorzio all’italiana (1961)

Nanni Loy, nel 1980, dedica invece un intero film a un invalido napoletano interpretato da Nino Manfredi, volto storico della commedia all’italiana che ha iniziato a recitare proprio grazie a Lavazza, che cerca di sbarcare il lunario vendendo caffè sui treni Intercity. Cafè Express è ispirato a una serie televisiva realizzata dallo stesso Loy, in cui candid camera di persone qualunque trovate sui treni raccontavano le impressioni degli intervistati sull’Italia di allora. Tra questi Loy intervistò un personaggio con problemi a una gamba che, proprio come il personaggio di Manfredi, vendeva abusivamente caffè sui treni. Come accade spesso nei film di Loy, la struttura del racconto è un pretesto per narrare storie di uomini, più che di personaggi, che incarnano aspetti della realtà italiana. Famoso per essere stato il primo a utilizzare in uno show televisivo italiano la telecamera nascosta, Loy era il prototipo dell’autore televisivo impegnato, uno dei primi scrittori transmediali che, grazie alle sue incredibili capacità di osservazione, riusciva in ogni sua opera a rivelare qualcosa di nuovo, e nascosto, della realtà che lo circondava.

Cafè Express (1980)

Di tutt’altro tono è Mediterraneo di Gabriele Salvatores, uno dei nostri pochi premi Oscar. Nel film, uscito 10 anni dopo quello di Nanni Loy, un gruppo di soldati italiani finisce su una sperduta isola greca. In quell’isola ognuno di loro è costretto a convivere con se stesso, con le proprie paure ed idiosincrasie, fornendo allo spettatore lo spaccato struggente delle relazioni di un gruppo di amici (tema centrale in tutta la filmografia di Salvatores). In una scena del film Bisio cerca di bere un caffè greco, lamentandosi del gusto, mentre Abatantuono lo rimprovera: “Si sente il profumo e si aspetta, il piacere sta tutto lì.” Con questa frase Salvatores ci permette di capire che il personaggio di Abatantuono, a differenza di quello di Bisio, si è già inserito nei ritmi lenti e paciosi dell’isola, ha già iniziato, insomma, quel processo di introspezione attraverso cui dovranno passare tutti i personaggi del film.

Mediterraneo (1991)

Una tazzina di caffè è in grado di cambiare il senso di una scena, di una sequenza, di un intero film. Quando registi e sceneggiatori sono bravi riescono in questa piccola magia. Riescono a racchiudere significati che quel semplice gesto, il sorseggiare un caffé, nella nostra vita di tutti i giorni, sembrerebbe non avere. E anche ora che la nostra ritualità è modificata dall’utilizzo compulsivo di qualsiasi tipo di device, dalla freneticità di fruizione dei nostri tempi quotidiani, possiamo essere sicuri che nei film a venire troveremo tante altre scene in cui il caffè sarà protagonista, perché una cosa è poco ma sicura: il legame tra la caffeina e la pellicola è di quelli che dureranno ancora a lungo.

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