Un’ondata di greenwashing sta inquinando il mercato della finanza “sostenibile” in Europa - THE VISION

I leader politici progressisti utilizzano da tempo slogan ambientalisti per comunicare agli elettori la loro volontà di affrontare con decisione l’emergenza climatica. Anche il settore privato gioca il suo ruolo e si mostra spesso entusiasta sull’argomento. In molti casi, tuttavia, si tratta di aziende che non hanno competenze o esperienza in materia ambientale e tentano di seguire, con scarsi risultati, la moda del momento. Molte non riescono a contenere i costi derivanti dalla transizione energetica che hanno cercato di affrontare senza le necessarie competenze. Gli operatori del mercato stanno cogliendo la palla al balzo e corrono a finanziare le società che si dichiarano sostenibili. Le società di gestione del risparmio mainstream, in particolare, negli ultimi anni si stanno lanciando nella promozione di investimenti in strumenti finanziari la cui sostenibilità è tutta da verificare e, in alcuni casi, di facciata. Secondo una ricerca realizzata da The Economist, nascono in media due fondi di investimento ogni giorno che si proclamano attenti alle esigenze del Pianeta. 

Il quarto rapporto della fondazione Finanza Etica conferma questi dati e ci dice anche che, nel primo trimestre del 2021, circa due miliardi di euro al giorno sono stati investiti in sedicenti fondi di investimento sostenibili. Si tratta di una cifra pari alla metà di tutte le risorse investite quotidianamente in Europa nei fondi di investimento, a dimostrazione che il brand della sostenibilità non è mai stato così prezioso. Appena due anni fa quasi il 40% delle società di investimento non aveva problemi a dichiarare la propria indifferenza rispetto ai temi sociali e ambientali. Oggi gli operatori di mercato che affermano di essere completamente estranei alle questioni etiche sono meno del 30% del totale. Leggendo superficialmente i dati e le statistiche si ha quindi l’impressione che sia nata una finanza nuova che antepone la salute del Pianeta ai rendimenti. Se andiamo oltre alle apparenze, però, ci rendiamo conto che la realtà è più complessa.

La proliferazione di prodotti finanziari che si autocelebrano come “sostenibili” non è altro che la testimonianza del greenwashing dilagante. Su 20 fondi di investimento analizzati da The Economist, tutti hanno investito in almeno 17 produttori di combustibili fossili. Sei hanno investito in ExxonMobil, il più grande gruppo petrolifero statunitense. Due hanno partecipazioni personali in Saudi Aramco, il più grande produttore di petrolio a livello globale con base in Arabia Saudita. Un fondo che si considera sostenibile possiede addirittura quote riconducibili a una società cinese di estrazione del carbone. Gli stessi fondi di investimento esaminati da The Economist comprano azioni anche di società collegate al gioco d’azzardo e alla produzione e commercializzazione dei derivati di alcool e tabacco. Questi dati dimostrano la differenza che esiste tra le dichiarazioni di facciata e le operazioni che ogni giorno vengono effettuate dalla finanza tradizionale sui mercati internazionali. A ben vedere, per molti operatori dichiarare di investire in strumenti finanziari sostenibili sembra più uno spot per reperire più facilmente risorse sui mercati finanziari che un impegno concreto.

Il Principe Saudita Mohammed bin Salman durante la conferenza Future Investment Initiative (FII),, Ryad 2021

Le imprese solitamente tendono a comunicare fatti di scarso rilievo mentre si rifiutano di rivelare i dati che potrebbero influenzare maggiormente le scelte di investimento. Chi si occupa dell’analisi patrimoniale di una società, per esempio, è perfettamente in grado di stimare l’impatto ambientale che si genera per produrre quel determinato bene o fornire uno specifico servizio. Purtroppo, però, le aziende non rivelano questi dati in modo preciso e raramente i numeri resi pubblici coincidono con quelli raccolti da indagini indipendenti, con il risultato di creare ulteriore confusione tra gli analisti. Il greenwashing serve esattamente a questo. Apparire come attenti alla sensibilità della comunità e dei potenziali investitori mentre si continua a seguire la logica del profitto di breve periodo.

La seconda parte dello studio condotto dalla fondazione Finanza Etica analizza gli effetti prodotti sul mercato dal Regolamento europeo sulla trasparenza della finanza sostenibile, recentemente entrato in vigore nei diversi Stati membri. Dall’approfondimento emerge che quasi un fondo di investimento europeo su quattro potrebbe essere classificato – almeno in parte – come sostenibile. Grazie a queste nuove norme il patrimonio totale dei fondi cosiddetti sostenibili gestiti da società europee sarebbe quasi raddoppiato passando improvvisamente da 1.300 a 2.500 miliardi di euro. Questo è un indizio di un allargamento, quantomeno ambiguo, della definizione di sostenibilità in ambito comunitario. La fondazione Finanza Etica ha infatti rilevato che molti fondi di investimento “sostenibili”, gestiti da società di gestione del risparmio con sede in Italia o in Spagna, destinano parte delle loro risorse al finanziamento dei settori più controversi dell’industria del petrolio, come le sabbie bituminose e la pratica del fracking, o investono in imprese che generano energia attraverso la combustione del carbone.

Una legislazione pubblica più forte sarebbe in grado di imporre delle regole di trasparenza più stringenti per le società che si definiscono sostenibili. Le normative dovrebbero imporre alle imprese di comunicare il loro impatto ambientale complessivo, con espresso riferimento alle emissioni generate durante l’intero ciclo di produzione. Inoltre, i dati dovrebbero essere in grado di quantificare quanto capitale venga effettivamente impiegato per finanziare progetti sostenibili che prevedono un basso utilizzo di combustibili fossili. Sono questi i parametri che consentono a ogni investitore di comprendere in che misura sta contribuendo a inquinare il Pianeta con le proprie risorse. D’altra parte, un sistema di diffusione dei dati più trasparente potrebbe fornire dei risultati inaspettati. The Economist ha stimato che le società private quotate nei mercati regolamentati sono responsabili di una quota di emissioni tra il 14 e il 32%. Gli investimenti privati, quindi, sarebbero soltanto una parte del problema, che si concentra soprattutto in un gruppo ristretto di grandi multinazionali attive nel settore petrolifero, dell’edilizia e dell’estrazione mineraria. La trasparenza nella diffusione dei dati relativi all’impatto ambientale è comunque fondamentale per identificare con precisione queste aziende ed evitare ulteriori investimenti dannosi.

Una ricerca commissionata da Greenpeace nei Paesi Bassi ha analizzato più di tremila annunci pubblicitari delle principali aziende europee del settore petrolifero, tra cui giganti del calibro di Eni e Shell. Lo studio afferma che tutte le società analizzate ricorrono a pratiche di greenwashing nelle loro attività di marketing. Le campagne promozionali pongono un’enfasi eccessiva sulle circoscritte iniziative sostenibili delle multinazionali e, allo stesso tempo, edulcorano l’impatto delle attività connesse all’utilizzo di combustibili fossili. La metà degli annunci pubblicitari oggetto di studio si concentra su iniziative sostenibili, ma soltanto il 18% degli investimenti azionari delle multinazionali del settore petrolifero riguarda effettivamente aziende e attività sostenibili. Lo squilibrio derivante da questa pratica commerciale poco trasparente è sotto gli occhi di tutti. Per questo l’Unione europea dovrebbe limitare l’attività di marketing di società che vogliono apparire green, ma che in realtà continuano a danneggiare la natura con attività molto inquinanti. È già stato fatto con le pubblicità relative al consumo di tabacco, e non c’è motivo per non utilizzare lo stesso metodo e contrastare la promozione di aziende che svolgono attività pericolose per l’ambiente.

Il 99% degli scienziati è concorde nell’affermare che i comportamenti umani hanno portato all’emergenza climatica in corso. Le ricerche ci dicono che dobbiamo invertire la rotta e, per farlo, dobbiamo cambiare radicalmente il nostro modello economico. Gli investitori dovrebbero assumersi le loro responsabilità con un atteggiamento etico verso le scelte di finanziamento che compiono ogni giorno sui mercati. Purtroppo siamo costretti ad assistere a pratiche ben diverse. Le banche e i fondi di investimento tradizionali, con il supporto di normative spesso troppo accomodanti nei loro confronti, continuano a operare con modalità egoistiche e opache, utilizzando il tema della sostenibilità soltanto per attrarre più risorse.  Dobbiamo guardare in faccia alla realtà e dirci che la salute del nostro Pianeta è utilizzata ancora nella gran parte dei casi per fare del marketing superficiale. La storia ci ha già insegnato che questo modo di gestire l’economia non può fare altro che danneggiare il futuro collettivo per il tornaconto di pochi. La scienza ci ha indicato l’urgenza di agire per garantirci un futuro in un Pianeta ancora abitabile.  Per questo ridurre l’inquinamento nei mercati finanziari è urgente tanto quanto ridurre quello prodotto dalle industrie di tutto il mondo.


Questo articolo nasce in collaborazione con Gruppo Banca Etica, banca popolare costituita in forma di società cooperativa per azioni che opera in Italia e in Spagna, nel rispetto delle finalità di cooperazione e solidarietà. Impegnata su temi come cambiamento climatico, mobilità sostenibile, accoglienza, inclusione e molti altri, il Gruppo Banca Etica si impegna a misurare in modo accurato e credibile gli impatti delle attività finanziarie sull’ambiente, la società e la vita delle persone con metodologie proprietarie innovative, per permettere a tutte le persone e organizzazioni socie e clienti, e a chi desidera diventarlo, di scegliere consapevolmente gli intermediari finanziari cui affidare i propri risparmi e investimenti.

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