Magari è una coincidenza, ma proprio nella settimana in cui abbiamo salutato la nascita del nuovo movimento di opinione delle “sardine”, i dirigenti del Partito democratico hanno deciso di aprire un dialogo con la Lega sulla prossima legge elettorale. I leghisti la vorrebbero più maggioritaria e anche Nicola Zingaretti sembra d’accordo, in vista di un auspicato ritorno al bipolarismo. Del resto il M5S continua a scendere nei sondaggi, Forza Italia sembra in fase terminale, e Matteo Renzi e Carlo Calenda sembrano contendersi un bacino di elettori ininfluente, per cui il futuro dovrebbe essere una sfida a due, ed è chiaro che i due vorrebbero essere Lega e Pd. Non è scritto nel destino, ma potrebbe diventarlo con la legge “giusta”: il maggioritario. E proprio nei giorni in cui Zingaretti decide di pronunciarsi sull’argomento, le piazze emiliane suonano un colpo e cominciano a riempirsi di gente che nessuno aveva previsto o calcolato.
Le sardine hanno diversa origine e provenienza. Alcune si affacciano per la prima volta in politica, altre hanno perso la voglia di votare tanti anni fa, altre ancora si sono appena disamorate del movimento che fu di Beppe Grillo (e non hanno nessuna intenzione di ammetterlo). Vogliono tante cose vagamente “di sinistra”: ecologia, solidarietà, antirazzismo, e molti altri temi difficili da sintetizzare in uno slogan. L’unico semplice un concetto di fondo che sembra poter riunire il movimento in realtà è che non ne possono più di Matteo Salvini e del suo sovranismo razzista e cialtrone. Alla fine non serve molto per mettersi d’accordo. Va bene, ma per chi voteranno? Senz’altro non per Salvini, e molto difficilmente le altre formazioni di centrodestra ormai satellitari alla Lega. Ma da qui a mettere in gruppo una croce sullo stemma del Pd ce ne passa: soprattutto in Emilia-Romagna, dove i Dem sono considerati il simbolo dello status quo, e in alcune città governano senza soluzione di continuità dalla fine della seconda guerra mondiale (pur con nomi diversi, e una classe dirigente completamente cambiata). No, non è possibile pretendere che tutte le sardine votino per il Pd di Stefano Bonaccini – finché c’è ancora un sistema ragionevolmente proporzionale. Ma con un buon maggioritario, ecco, alle sardine e agli altri non resterebbe altra scelta.
La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno cattivi di Salvini: e non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, a dire il vero, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come il leader della Lega, pur di far piazza pulita dei “nemici interni” del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il Pd resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo probabilmente non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati. Ma anche nel caso di una completa sconfitta elettorale e di una conseguente catastrofe politica i dirigenti del Pd potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, eccetera, di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza. Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema antico quanto il Pd (quindi ha poco più di dieci anni), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del partito, al punto che viene da domandarsi se non sia il suo destino: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.
È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”, il tratto nel 2007 che doveva distinguere il nuovo partito dai vecchi che lo avevano tenuto a battesimo, Ds e Margherita. L’insofferenza nei confronti dei piccoli partiti nasceva dalla situazione contingente: nel 2006 l’Unione di Prodi aveva ottenuto una risicatissima vittoria elettorale contro il centrodestra di Berlusconi. Ne era nato un governo, il Prodi II, che navigava a vista, sostenuto da una litigiosa coalizione che includeva dieci partiti, alcuni molto pittoreschi e in perenne competizione tra loro (memorabili le risse tra Di Pietro e Mastella, entrambi segretari di mini-partiti personali). Nel fondare il nuovo partito, Veltroni spiegò chiaramente che avrebbe messo fine a quel caos. Il suo obiettivo era “conquistare la maggioranza degli italiani”: e dal momento che la maggioranza degli italiani non sembrava già allora così ansiosa di lasciarsi conquistare da una proposta di centrosinistra (seppure molto annacquata), Veltroni prevedeva già al tempo qualche correzione della legge elettorale “in senso maggioritario”.
Nel frattempo la nascita del nuovo soggetto politico perturbava i fragilissimi equilibri del governo Prodi II, causando una crisi di governo e un’elezione anticipata a cui il Pd veltroniano decise di presentarsi senza alleati a sinistra. Il risultato non fu una semplice sconfitta, ma un doppio disastro: il centrodestra di Berlusconi vinse con una larghissima maggioranza, malgrado i tredici milioni di voti raccolti dal Pd (un record mai più eguagliato: ma l’Unione di Prodi nel 2006 ne aveva raccolti ben diciannove). I dirigenti del Pd potevano però festeggiare per aver fatto scomparire dal parlamento i piccoli partiti d’ispirazione comunista e ambientalista. Una consolazione che già allora appariva piuttosto magra, ma il peggio doveva ancora venire.
Di lì a poco ci saremmo accorti che non bastava eliminare la sinistra antagonista dal parlamento per convincere tutti i suoi elettori a convergere sul Pd. Nel 2007 Beppe Grillo aveva già dimostrato di poter riempire le piazze con un programma politico che per il momento si riassumeva in “Vaffanculo” (anche in quel caso, come per le Sardine dodici anni più tardi, Bologna fu l’incubatrice). Il 2008 fu invece l’anno dell’Onda, forse il movimento studentesco più partecipato degli ultimi vent’anni. Mentre nel 2009 ad auto-radunarsi nelle piazze fu il Popolo viola, oggi dimenticato ma concettualmente non troppo distante dai toni e dalle posizioni delle Sardine, benché al tempo il nemico pubblico numero uno fosse Silvio Berlusconi. In questi e in altri casi, le piazze reali e virtuali hanno reagito a quello che percepivano come un vuoto di rappresentanza politica. Senz’altro il Pd non era il partito adatto a colmare quel vuoto, preso com’era dall’inseguimento di un fantomatico elettorato moderato. Ma era proprio così necessario lottare pervicacemente affinché quel vuoto non venisse occupato da nessun altro?
La parabola del Pd tra Walter Veltroni e Pierluigi Bersani dovrebbe essere un esempio di scuola: una volta cacciata Rifondazione Comunista dal parlamento (una Rifondazione peraltro nella sua fase più ragionevole, disposta a votare persino il rifinanziamento delle missioni militari) il Pd vi ritrovò un ben più agguerrito Movimento Cinque Stelle che di dialogo non ne voleva sapere. Oggi che il M5S è in crisi, Zingaretti sembra convinto che sia stato soltanto un incidente di percorso, un inciampo lungo la strada che dovrebbe portare la politica italiana verso il suo destino bipolare e bipartitico. E ciò malgrado in tutta Europa il bipolarismo novecentesco appaia in crisi: persino nel Regno Unito, dove la Brexit ha sparigliato le carte creando un fronte trasversale che divide i partiti principali (il Labour più che i Tories).
Ma è proprio guardando all’Europa che ci accorgiamo quanto sia simile il Pd ai vecchi partiti socialdemocratici che in Spagna, Francia e Germania cercano di contrastare un declino che appare inevitabile (la cosiddetta “pasokizzazione”, da Pasok, il nome del vecchio partito socialista greco diventato il capro espiatorio della crisi ellenica). Alla fine la diffidenza dei democratici nei confronti del movimentismo odierno è più comprensibile dell’ossessione di Veltroni e soci per i “cespugli”. Non si tratta più di ripristinare una governabilità messa in pericolo da minuscoli partiti litigiosi: i movimenti di oggi sono meno radicati ma possono espandersi all’improvviso, e altrettanto all’improvviso implodere. Sono poco inclini al compromesso, non si accontentano di qualche piccola fetta di potere ma si fanno portatori di istanze contraddittorie e spesso impraticabili. Tutto questo almeno vale per il Movimento Cinque Stelle, ma anche per chi presto o tardi ne prenderà il posto: forse non saranno le Sardine, ma qualcuno comunque quel posto lo prenderà, visto che lo spazio c’è, che il Pd non lo reclama e che la Lega più di tanto non riesce a penetrarlo. Succederà alla faccia di qualsiasi legge elettorale che nel frattempo Lega e Partito democratico avranno congegnato per impedirlo, perché semplicemente c’è gente che a una logica bipolare non si rassegna. E la storia del M5S si ripeterà di nuovo – non necessariamente in farsa. Anche perché più farsesca di così sembra improbabile.
Foto in copertina di Antonio Masiello