La vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni segna una cesura nella nostra storia repubblicana, rappresentata dall’arrivo al potere della destra più estrema dai tempi di Mussolini, come sottolineato dalle principali testate internazionali. Sembra che noi italiani non ci siamo nemmeno accorti dei disastri a cui probabilmente andremo incontro, eppure dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. In primis per aver normalizzato con un processo di accettazione l’estremismo. Invece di parlare di una realtà neofascista abbiamo in origine “macchiettizzato” Fratelli d’Italia, conferendogli tratti farseschi senza renderci conto di un sottobosco nero che proliferava, pronto ad agglomerare anche l’elettorato fluido, quello del voto di pancia, che se ne frega della fiamma sul simbolo o della consuetudine dei saluti romani. Quando c’era Mussolini, i socialisti e comunisti italiani parlavano di una “lite ininfluente tra borghesi” riferendosi alla marcia su Roma. Sappiamo come andò a finire. Oggi, una volta compresa la portata dell’ascesa di Meloni, ormai era troppo tardi e per evitare gli stessi errori, in teoria, dovremmo chiederci che cosa ha sbagliato stavolta la sinistra.
Il dato dell’astensionismo, che sorpassa anche quello già preoccupante delle elezioni del 2018, delinea uno scollamento tra società civile e classe politica. La mestizia che traspariva sui volti degli esponenti di centrosinistra durante l’ennesima analisi della sconfitta, non era altro che la consapevolezza di un fallimento in primo luogo sociale. L’esercito dei disillusi non è nato per un improvviso disinteresse del popolo per la cosa pubblica, ma perché le alternative all’ondata neofascista sono state deboli, frammentate e poco credibili. Letta, Conte e Calenda non hanno di certo brillato per acume strategico, considerando che con un’altra conformazione politica in fatto di coalizioni si sarebbe potuto evitare questo risultato, come dimostrano i numeri. Invece, hanno accompagnato Meloni a Palazzo Chigi tenendola per mano, mentre erano impegnati con le loro beghe da Twitter e le ripicche in un periodo storico che richiedeva un doveroso sforzo democratico per frenare chi la democrazia rischia di prenderla a picconate.
È vero, la lettura dei risultati elettorali non è stata una sorpresa. Meloni era data vincente da tutti i sondaggi. Lo sapevamo da settimane, da mesi, in teoria dovevamo essere preparati e reggere l’urto. Eppure non eravamo ancora pronti. Sembra quasi un lutto atteso per anni o un altro triste avvenimento già messo in conto, ma che comunque ci travolge quando avviene. All’inizio dipingevamo Meloni come un fenomeno trash o “un’urlatrice borgatara”. Questo snobismo – il classismo di una nuova sinistra ormai distante dalle realtà che un tempo rappresentava – ha messo in secondo piano un dettaglio non indifferente: l’aggressività stava abbandonando la sfera verbale, dirigendosi verso la concretezza delle azioni. E così nelle regioni già governate dalla destra abbiamo iniziato a sorbirci l’antipasto di quello che avverrà con Meloni premier. Diritti calpestati, donne che di fronte all’aborto si sono trovate davanti un muro ungherese difficilmente scavalcabile.
Il celebre psichiatra Friedrich Hacker scriveva che “la violenza è semplice; le alternative alla violenza sono complesse”. Gli avversari di Meloni non solo non sono stati in grado di trovare alternative valide, ma le hanno anche steso il tappeto rosso permettendole di sdoganare la violenza come forma di atto politico. Perché non c’è nulla di più violento della promessa di un blocco navale, del machismo portato avanti da una donna e dello scenario di un Paese costretto a combattere non soltanto per ottenere nuovi diritti, ma soprattutto per mantenere quelli già conquistati a fatica nel corso dei decenni. Questa nostra regressione civile non può nemmeno essere attutita dal crollo della Lega e dal tramonto del salvinismo, in quanto la nuova stagione a guida Meloni sarà ancora più aspra, avendo nel suo bagaglio non soltanto un impatto populista – quello che poteva essere rappresentato dalla vaghezza e dal pressapochismo di Salvini – ma anche una formazione politica decisamente più radicata, le cui radici sono la galassia missina, il neofascismo mascherato che adesso non avrà più bisogno di filtri.
Un Salvini indebolito sarà ugualmente ministro dell’Interno; un Berlusconi che, nonostante un passato da premier noto a tutti, continuerà a muovere i fili con un ruolo di rilievo, avendo ottenuto quasi gli stessi voti della Lega. Torneranno alla ribalta i Pillon di turno (anche se l’originale è fuori dal Parlamento), i cacciatori di streghe, gli alfieri dell’ostruzionismo che sposteranno le lancette dell’Italia indietro di parecchi decenni minando i diritti delle minoranze e plasmando a loro piacimento quelli della maggioranza stessa. Tutto questo avviene in un periodo di instabilità internazionale. Avremmo avuto bisogno di una leadership fortemente europeista, mentre ci ritroviamo guidati da chi ieri tuonava contro Bruxelles e l’altroieri chiedeva di uscire dall’Unione Europea; dentro a un contenitore che ha al suo interno un atlantismo di facciata simile a quello polacco – Fratelli d’Italia – e il suo contrario, ovvero i pedoni di Putin – Salvini e l’eterno amico Berlusconi. Parafrasando proprio il Cavaliere, sarebbe bello sostituire questo accrocco destrorso con “persone perbene”. Siamo però in democrazia, non in una dittatura, quindi l’unica cosa che possiamo fare è rimboccarci le maniche e prepararci a fare realmente opposizione.
L’esito del voto va rispettato, ma bisognerà continuare a lottare per la salvaguardia dei diritti. I nostri e quelli delle minoranze, perché una minoranza, in una democrazia, è un insieme di individui che ha gli stessi diritti della maggioranza, e non può essere un valore numerico a determinarne la rilevanza sociale. Sandro Pertini diceva che “la nuova resistenza consiste nel difendere le posizioni che abbiamo conquistato, difendere la Repubblica e la democrazia”. Mentre Letta e Calenda litigano sul bus elettrico del PD e Conte e Renzi si prendono a stilettate social parlando di scorte e comizi, siamo noi, come cittadini, a dover seguire le direttive di Pertini, non potendo contare su un’opposizione credibile. E non dobbiamo, né possiamo, autoassolverci. Rischiamo altrimenti di avere un’Italia isolata dal resto d’Europa, chiusa nel suo nazionalismo da ex impero in caduta. Non possiamo abituarci al melonismo, al prefigurarsi di una collocazione geopolitica, civile e sociale simile a quella che abbiamo già subito – con esiti disastrosi in vari ambiti – per un ventennio con Berlusconi. E che adesso rischia di ricalcare le orme di un altro ventennio più indietro nel tempo.
Non si tratta più di fantascienza o distopia: stamattina ci siamo svegliati davvero nell’epoca dell’estrema destra al potere. Il sogno di Almirante realizzato da una sua discepola. E la colpa è anche nostra. Di chi ha imbastito una campagna elettorale senza proposte convincenti; di chi è incline a restare ipnotizzato al canto delle sirene; di chi pensa che la ricetta contro una crisi sia aggrapparsi agli urlacci di chi sta all’opposizione e quindi è esente da responsabilità; di chi si è affidato allo stesso trio politico che nel 2011 ha portato il Paese a un passo dal default; di chi ha sottovalutato la natura conservatrice dell’Italia e la propensione delle folle a seguire la veemenza del leader forte; di chi si è autoescluso dalla lotta per rassegnazione o ignavia, lasciando la tessera elettorale nel cassetto. Non ci attendono anni facili: l’inverno del nostro Paese sembra essere davvero arrivato e chi da oggi governerà sfrutterà il patriottismo proprio per alimentare l’odio, giustificare le prevaricazioni e dividere i cittadini in categorie, relegandone alcuni ancor più ai margini. Dovremo sorbirci il ritorno al governo dei collezionisti dei busti del Duce, dei razzisti che credono alla sostituzione etnica, dei fanatici anti-abortisti, dei berlusconiani tirati fuori dall’armadio degli abiti dismessi e di nuove creature che ci diranno cosa è giusto e cosa è sbagliato, perché lo dice una presunta legge di natura che non esiste. Assisteremo all’istituzione di leggi barbare, a nuovi decreti sicurezza, alle azioni di chi vuole “normare l’amore”. La nuova resistenza non può che partire da un principio di opposizione e da una presa di distanza chiara rispetto a queste sopraffazioni: non in mio nome.