Trump sta avviando la sua presidenza bis, prima ancora dell’inizio, con deliri di onnipotenza - THE VISION
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Nonostante abbia già minacciato mezzo mondo e l’altra metà si sia genuflessa a lui, Donald Trump non si è ancora insediato alla Casa Bianca. La cerimonia ufficiale avverrà lunedì, eppure dalla vittoria elettorale di novembre Trump ha già agito da presidente impartendo una linea. La sua e quella di Elon Musk, principalmente, e le premesse non sono delle più confortanti. Agli americani piacciono due cose: lo spettacolo e la supremazia. Un comizio di Trump è dunque il manifesto dell’americanità, perché usa toni da show di bassa lega, con un Hulk Hogan che potrebbe sbucare da un momento all’altro strappandosi la maglietta, e sul concetto di supremazia gioca in casa, avendo nel suo arsenale un insieme di frasi violente, sfacciate, che spezzano i rituali dello Stato di diritto, della democrazia stessa, sfociando nel territorio MAGA del celolunghismo. È una mascolinità politica che prevede l’annientamento degli avversari e le minacce a chi non ha i mezzi economici e militari degli Stati Uniti. Ovvero quello che farebbe qualsiasi redneck se entrasse nella stanza ovale della Casa Bianca, ma con soldi e potere smisurati e l’uomo più ricco del mondo accanto a lui. 

Ricordo quando Putin invase l’Ucraina rivendicando l’appartenenza russa di Kiev, appellandosi a epoche storiche ormai andate come se fosse una giustificazione per quella schizofrenica mossa solitamente usata da chi, durante una partita a Risiko, perde la trebisonda e si avventura in offensive poco sensate. Nella mia testa pensavo, e non ero di certo il solo, che seguendo questa logica l’Austria avrebbe potuto riprendersi territori adesso italiani, Argentina e Regno Unito avrebbero dato il via al sequel della guerra delle isole Falkland e – perché no? – gli Stati Uniti sarebbero impazziti pretendendo l’annessione del Canada. Una distopia frenata da alcuni codici novecenteschi ormai a quanto pare in disuso, visto che Trump ha avviato la sua presidenza bis, prima ancora del suo inizio, proprio con questi deliri di onnipotenza.

La settimana scorsa, Trump ha postato sul social Truth una foto del Canada ricoperta dalla bandiera degli Stati Uniti, scrivendo come didascalia “Oh Canada!”. Un’immagine esplicita che segue le minacce di usare il potere economico a stelle e strisce per annettere una nazione già scossa dalle dimissioni del primo ministro Justin Trudeau. Sembra essere tornati al 1812, quando gli Stati Uniti fecero la loro “mossa Risiko” con l’intenzione di invadere il Canada, colonia britannica. Per due anni gli statunitensi persero tutte le battaglie, arretrarono e subirono persino l’attacco britannico a Washington, con la distruzione del Campidoglio. Riuscirono poi a ricacciare l’Impero britannico, rinunciando però alle mire sul Canada, ancora oggi Stato membro del Commonwealth britannico nonostante l’indipendenza e le divisioni territoriali con aree francofone al suo interno. Eppure a Trump è rimasta la scimmia del 51esimo Stato, giusto per destabilizzare un pianeta già sull’orlo del collasso per le guerre combattute in ogni suo angolo.

Donald Trump e Justin Trudeau

Evidentemente non bastava fare lo smargiasso desiderando la sua “casetta in Canadà”, visto che Trump ha voluto inimicarsi anche Messico, Panama e Groenlandia (ovvero un territorio in mano alla Danimarca, Paese europeo). Colto da un impeto imperialista che sarebbe materiale da meme se non provenisse da chi da lunedì sarà a capo della più grande potenza mondiale, ha deciso di fare il bullo per compiacere i suoi elettori, quelli che l’hanno votato perché “America first”, “Make America great again” e altri slogan che in Europa chiameremmo nazionalismo suprematista, ma che a quanto pare da quelle parti sono discorsi di presentazione, un modo per rendere l’americano medio fiero – quello del paesino nel buco di culo del Texas, non il cinquantenne che beve centrifughe in un rooftop di Manhattan – di essere tale.

E così Trump ha fatto sapere di voler controllare la Groenlandia come “necessità per la sicurezza degli Stati Uniti”, anche perché la Cina aveva fatto intendere di essere ugualmente interessata, vista la presenza di metalli e materiali preziosi sul territorio. Trump ha fatto capire di volersene appropriare tramite accordi, leggasi anche costrizioni, economici o addirittura con l’uso della forza. Come reazione, la Danimarca ha inviato navi militari e la Groenlandia ha fatto sapere di non essere “in vendita agli americani”. Allo stesso tempo il Messico non ha preso bene l’ennesima prepotenza di Trump, ovvero voler cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America. La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha risposto a tono mostrando in una conferenza stampa una mappa del 1607 in cui tutto il Nord America veniva chiamato “America messicana”, provocando Trump sul fatto che si potrebbe trovare questa soluzione ribaltando la sparata del tycoon. Non si prospettano rapporti allegri, anche perché gran parte della campagna elettorale di Trump ha fatto leva sull’immigrazione dal Messico e sui metodi poco pacifici per frenarla e riportare indietro – deportare, scriviamolo chiaramente – le persone entrare negli Stati Uniti dallo stato messicano. Anche l’idea di appropriarsi del Canale di Panama è il trionfo dell’ottusità. Il Canale, voluto e realizzato sotto l’amministrazione di Theodore Roosevelt, è panamense a tutti gli effetti dal 1999, come da accordi siglati da Jimmy Carter e Omar Torrijos nei trattati a loro nome del 1977. Da Panama hanno fatto sapere che “la sovranità del Canale di Panama non è negoziabile, appartiene ai panamensi e continuerà a essere così”. Questi scossoni hanno destabilizzato gli Stati Nato già spaventati dall’ultimatum di Trump sul 5% del PIL da spendere per la difesa, oltre che dai dazi già dichiarati per diversi Stati europei e per lo stesso Canada.

Claudia Sheinbaum
Jimmy Carter e Omar Torrijos firmano i trattati TorrijosCarter, 1977

L’Onu e l’Unione Europea sono intervenute per rivendicare la sovranità degli Stati e per contrastare le mire trumpiane, ma sono sembrate frasi deboli, tentativi di circostanza per far credere di avere il controllo della situazione mentre aumenta il numero di persone, Stati e aziende che si stanno inchinando alle politiche di Trump. Tra queste Meta, con il CEO Mark Zuckerberg che ha annunciato un’inversione di rotta sulle politiche di moderazione delle sue piattaforme, abolendo il programma di fact-checking e dichiarando di lavorare a fianco di Trump contro i governi che attaccano le società americane. Ovvero una mossa da banderuola – Facebook e Instagram avevano bannato per due anni gli account di Trump –, nonché un pericolo per i social che saranno sempre più il covo di complottisti, bufalari e in mano alla galassia q.

Tutto questo cozza con la narrazione destrorsa del “Trump che non fa guerre”. Di solito è portata avanti da chi dimentica che sotto la sua presidenza ha esasperato i conflitti in Merio-Oriente fino a portarli al livello incandescente di oggi. Per esempio tra il 2017 e il 2018 ha bombardato la Siria con centinaia di missili causando anche vittime tra i civili. Oppure quando ha fatto uccidere nel gennaio del 2020 il generale iraniano Qasem Soleimani all’aeroporto di Baghdad, con l’Iran che ha chiesto un mandato d’arresto per il presidente statunitense e per Netanyahu, complice dell’operazione. A proposito di Israele e Palestina, Trump è l’artefice degli Accordi di Abramo, trattati che penalizzarono ulteriormente il popolo palestinese aizzando la rabbia di Hamas. Per non parlare di quando ha proclamato Gerusalemme capitale di Israele, causando attacchi terroristici nei giorni successivi e alimentando un odio tra fazioni già di per sé alle stelle. E su Gaza ha recentemente promesso “l’inferno” in caso di mancato rilascio degli ostaggi israeliani, giusto per stemperare la tensione.

Qasem Soleimani

Chi non si accorge del pericolo rappresentato da Donald Trump è in malafede o finge di non comprendere il peso specifico delle sue stesse parole, delle minacce agli Stati sovrani, del rischio per le democrazie di tutto il mondo di fronte a un megalomane disposto a tutto per ergersi a padrone del mondo. In tutto questo è irrilevante per lui che sia stato condannato per il caso Daniels, diventando il primo presidente pregiudicato della storia degli Stati Uniti. Lui si sente sopra la legge, sopra la morale, sopra i trattati internazionali. La sua visione degli Stati Uniti è quella di un Paese che si è trasformato nel suo giardino di casa, con lui a comandare su tutto e tutti perché ha il potere e i soldi per farlo. Non possiamo che aspettarci tempi cupi, considerando che queste sono soltanto le premesse e da lunedì le parole di Trump saranno trasformate in azioni concrete, con l’intero pianeta a pagarne le conseguenze.

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