Nel 1989, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, lo storico Francis Fukuyama si spinse a profetizzare la “fine della storia” scommettendo sul fatto che il capitalismo neoliberista si sarebbe imposto come il modello dominante in tutti i Paesi del mondo. Per facilitare questo passaggio, le democrazie occidentali avrebbero dovuto limitarsi a liberalizzare i mercati e a ridurre i costi di transizione. Lo Stato post-ideologico sarebbe così stato chiamato a intervenire soltanto per facilitare il lavoro degli attori economici, per esempio limitando l’influenza dei corpi intermedi come le organizzazioni sindacali. Oggi possiamo affermare che la “fine della storia” profetizzata da Fukuyama è stata una grande esagerazione.
Negli ultimi tre decenni l’egemonia del pensiero politico ed economico neoliberista ha effettivamente imposto la marginalizzazione del ruolo dello Stato. Tuttavia, gli attentati dell’11 settembre, la crisi finanziaria del 2008, i fenomeni migratori, la crisi economica e poi sociale di Paesi come la Grecia, il Venezuela o l’Argentina sono soltanto alcuni degli eventi che hanno indebolito la pervasività del pensiero neoliberale nato nel secondo dopoguerra tra gli economisti della scuola di Chicago. L’attuale emergenza generata dalla pandemia ha dato nuova forza a chi sostiene che un intervento pubblico nel sistema economico sia fondamentale per evitare una crescita sempre più grave delle diseguaglianze e delle tensioni sociali.
L’economista italo-americana Mariana Mazzucato ha assunto il ruolo di consigliera economica del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel febbraio di quest’anno. In uno dei suoi più celebri libri, Lo Stato innovatore, la professoressa sostiene che anche nelle economie avanzate lo Stato debba ritornare a giocare un ruolo da protagonista. Anche l’investitore pubblico deve scommettere sulla ricerca e sullo sviluppo di nuovi prodotti, fino alla loro commercializzazione. Per Mazzucato lo Stato ha inoltre il compito di indirizzare il finanziamento delle tecnologie più innovative e delle energie alternative che consentiranno la riconversione ambientale.
La pubblica amministrazione è dunque chiamata ad agire come una rete di coordinamento tra più attori, settori e risorse. Per raggiungere questo obiettivo è fondamentale rafforzare le competenze dello Stato per consentirgli di svolgere con efficacia il suo ruolo di guida. Affidarsi soltanto al potere delle multinazionali per definire il futuro della collettività si traduce infatti in una gestione di obiettivi collettivi da parte di egoismi e interessi privati. Soltanto con un ruolo attivo dello Stato riusciremo a ragionare su progetti di lungo periodo, liberi dalla logica del profitto a breve termine. Considerare, come molti hanno fatto, queste idee come un ritorno allo statalismo di stampo sovietico è però una banalizzazione di un dibattito molto acceso e più che mai necessario.
È meglio chiarire subito un punto, per non generare equivoci. Nessuno vuole abbandonare la democrazia liberale e le libertà e i diritti civili che questa tutela e garantisce. L’errore che si è portati a commettere si trova nella falsa convinzione per cui un ruolo attivo dello Stato debba necessariamente coincidere con l’instaurazione di un regime. Al contrario, come illustrato di recente dall’economista Emanuele Felice e dal ministro per il Sud Giuseppe Provenzano sulla rivista Il Mulino, è proprio il pensiero liberale delle origini che promuove un’azione positiva da parte dello Stato, con l’obiettivo di rimuovere e combattere le disuguaglianze presenti nella nostra società. Soltanto garantendo in egual misura diritti civili e diritti sociali le società infatti sono in grado di prosperare. L’esperienza ci dice che le multinazionali e il libero mercato non garantiscono diritti, ma soltanto profitti nelle mani di pochi.
È la nostra stessa Costituzione a prevedere un ruolo centrale da parte dello Stato in economia. L’articolo 41, nel sancire la libertà dell’iniziativa economica privata, si preoccupa di specificare che l’attività imprenditoriale non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o comunque non deve danneggiare la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Detto in altri termini, per garantire la dignità e il benessere dei suoi cittadini è necessario che lo Stato ponga dei limiti alla ricerca del profitto a tutti i costi. Correggere la prospettiva di breve periodo di gran parte delle aziende non significa ignorare i fondamentali principi di dignità, uguaglianza e libertà contenuti nei primi dodici articoli della nostra carta costituzionale. Significa, al contrario, bilanciare un rapporto che oggi sembra pendere solo in favore del libero mercato.
Dobbiamo superare il falso mito che ci porta a essere convinti che non c’è alternativa all’attuale modello economico. Non esiste alcuna prova che le politiche neoliberiste producano una crescita economica migliore di quelle keynesiane. Si potrebbe sostenere a ragione il contrario. Il periodo di maggiore crescita per i Paesi Occidentali è coinciso con gli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, quando lo Stato interveniva in modo massiccio per stabilizzare l’economia, anche per indirizzare la ripresa seguita alla Seconda guerra mondiale. A partire dagli anni Novanta, il potere sempre maggiore della finanza, la mancanza di regole per il disimpegno dello Stato dai temi relativi all’economia e una disparità sociale sempre più netta stanno diventando una minaccia sempre più concreta alla tenuta del regime democratico.
Uno dei lati positivi dei momenti di crisi è che ci permettono di riflettere sull’importanza dello Stato e la tanto disprezzata pubblica amministrazione che adesso deve tutelare i nostri diritti e benessere. Nei prossimi mesi tutto il comparto pubblico sarà messo a dura prova. Al momento il governo ha deciso di bloccare i licenziamenti per ragioni economiche fino al prossimo 17 agosto 2020. È facile immaginare che, venuta meno la restrizione, le aziende procederanno a forti riduzioni del loro personale. In questo contesto, i disoccupati avranno bisogno di una solida rete di welfare pubblico in grado di fornire servizi di assistenza e formazione, rendendo ancora più chiaro l’errore di aver trascurato i pubblici centri per l’impiego delegando a canali privati la gestione del mercato del lavoro. La crisi che dovremo affrontare ci impone di ripensare la nostra organizzazione. Sul fronte della sanità, per esempio, alcuni esperti prevedono una seconda ondata di casi di Coronavirus nel prossimo autunno. La prima ci ha dimostrato quanto sia dannosa l’esaltazione del settore privato, come dimostra il caso della Lombardia, conferma dell’importanza di avere un Sistema sanitario nazionale attrezzato ed efficiente. Proprio per questo motivo non dovremo commettere l’errore di demonizzare lo Stato in quanto tale. Al contrario, è fondamentale far sentire la nostra voce per chiedere uno Stato moderno, dotato di nuove competenze, in grado di indirizzare il benessere della comunità e garantire le libertà dei suoi cittadini.
È giusto chiedersi se nello scenario internazionale attuale, dominato da superpotenze come gli Stati Uniti o la Cina, la sovranità esercitata da un singolo Stato europeo sia effettivamente in grado di assicurare benessere e libertà ai suoi abitanti. Per quanto possa sembrare paradossale, la cessione di una maggiore sovranità all’Unione Europea, insieme a una svolta in senso democratico delle sue istituzioni, rappresenterebbe la più grande assicurazione per il futuro di tutti i cittadini europei. Anche in questo caso è però necessario correggere l’impostazione di un’integrazione europea che non ha l’ambizione di creare una solida Europa dei diritti, ma soltanto un’unione commerciale. Non sarebbe accettabile, infatti, cedere sovranità a un’organizzazione internazionale che non si preoccupa come dovrebbe dei meccanismi ormai fuori controllo della competizione globale.
La crisi economica causata dal COVID-19 rischia di annientare un sistema produttivo già indebolito, con conseguenze terribili sulle condizioni economiche delle classi meno agiate. L’errore da non commettere è quello di considerare questa crisi come un evento eccezionale all’interno di un sistema economico perfetto. Bisogna invece ripartire correggendo gli evidenti difetti del modello neoliberista. In questo contesto, lo Stato è chiamato a svolgere un ruolo da protagonista. Abbiamo bisogno di programmare un futuro collettivo. Non lasciare indietro nessuno significa arginare lo strapotere delle grandi aziende che troppo spesso tendono a escludere i soggetti della società meno garantiti a vantaggio di interessi molto specifici e personali.
La centralità dello Stato nel dibattito di queste settimane è una svolta positiva. Nei prossimi mesi tutta la pubblica amministrazione si troverà davanti a una sfida enorme. Deve riuscire a rinnovarsi in poco tempo provando a cancellare tutti i pregiudizi, che si sono accumulati nel tempo sul suo conto. L’azione pubblica sarà fondamentale e noi come cittadini dobbiamo fare la nostra parte e supportarla, anche sostenendo con forza una sua opera di miglioramento al di là delle beghe politiche. Mai come in questo momento il senso di comunità sarà un elemento decisivo, con il ruolo di primo piano dello Stato a tutela dei nostri diritti e benessere. Siamo molto più forti se restiamo insieme.