Una settimana fa Di Maio e Salvini hanno chiesto 24 ore per formare il governo. Forse oggi riusciranno a presentarlo a Mattarella. Una bozza di contratto fatta filtrare nelle ultime ore dà l’impressione che l’accordo resti fragile. Desta stupore soprattutto la formazione di un “Comitato di conciliazione” che dovrebbe essere istituito “per giungere a un dialogo in caso di conflitti”. Certo, i vertici a porte chiuse si sono sempre fatti, ma mettere nero su bianco il regolamento su una scrittura privata lascia perplessi. In attesa di scoprire se sia costituzionale o no, limitiamoci a trovarlo poco elegante, come certe clausole negli accordi prematrimoniali che ti fanno intravedere il disastro. In questo Comitato, oltre ai due leader, sarebbe prevista la presenza di non meglio precisati “soggetti individuati dal Comitato”: e il pensiero corre subito a Davide Casaleggio, che sarebbe così ammesso nelle stanze del potere senza bisogno di passare dalle elezioni. L’idea tradisce la tipica diffidenza Cinque Stelle per gli eletti. Anche per i propri, ai quali il M5S impone un contratto capestro con multe altissime a chi osa abbandonare il gruppo parlamentare o tradire il mandato.
Questa diffidenza non è un incidente di percorso: è uno dei caratteri fondamentali del Movimento, e rischia di essere la sua fondamentale debolezza, ora che prova a cimentarsi con un governo. Il partito che non crede nel principio di delega non ha mai voluto creare una vera classe dirigente. A cinque anni dalla prima clamorosa vittoria elettorale, il M5S è rimasto una truppa di soldati semplici. Anche i volti più riconoscibili alla fine non esprimono che una straordinaria medietà; tutto lascia intendere che chiunque potrebbe essere al loro posto; nessuno si stupirebbe se scoprissimo che l’algoritmo di Rousseau li sceglie a caso. Persino i più pittoreschi non tradiscono nessuna particolare personalità: urlano e strepitano perché rappresentano quel tipo di cittadino che urla e strepita. Forse Di Battista era un caso a parte, e per il momento si è dileguato. Roberto Fico sembrava un po’ più a sinistra di altri, ma ora ha un incarico istituzionale: promoveatur ut amoveatur.
Quanto a Di Maio, c’è chi gli ha imputato una cattiva gestione della trattativa, ma a mio parere non si sarebbe impuntato per un mese su Palazzo Chigi se non gli fosse stato chiesto di ostinarsi a farlo. Di Maio non ha fatto che mettere diligentemente in pratica le direttive che gli erano state impartite. Criticarlo significa riconoscergli una capacità di iniziativa propria, un’individualità che non ha mai dimostrato; anzi, in un partito di uomini qualunque, il segreto del suo successo è proprio il suo essere l’uomo più comune di tutti, persino nel modo di presentarsi. Nessun segno particolare, nessun tic linguistico – a parte una nota ritrosia nell’uso del congiuntivo che lo accomuna al 90% della popolazione. Di Maio è talmente standard che non si riesce nemmeno a parodiare, e chiunque ci provi finisce per sembrare uno snob. Di cosa dovresti ridere, della sua maturità, dei lavoretti estivi, dei congiuntivi? È come ridere di un popolo intero. Si sa che le caricature si realizzano esagerando i tratti più riconoscibili, e Di Maio non ne ha. Se assomiglia a qualcuno, è a George Abnego, il personaggio del racconto Null-P di William Tenn, l’uomo super-medio che diventa presidente degli Usa proprio per la sua eccezionale mediocrità.
“La statura e il peso di George Abnego erano identici alla media del maschio americano adulto. Si era sposato all’età esatta – anno, mese, giorno – in cui, secondo le stime degli statistici, lo faceva l’uomo medio; aveva sposato una donna la cui età era minore della sua del numero medio di anni; il suo reddito, secondo quant’era stato dichiarato dalla sua ultima cartella delle tasse, rappresentava giusto il reddito medio di quell’anno. E il numero di denti che aveva in bocca coincideva, per quantità e condizione, col numero medio di denti che l’Associazione Dentistica Americana aveva previsto per un uomo sorteggiato a caso tra la popolazione.” Anche il presidente americano risulta refrattario alla parodia: “Non si può fare satira del vuoto”, lamentano i vignettisti, e non tarderà nemmeno a nominare ministri completamente incompetenti. Null-P è un tipico racconto della fantascienza sociologica anni Cinquanta, per cui a questo punto ci aspettiamo un disastro, ma non finisce esattamente così. Niente guerre o apocalissi: Abnego è il capostipite di una dinastia che trascina nella mediocrità l’intera razza umana. In particolare, uno dei suoi discendenti approva una legge che destina le borse di studio non agli studenti migliori, ma a quelli che ottengono i risultati più vicini alla media. Non mi stupirebbe leggere una proposta del genere, tra qualche anno, depositata in Parlamento.
Nel frattempo i Cinque Stelle vanno a governare e io non riesco ancora a preoccuparmene come dovrei. Malgrado i proclami roboanti (ma ormai anche Grillo si è molto rasserenato), sono persone così qualunque che non riesco a immaginarmele mentre distruggono la Repubblica. Ok, è vero, molti di loro credono in cose assurde, né più né meno del vicino di casa, o del collega, o dell’amico al bar, c’è di peggio. Nei miei pensieri noto che il M5S si sta trasformando in qualcosa di diverso: da entità inquietante a poliziotto buono. Ogni volta che penso a quello che potrebbe fare il nuovo governo – “mio dio, la Flat Tax!” – c’è nella testa una specie di valvola di sicurezza che scatta alla ricerca di qualche dose residua di ottimismo: in mancanza di qualsiasi altro appiglio, non resta da pensare che dai, i Cinque Stelle non approveranno mai una misura che porterebbe alla macelleria sociale. Sono dalla parte dei lavoratori, loro (e in effetti ormai si parla di Flat Tax progressiva). Non ci lasceranno menare a sangue dai celerini alla prima manifestazione seria, non potrebbero, ci perderebbero la faccia, hanno famiglia, il grande cuore del Sud, etc.
Tutto questo è patetico e sono il primo a rendermene conto, ma se nel caso succedesse anche ad altri, credo sarebbe il caso di cominciare a preoccuparsi. Perché significherebbe che per diventare una forza di governo credibile, al M5S, basta poco: è sufficiente mantenere un volto rassicurante mentre la Lega picchia duro. Magari c’è gente a destra che si trova nella mia posizione speculare e, senza fidarsi particolarmente né di M5S né di Lega, pensa che ormai l’unico argine concreto al populismo sventato dei primi sia la concretezza dei secondi. Mettiamo poi che il matrimonio scoppi: entrambi potrebbero riscuotere alle urne un credito superiore. La grande debolezza del populismo italiano – l’essersi coagulato in due soggetti concorrenti, invece che in un solo grande partito – ora potrebbe rivelarsi la sua forza, e ogni attacco alla Lega potrebbe rafforzare il M5S e viceversa.
A chi scommette sul divorzio-lampo, ricordo un precedente: il Berlusconi I, che nel 1994 tentò di combinare i leghisti di Bossi al nord coi post-fascisti di Alleanza Nazionale, più radicati nel sud. Vinse con un buon margine, giurò a maggio, si sciolse a Natale. Eppure l’intuizione era buona, e i tentativi successivi avrebbero portato Berlusconi a palazzo Chigi per altri 3000 giorni, record assoluto per la Repubblica. Anche se il matrimonio durasse poco, dunque, non sarebbe per forza un buon segno.