Per chi è nato dopo il crollo del Muro di Berlino, o in prossimità di quel periodo, non è molto semplice avere un’idea chiara di ciò che significa “sinistra”, in particolare quella italiana. Non che siano trent’anni che non esiste più, ma bisogna ammettere che ha avuto una spinta proteiforme piuttosto decisa: cambiare nome, cambiare i leader, cambiare le idee, la terza via, il neoliberismo, le strane alleanze. Chi appartiene a quelle fasce di età che oggi etichettiamo come “Generazione Y” e “Generazione X”, già dalle lettere utilizzate per connotarle, ha un senso di fine che si porta dentro da quando è nato, tra fine di un millennio, fine di un’epoca storica e fine di un’impostazione della politica più schematica, con distinzioni tra destra e sinistra più facili da cogliere, ma non per questo meno complesse. C’era la sinistra del Pci, c’era la sinistra extra-parlamentare, c’era la strana sinistra dei Socialisti; però insomma, c’era un’idea meno sfocata di ciò che significava appartenervi, al contrario di oggi che in nome di una società e di una realtà fluida, nel bene e nel male, si sono venute a creare realtà che sbandierano la loro natura ambigua e inafferrabile “né destra né sinistra”.
La nostra identità politica galleggia su un mare di frammentarietà e confusione. Eppure, in modo particolare nell’ultimo anno – con l’ascesa inaspettata e a dir poco riuscita di Salvini e superata la fase più renziana del centrosinistra – siamo di fronte a un momento in cui gli impulsi concreti verso una sinistra riformata, e pertanto anche idealmente più unita sotto valori diversi da quelli degli ultimi anni, ci sarebbero. Allo stesso tempo però, sembra anche che queste spinte che provengono anche “dal basso”, nel senso che si generano per reazione collettiva, non hanno nessun tipo di riscontro istituzionale, cosa che sembra abbastanza insensata anche per i partiti stessi che potrebbero cogliere queste occasioni per farsi portavoce di queste richieste. Il caso molto recente delle Sardine, al di là di una valutazione di merito, è un chiaro esempio del fatto che esiste un sentire popolare, nel senso più etimologico del termine, per cui una fetta del Paese non è affatto contenta di come la sinistra abbia gestito la questione Salvini. Volersi riunire pubblicamente in una piazza, riappropriandosi di un’istanza democratica – di sinistra in senso più classico – dimostra che c’è ancora un senso di coesione teleologica che si annida in chiunque creda in determinati valori. Insomma, il famoso “scendere in piazza” che suona tanto demodé alle orecchie di chi al massimo si è fatto un paio di manifestazioni contro la Gelmini quando era al liceo, e che invece risulta nostalgicamente romantico a chi negli anni delle contestazioni era in prima linea, non si è estinto.
Se facciamo un resoconto di tutte le volte in cui dal 2000 in poi ci sono state iniziative simili a quella delle Sardine, ossia proteste pacifiche caratterizzate da un espediente comune e un marchio di fabbrica come poteva essere “Il Popolo Viola” o “L’onda”, gli ultimi vent’anni della storia d’Italia contano una collezione abbastanza variegata. Motivo per cui non è semplice determinare il valore effettivo in termini riformatori di questo genere di movimento, se escludiamo il solo impatto mediatico, nel momento in cui spinte simili non si concretizzano in una reale forza politica che vada al di là della protesta con un obiettivo comune e programmatico. All’inizio del nuovo millennio, precisamente nel 2002, quando Silvio Berlusconi era nel pieno delle sue energie e governava l’Italia per la seconda volta, il girotondismo si è fatto largo nella cronaca nazionale come movimento di protesta civile – così tanto da richiamare appunto un passatempo per bambini che come papabile slogan richiamava in modo automatico il temibile “Giro-girotondo, quanto è bello il mondo”. Poi qualche anno dopo, con il favore dell’allora neonato Facebook, è stato il turno del No B-Day e di ciò che ne è conseguito a livello di protesta, ossia la cosiddetta Rete Viola che chiamava chiunque non si sentisse rappresentato dal berlusconismo a dissentire in piazza, facendo sentire la propria voce attraverso una serie di manifestazioni sparse in tutto il Paese e che all’epoca, per chi come me era ancora al liceo ed era abituato solo a qualche marcia locale non troppo nutrita, era riuscita a dare un certo senso di coesione.
Bisogna anche notare un fatto, ossia che questo tipo di iniziativa anti-sistema, col senno di poi, è stato anche il primo sintomo di una migrazione degli elettori di sinistra verso una nuova realtà che inizialmente sembrava accontentare di più le loro richieste. Il M5S, che affonda le sue radici proprio nel Vaffa Day e nelle urla in piazza a suon di “Onestà”, in principio sembrava a molti una valida alternativa a una “mollezza” del Pd in termini di dissenso, in particolare in tempi come gli anni di Berlusconi – periodo in cui il Cavaliere fungeva da ottimo target su cui focalizzare malcontento e saturazione civile. Una fase germinale del grillismo che ha poi reso possibile oggi anche una successiva catalogazione di “pentiti”, personaggi pubblici e non che avevano intravisto in quell’ondata di insurrezione un nuovo soggetto politico potenzialmente supportabile. Con le Sardine ci troviamo di fronte a un nuovo bisogno di opposizione a un modello politico, quello salviniano, che sebbene non sia più al Governo continua a fare da esponente di una realtà politica che gode di un consenso a dir poco solido. Il fatto che Salvini, così come aveva fatto un tempo Berlusconi, polarizzi tanto il Paese, si traduce in una partecipazione sentita, coesa, indizio del fatto che evidentemente uno spazio vuoto, quello della sinistra e di un fermo antagonismo alla politica del segretario della Lega, esiste. Perché allora la sinistra italiana non riesce a dare una forma istituzionale a queste istanze?
Essere contro, riconoscersi in quanto entità “oppositiva e differenziale”, per dirla con Saussure, ha il rischio di delineare un’entità solo per quello che non è, e quindi di trovarsi a mani vuote quando serve capire cosa è. Le Sardine, che nascono a Bologna e a Modena e in termini estetici sembrano proprio il prodotto coerente di un caffè letterario emiliano – le illustrazioni, i portavoce e il loro modo così civile e democratico di esprimersi, il simbolo scelto del pesce stilizzato – sono una manifestazione concreta di quel sentimento che si è visto anche durante l’estate, quando Salvini portava avanti il suo tour di stampo jovanottiano attraverso le spiagge d’Italia: in Sicilia, in Calabria e in molti altri luoghi del Sud, l’arrivo del Capitano era stato contrastato con l’intenzione evidente di dare un segno preciso, ossia quello di dire che no, non siamo tutti con la Lega. Tutto ciò, a mio avviso, non solo è sano ma è anche encomiabile – per quanto le critiche possono essere molteplici sia per la forma che per il contenuto di queste proteste civili – perché quantomeno dà spazio anche a ciò che fino a ora era rimasto distante dalla narrazione dominante dell’ultimo anno. Dall’altro lato però, il punto rimane sempre lo stesso, ossia l’assenza di un dopo, nonostante sia stato formulato un manifesto che però, proprio in quanto manifesto, resta un documento piuttosto generico, accompagnato solo da una serie di proteste in programma che non costituiscono un reale piano d’azione se non a livello mediatico. Il dopo, inteso come un dopo a lungo termine, il dopo di una massa grande ed esigente di elettori che vogliono contrastare una tendenza politica attuale, quella messa in atto dalla Lega e dai suoi complici, primo fra tutti il M5S, ma soprattutto il dopo del Pd inteso come possibilità praticabile anche da chi non si riconosce a pieno nella sua moderazione, ma crede comunque in una possibilità di riformazione drastica e reale rispetto a tutto ciò che è stato fino a ora.
Insomma, se la strada che ha intrapreso il centrosinistra italiano degli ultimi anni – sacrificando molti dei suoi valori storici in favore di spinte neoliberiste e moderate – non porta evidentemente i suoi frutti, perché non cambiare la rotta di un partito che non riesce nemmeno a cogliere l’occasione di avere davanti fiumi di persone in protesta contro una politica che non piace. Se esistono spinte popolari, nate semplicemente attraverso social come Facebook e diventate realtà nella concretezza di una piazza, vuol dire che esiste un elettorato che non si identifica nel maggiore partito della sinistra italiana ma che si riconosce comunque in quelli che tradizionalmente sono valori di sinistra, probabilmente molto più profondi e radicali di quelli portati avanti fino ad oggi da Pd. Non so dire se questa iniziativa delle Sardine sia una realtà che può andare oltre, né se le sue proteste siano in effetti un mezzo efficace di rinascita per dare voce a quella grossa parte del Paese che non si riconosce né in Salvini né nelle altre alternative. Quello che invece mi sembra evidente è che il Partito democratico ha tra le mani una chance per non collassare in modo definitivo, sia approfittando della discesa del M5S, sia facendosi forte dell’opposizione che la Lega e la destra stimolano: intercettare cosa chiedono i potenziali elettori, riformare ciò che fino a oggi non ha evidentemente funzionato per crescere come forza politica. L’occasione, dunque, è in sostanza quella di radicalizzarsi – come peraltro sostengono già alcuni –, tornare a essere una realtà di sinistra che mette davanti a tutto un obiettivo di giustizia sociale, quella che manca in questo momento e che fa sì che si generino le famose lotte tra poveri, odio e risentimento generati da frustrazione e malcontento che si riversano nell’illusione di un nemico comune, oggi l’immigrato e domani chissà.
Sarebbe giusto dunque che a sfidare i fautori di queste politiche recenti all’insegna dell’odio strumentalizzato e focalizzato sui nemici sbagliati solo per accumulare consenso fossero non solo i movimenti spontanei, duraturi o meno che siano, ma anche i soggetti politici che stanno ai vertici. Anche perché forse, a pensarci bene, la crisi della sinistra italiana non dipende solo dalla forza di personaggi come Salvini ma da una sua stessa debolezza e incapacità di cogliere le esigenze del suo elettorato, arroccata com’è in quest’aura di snobismo da vacanza a Capalbio. Sarebbe giusto, in sostanza, che chi si sente di sinistra avesse una vera alternativa di sinistra a cui affidarsi, un partito da sostenere senza l’ormai classico voto dato “tappandosi il naso”.