Mors tua vita mea: la nostra società ormai insegna questo, isolandoci gli uni dagli altri. Siamo convinti di dover lottare con le unghie e con i denti per affermare il nostro posto nel mondo, scavalcando i nostri simili per ottenere fama, successo, e, infine, felicità. Veniamo convinti di essere nel giusto quando assumiamo questi atteggiamenti, e non ci accorgiamo che invece sono proprio la causa della nostra impotenza politica e civica.
Per spiegare il successo con cui l’individualismo è riuscito a imporsi nella mentalità comune, bisogna anzitutto richiamare il concetto di “bias cognitivo”: le nostre credenze sono spesso contaminate da pregiudizi che ci inducono a conclusioni false. Perché una storia sia credibile, infatti, non è necessario che questa sia vera: le narrazioni efficaci hanno il potere di condizionare la nostra interpretazione dei fatti, anche se i presupposti da cui partono sono privi di un riscontro reale. Pigrizia mentale o poca attenzione hanno un ruolo importante nel processo, ma ciò che ci spinge a schierarci in maniera differente dipende anche dal narratore, che può manovrare le nostre convinzioni fornendoci un racconto corretto logicamente (che cioè i rispetti i nessi di causa-effetto) o somigliante alla tradizione (con un eroe e un antagonista). È quello che è successo negli ultimi decenni: dagli anni Ottanta siamo stati bombardati da storie determinate dal neoliberismo, con una pervasività tale che abbiamo finito per prestar loro fede incondizionatamente. Narrazioni che si basano sull’atomizzazione e la competitività: la centralità del mercato e delle sue leggi promuove una gerarchia di perdenti e vincenti sulla base dei risultati economici o professionali, e così facendo incoraggia e premia l’egoismo spietato e l’autopromozione. “Naturalmente, la fraternità è scomparsa da tempo”, diceva Margaret Thatcher, uno dei massimi esponenti neoliberisti, in un’intervista a Le Monde del 1989.
Come sostengono gli psicologi Jean Twenge e Keith Campbell nel libro L‘epidemia del narcisismo, “La battaglia per il bene superiore degli anni Sessanta del Novecento è diventata la ricerca del numero uno già vent’anni dopo”. In questa incessante e subdola lotta che ci contrappone gli uni agli altri, abbiamo perso di vista i valori che dovrebbero muoverci in una società democratica, sminuendo e scoraggiando la compassione e la benevolenza. La vita in società assomiglia sempre di più a una continua prestazione e a una gara, perciò la gente rifugge dai contatti sociali e la capacità di aggregazione langue, mentre una sparuta minoranza di potenti spadroneggia nella res publica a discapito del resto del mondo. Chi prova a interessarsi alla politica schivando i tranelli del populismo si trova in difficoltà: colpa di istituzioni percepite come lontane e corrotte, da cui ci siamo sentiti estromessi e oppressi, ma anche di chi fa opposizione a questo sistema senza proporre soluzioni costruttive. La rassegnazione e la disillusione sono allora tutto ciò che resta in mano a chi prova a relazionarsi alla materia? Se continuiamo a rimanere nella nostra bolla, sì. Ma ci può essere un’alternativa.
Il giornalista George Monbiot, nel suo libro Riprendere il controllo, ci ricorda un tratto fondamentale della natura umana, che giace sepolto sotto i liquami della campagna dell’odio: la solidarietà. “Siamo i cooperatori supremi: dimostriamo una sensibilità unica ai bisogni dei nostri simili e un modo ineguagliato di curarci del loro benessere”, scrive Monbiot, riassumendo gli studi nei campi della psicologia e della biologia evolutiva e sottolineando la spiccata tendenza umana di accudire i malati o disabili, cioè di aiutare chi altrimenti avrebbe poche possibilità di sopravvivere.
“Occuparsi l’uno dell’altro e condividere e scambiare le necessità materiali della vita: tutto questo è legato in maniera indissolubile alla natura dei nostri rapporti sociali”, scrivono gli studiosi Richard Wilkinson e Kate Pickett. Questo comporta che l’alienazione innaturale a cui siamo indotti si ripercuota non solo sul nostro animo, causando depressione, ansia e insonnia, ma anche nel nostro organismo: in uno studio dei ricercatori Julianne Holt-Lunstad, Timothy Smith e Bradley Layton pubblicato sulla rivista medica PLOS Medicine è stato stimato che l’isolamento abbia un impatto sulla salute fisica pari a quello di 15 sigarette al giorno. Riappropriarci della politica per riscoprire la nostra utilità sociale aumenterebbe quindi non solo la nostra dignità, ma il nostro benessere. Per riuscirci, dobbiamo rispolverare un vecchio strumento che ci siamo scordati di possedere: la comunità.
“Se l’alienazione è il punto su cui le nostre crisi convergono, l’appartenenza è il mezzo con cui possiamo affrontarle”, spiega infatti Monbiot. Dobbiamo cioè provare a ripristinare un canale che ci permetta di intervenire in maniera attiva nella gestione di quello che riguarda ogni aspetto della nostra vita, dalla sanità al sistema previdenziale. Una società coesa e impegnata è più difficile da calpestare di una società piagata dall’individualismo e dal disinteresse: per avere voce in capitolo sulle decisioni che riguardano l’amministrazione dei nostri Paesi non bisogna, come ha sostenuto in varie occasioni il nostro ministro dell’Interno, farsi eleggere, ma coalizzarsi. Bisogna ripartire dal basso, cercando alternative basate sullo spontaneo desiderio delle persone di rendersi utili e cooperare in vista del vantaggio comune, che altro non è se non l’insieme dei singoli vantaggi che ognuno trarrebbe da una società più giusta. E c’è chi ha già agito in questa direzione, trasformando la teoria in pratica: è il caso del progetto Estonoesunsolar, per esempio, che a Saragozza è riuscito a riappropriarsi dei lotti abbandonati in seguito allo scoppio di una bolla immobiliare nel 2008. Vedendo che le proteste per le strade non funzionavano, i saragozzani hanno deciso di cooperare in maniera volontaria con un collettivo di architetti e associazioni, e così facendo sono riusciti a trasformare vaste aree degradate in campi da gioco e parchi, creando dal nulla 110 posti di lavoro.
Capire quanto possiamo essere forti se uniti, senza aspettare che le cose migliorino per gentile concessione dai piani alti ma cominciando a rafforzare le relazioni con i nostri simili, darebbe una significativa svolta anche al mercato del lavoro: la globalizzazione e la precarizzazione hanno contribuito ad allungare le distanze con i nostri colleghi, e il nostro obiettivo primario è diventato polverizzarli per accaparrarci quel contratto su un milione che ci permetterà di ottenere gli agognati ritmi disumani di qualche tirocinio sottopagato, che, se siamo veramente fortunati, potrà trasformarsi in un contratto a sei mesi. Le grandi imprese hanno capito perfettamente il concetto di “divide et impera”, e alimentano costantemente il cannibalismo della classe lavoratrice, premiando i soggetti più disperati e disposti a barattare salute e tempo libero con orari massacranti, stipendi ridicoli e dignità calpestata. Grazie però a meccanismi di solidarietà e alla creazione di identità collettive, potremmo cercare di trovare chiavi nuove per obiettivi vecchi, come il potere contrattuale, le tutele e una maggiore stabilità: è una lezione che proviene dai secoli scorsi, che dev’essere declinata a un presente molto più liquido e inafferrabile. Anche se sembra folle, un’unione tra precari potrebbe dare più vantaggi di una guerra tra poveri. E oltre al mercato del lavoro, una maggiore coesione e coscienza potrebbe influenzare anche altri aspetti dell’economia. Lo dimostra l’esperimento del bilancio partecipativo, che assegna ai cittadini quote di bilancio da gestire direttamente. È uno strumento attualmente adottato in molti comuni, tra cui ad esempio Milano, ma il primo episodio che ha testato la sua efficacia è avvenuto a Porto Alegre, in Brasile: nel 1989, i suoi abitanti hanno avuto la possibilità di determinare la destinazione del 20% delle tasse. Questo ha cambiato la percezione che avevano della burocrazia, che da lontano organismo in mano ad estranei è diventata una preziosa risorsa da sfruttare al meglio: i contribuenti sono diventati così consapevoli di quanto il sacrificio individuale poteva tradursi nel beneficio collettivo. Risultato? Hanno chiesto spontaneamente di pagare contributi più alti.
Far sentire periodicamente la propria voce, esprimendosi sulle questioni più attuali con la sensazione di essere ascoltati: basterebbe questo per risvegliare il nostro istinto democratico e restaurare una connessione tra le nostre vite e quella dello Stato. Per far ciò, bisogna partire dal basso, riscoprendo un sentimento di inclusione e condivisione per ricreare una logica sociale basata sulla solidarietà e l’appartenenza e facendo entrare le abitudini democratiche nella nostra vita quotidiana. L’alternativa è la normalizzazione del sentimento di impotenza, che spiana la strada alla demagogia aumentando il rischio della deriva fascista. Come conclude Monbiot: “Facciamo fatica a immaginare una via d’uscita dalla mera reattività e dall’inerzia a cui ci siamo arresi. Non riconoscendo i nostri problemi, non possiamo certo risolverli. Tutto questo ci ha resi incapaci di fare ciò che ci riesce meglio: vedere la minaccia che incombe su un proprio simile come una minaccia per tutti, trovare un terreno condiviso per affrontare necessità comuni e unirsi per superarle”. Per cambiare la situazione, non bisogna arroccarsi dietro un muro di disillusione e sfiducia, ma farsi sentire. E per farsi sentire, bisogna usare quel megafono che si chiama comunità.