A fine febbraio, una ragazzina di Nichelino ha ricevuto la telefonata di una sua compagna di classe di origine armena che voleva salutarla: dal giorno successivo non avrebbero più frequentato la stessa scuola. È così che gli insegnanti dell’Istituto Comprensivo Nichelino IV, in provincia di Torino, hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento della bambina in un altro comune, insieme ai genitori e altri tre fratelli, provenienti dalla Germania e in attesa di asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in casi simili si era sempre aspettata la fine dell’anno scolastico. Ma per il Viminale “la pacchia è finita” e il decreto sicurezza prevede la riorganizzazione dei centri di accoglienza, che devono cominciare a ospitare i migranti non appena vinti i nuovi bandi di assegnazione.
La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata per l’ennesima volta da un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro punto di vista, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente dell’istituto di Nichelino, è anche uno spreco per il sistema scolastico che ha destinato risorse preziose per l’istruzione di questi alunni. In una scuola i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno, mentre in un’altra servirà averne uno nuovo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui non sembrerebbe tener conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale. In un settore del pubblico servizio che non si è mai ripreso del tutto dai tagli dell’epoca berlusconiana, ogni ora di lezione è preziosa. Chi da un giorno all’altro decide di spostare una famiglia con studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa.
La scuola pubblica italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia bombardata dall’odio e dal razzismo la scuola statale resiste per difendere la sua identità: sei mattine alla settimana accoglie studenti di ogni provenienza e cerca di farli studiare e vivere insieme, con risultati incoraggianti. Anche se non sempre ci riesce, ci prova ogni mattina. Nel 2016 l’Istat ha pubblicato un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera, dove a dichiararsi più ottimisti sul tema sono stati proprio gli insegnanti. Secondo i dati dell’istituto di statistica, uno studente di origine straniera su tre afferma di sentirsi italiano e soltanto il 20% degli alunni di seconda generazione dichiara di non frequentare nel tempo libero i compagni italiani, mentre il 50% degli studenti frequenta senza distinzione compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette, via social e tv, la cosiddetta “emergenza invasione”.
Un hashtag del ministro dell’Interno può influire sull’opinione pubblica più di un capillare meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini e ragazzi di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui, per esempio, anche Beppe Grillo può continuare a scrivere sul suo blog che il razzismo in Italia è un falso problema è proprio il lavoro quotidiano della scuola. L’impegno del personale scolastico continua a far rispettare l’articolo 3 della Costituzione che stabilisce, al primo comma, che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E anche il secondo che, già nel 1948, assegnava alle Repubblica il compito di “Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “la libertà e l’eguaglianza dei cittadini” – per quanto oggi sembri una missione impossibile. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere, così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare.
Nonostante il suo ruolo strutturale per la stabilità del Paese, la scuola pubblica continua a essere da anni oggetto di tagli e trasferimenti di risorse. Che la Lega possa vedere in essa un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio coerente con la linea paradossale di un partito che ha vinto le elezioni promettendo sicurezza, mentre fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Per questo a Bruxelles diserta le sedute tese a votare una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione, a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere) e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di munirsi di porto d’armi e tenere un’arma pronta all’uso comodino.
Più complessa è la posizione dell’opinione pubblica cattolica. Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.
La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.
È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.