A febbraio, quando il Covid cominciava a diffondersi con casi sporadici, il sindaco di Milano Beppe Sala promosse l’hashtag #milanononsiferma. Condivise sui social video in cui i milanesi venivano invitati a non farsi prendere dal panico, perché non ci sarebbe stata nessuna catastrofe e dunque non bisognava rinunciare agli aperitivi. A livello nazionale lo fecero un po’ tutti i politici, da Salvini a Zingaretti, poiché si sottovalutava la pericolosità del virus e le conseguenze che sarebbero esplose nel giro di poche settimane. Salvini ha poi perseverato anche nei mesi successivi, quando era chiaro a tutti di essere nel bel mezzo di una catastrofe, ma quello è un altro discorso. Per Milano e per le dichiarazione di Sala la questione è stata ed è tuttora molto diversa dalla narrazione di Salvini, con un sottotesto che sembra lasciar intendere: noi siamo la locomotiva del Paese, dobbiamo fatturare, il mondo deve andare avanti. Quel “noi” manifesta la presenza di due Italie diverse, riconfermata anche durante questa seconda ondata attraverso campanilismi, pretese di unicità ed effettive differenze nei dati epidemiologici.
Tralasciando gli stereotipi da “milanese imbruttito”, Milano è senza dubbio il nucleo produttivo della nostra nazione, a maggior ragione in seguito alla fuga delle sedi di molte grandi aziende dalla Capitale alla città meneghina. Anche la retorica della Lombardia “regione che traina l’Italia” ha una base di verità, per lo meno numerica. Il PIL della Lombardia è infatti di 368 miliardi di euro, ovvero il 22% del PIL nazionale. Per far capire la portata di questi numeri è necessario evidenziare che il PIL della Lombardia è superiore a quello della Danimarca e persino maggiore della somma di quelli di Serbia, Croazia, Slovenia e Slovacchia messi insieme. Quindi è vero dire che se si ferma l’economia lombarda crolla quella italiana; ma non è corretto creare una bolla lavorativa per Milano e la Lombardia mettendo a repentaglio la salute pubblica.
Il divario tra Nord e Sud accompagna la nostra nazione da sempre ed è ancora sotto gli occhi di tutti: basta pensare che in Lombardia ci sono più di 800mila imprese registrate e in tutta la Calabria più o meno lo stesso numero di quelle della sola provincia di Brescia. Ma questi numeri non devono tradursi in una guerra territoriale. Bisogna però sottolineare che dalla prima ondata va avanti un forte martellamento mediatico – che non tende a placarsi nemmeno ora, anzi – sull’immagine delle misure restrittive legate a una limitazione della libertà per chissà quali scopi politici. Il tutto si amplia quando entra in gioco il lavoro, con le chiusure di determinate categorie e il contraccolpo sull’economia – doloroso, ma inevitabile durante una pandemia. Lo stesso Sala per settimane si è opposto alle voci di un lockdown, agevolando di fatto la retorica leghista su una presunta esclusività di Milano, dovuta al suo fatturato, scindendo il lavoro dalla salute e la produttività dalla tutela dei cittadini.
Milano è il paradigma della smart city, qualsiasi cosa voglia dire. Forse è un modo tenero per esclamare che è la città italiana più vicina ai crismi del capitalismo mondiale, una versione moderna ed estesa del “produci-consuma-crepa”. Ha quindi delle priorità e a giugno Sala le ha spiegate bene: “Basta con lo smart working, ora è il momento di tornare a lavorare”. Tradendo il pregiudizio un po’ da boomer che fa considerare il lavoro agile come non lavoro ma un passatempo durante la quarantena, un hobby per distrarre tanti laboriosi milanesi, quando ormai sono tanti gli studi che dimostrano il contrario e addirittura diverse multinazionali stanno integrando questo tipo di dinamiche lavorative al loro interno. Alla faccia della smart city. Il mese dopo ha dichiarato: “È evidente che una parte della città è ferma perché qualcun altro non lavora in presenza. Non consideriamola normalità, altrimenti dovremmo ripensare interamente la città”.
Esatto, è proprio quello che tanti invitano a fare. E non soltanto rispetto a Milano ma all’intera società. È quello su cui si è maggiormente discusso durante la prima ondata, con i propositi di cambiamento di paradigma e abitudini in realtà mai avvenuto, con i sogni di una società diversa e l’illusione che questa crisi, oltre alle difficoltà e alle sofferenze, ci mettesse tra le mani un’opportunità da sfruttare per cambiare il mondo – in particolare quello del lavoro e dell’economia. Lavorare da remoto, quando è possibile, non vuol dire certo non lavorare, anzi. Eppure tanti datori di lavoro stentano ancora a capire che la qualità del lavoro non si basa sulla quantità di tempo che gli viene richiesto di passare seduti alla scrivania dell’ufficio, ma sul benessere – e quindi sulla felicità – dei dipendenti, che sono prima di tutto persone.
Milano è un po’ il Mazzarò di Verga: “Roba mia, vientene con me”, anche quando tutto sta giungendo alla sua fine. E così, fino all’ultimo, Sala ha tentato di evitare la tenaglia delle misure restrittive, arrendendosi soltanto quando è intervenuto il governo mettendo la Lombardia in zona rossa. Questo vale per molti altri presidenti di regione, e certamente la chiusura comporta danni spesso irreparabili per un numero enorme di cittadini e per le loro attività, ma l’azione di un politico dovrebbe essere quella di avvicinarsi il più possibile a un bene comune, trovando soluzioni anche impopolari e sofferte ma efficaci. Fino alla settimana scorsa diceva: “Per quello che osservo, il lockdown è una scelta sbagliata. È nelle mie responsabilità e io ragiono con la testa e con il cuore. Stiamo facendo dei sacrifici e vedremo cosa succederà”.
Sia chiaro, le principali responsabilità per la gestione dell’epidemia in Lombardia sono a carico del duo Fontana-Gallera e della giunta regionale leghista. Quelle di Sala sono più responsabilità “morali”, legate a messaggi che sono stati trasmessi nel modo sbagliato e che raffigurano una visione del mondo distante da un progressismo – per lo meno nel mondo del lavoro – che un esponente di centrosinistra dovrebbe quantomeno cercare di abbozzare. D’altronde stiamo parlando della stessa persona che in estate ha provato a rilanciare proposte non troppo distanti dalle gabbie salariali di un tempo, confrontando lo stipendio di un lombardo a quello di un calabrese, come se si trattassero di due Paesi diversi e non di due regioni all’interno di quella che dovrebbe essere la stessa nazione.
Non stupisce quindi il suo apparente allineamento a una fazione che ha una visione del lavoro più spostata a destra. E non scordiamoci che qualsiasi politico, anche e soprattutto durante una fase d’emergenza, è perennemente in campagna elettorale. Nel 2021 ci saranno le elezioni comunali per eleggere il nuovo sindaco di Milano, quindi le scelte di Sala nella gestione della pandemia spingono verso una direzione ben precisa, ossia quella del mantenimento di uno status quo per quei milanesi che riescono a sostenere l’alto costo della vita grazie al lavoro, unito a un atteggiamento più morbido per non scontrarsi con i cittadini che per vari motivi sono contrari alle restrizioni. Il problema è che anche il governo sta facendo lo stesso, considerando che l’ultimo Dpcm è improntato proprio sulla delega alle regioni, che hanno il potere di attuare misure ancora più restrittive in autonomia. In questo modo si crea il cortocircuito delle responsabilità: il commerciante che ha dovuto abbassare la propria saracinesca non conosce il colpevole, tutti se ne lavano le mani per cercare di mantenere una verginità per la prossima tornata elettorale, ma così facendo il Paese si blocca.
La cultura milanese del business non si concilia con la situazione che stiamo vivendo, ovvero una Milano ampiamente in testa alla classifica dei contagi. Gli interessi sono più estesi, con le aziende e gli imprenditori che premono per mantenere intatto il loro meccanismo di produzione e consumo, costringendo i lavoratori ad affrontare una giornata tra mezzi di trasporto, per quanto svuotati, troppo pieni, vicinanza sul luogo di lavoro e rischio elevato di entrare a contatto con il Covid, in una città in cui l’indice Rt è superiore a 2. Eppure la retorica del fatturato che viene prima della salute non si ferma e guai a parlare di rivoluzionare il mondo del lavoro: tutti i Mazzarò lombardi potrebbero offendersi.