Il dato principale delle europee è uno: destra e sinistra esistono ancora. - THE VISION
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È stato sfiancante, ammettiamolo. Ci siamo dovuti sorbire le gag di Meloni con le ciliegie, i meme di Salvini sui tappi delle bottiglie, la Decima Mas rievocata dal cassetto nero della Storia, Santoro a urlare in tutti i luoghi e in tutti i laghi, le opposizioni sonnecchianti, Renzi e Calenda in una gara di frecciatine social. I risultati delle elezioni europee sono arrivati quasi come una liberazione, come a volerci sbarazzare di un circo che non era più sostenibile. Alla fine l’estrema destra è cresciuta un po’ ovunque, ma non ha sfondato. Meloni ha vinto ancora, ma non ha ripetuto gli exploit di Renzi 2014 (40,8%) e Salvini 2019 (34,2%). Il centrosinistra ha “perso bene” reggendo in Italia e in Spagna, perso malissimo in Francia e Germania, e al bar faremo i grandi intenditori di politica slovacca dicendo che lì abbiamo vinto, e anche in Portogallo, Slovenia, Svezia e Danimarca. Siamo pronti anche con il lundiniano “Va bene lo stesso” quando qualcuno ci ricorderà che Vox e AfD hanno rotto gli argini e che in Francia Le Pen e Bardella si stanno avvicinando all’Eliseo con le mazze chiodate. Poteva andare peggio. Poteva piovere o potevamo ritrovarci con una maggioranza di estrema destra a Bruxelles. Ci sorbiremo invece un probabile Ursula-bis e riabbracceremo una vecchia conoscenza che sembrava perduta nel panorama politico: il bipolarismo.

Ursula Von Der Leyen

Forse è proprio questo il dato principale delle elezioni europee: destra e sinistra esistono ancora. Sono due blocchi che negli ultimi tre lustri hanno subito il tentativo di essere ridotti a entità astratte, retaggi ormai superati del Novecento. Invece a perdere è stata proprio la post-ideologia del “né di destra né di sinistra”. Il Movimento Cinque Stelle è precipitato sotto il 10%, lo stesso Renaissance di Macron è, in gerco politico, un partito pigliatutto e con la cocente sconfitta si è arrivati a sciogliere il parlamento e indire le nuove elezioni francesi per il 30 giugno. Se il populismo è ancora radicato nei processi elettorali, il gentismo sta arretrando. Anche Salvini se n’è accorto, tentando di salvare la Lega trasformandola in una succursale di CasaPound, nonostante i mugugni dello zoccolo duro bossiano e secessionista. Nonostante Vannacci e le X nostalgiche, è riuscito a prendere meno voti di Forza Italia, un partito che aveva nel simbolo e sui manifesti elettorali il nome di un morto. Mi sarei aspettato l’ologramma di Berlusconi per l’ultimo comizio. Se Salvini è riuscito a perdere contro un defunto, forse dovrebbe chiedersi quanto fosse sciocca da 1 a 10 l’idea di presentarsi alle Europee con il motto Meno Europa. Un po’ come se un astemio s’iscrivesse a un corso da sommelier, vantandosene. E, probabilmente, senza l’odore di olio di ricino di Vannacci avrebbe preso ancora meno voti.

In Europa l’andazzo è lo stesso: i partiti ibridi hanno perso campo. La gente sembra che sia tornata al codice destra-sinistra, a una polarizzazione non più demodé ma necessaria. Anche perché in opposizione all’estremismo di una delle parti, la soluzione non è reagire con l’ambiguità politica: serve il suo contrario, sfoderare e rimarcare le differenze di pensiero. Forse questo servirà al centrosinistra a essere più di sinistra, ai progressisti a essere più socialisti, alle coalizioni a mollare le terre di mezzo del centrismo. Questo ritorno al passato può avere aspetti positivi a livello di senso di rappresentanza e identità, con gli elettori non più delegittimati e intrappolati nel limbo della faciloneria dei partiti mare e monti.

Emmanuel Macron

L’aspetto negativo è il calo di alcune realtà che alle precedenti tornate elettorali avevano fatto faville, come i partiti più incentrati sull’ambientalismo. Il caso dei Verdi in Germania è l’esempio principale. È vero, AVS in Italia ha avuto un risultato più che accettabile (oltre il 6%), e credo che il sostegno a Ilaria Salis non sia stato meno forte di quello per le proposte ambientaliste. Forse anche per questo motivo le creature politiche di Renzi e Calenda non hanno superato la soglia di sbarramento: in un periodo storico in cui bisogna mettersi l’elmetto per resistere all’ondata nera, i moderati-centristi-liberali sono un bastoncino con cui proteggersi dalla tempesta. Non che il PD sia il più protettivo degli scudi, ma il voto utile è resuscitato dalla sua cripta degli anni Novanta e gli italiani hanno scelto la loro opposizione. Non si sa come, visto che il partito di Schlein ha fatto a lungo come gli animali in pericolo che si fingono morti per non essere attaccati, spendendosi solo nelle ultime settimane molto di più nelle piazze e riprendendo un po’ del coraggio che sembrava smarrito – ma in sostanza questa tecnica ha funzionato.

Certo, quando si parla di italiani non possiamo non evidenziare che ci stiamo riferendo a una platea ridotta. Purtroppo, infatti, i timori sull’astensionismo si sono rivelati fondati: meno di un italiano su due si è presentato alle urne, ed è la prima volta da quando siamo una Repubblica. Non avverrà, conoscendo il personaggio in questione, ma Meloni dovrebbe prendere nota e ricordare che ha preso il 28,8% tra il 49% della popolazione avente diritto al voto. Quindi tecnicamente non rappresenta la maggioranza degli italiani, come vuole farci intendere da quando è salita al potere. La distanza con il PD è solo di quattro punti percentuali. Schlein ha preso un partito che alle elezioni nazionali del 2022 aveva preso il 19% e si ritrova al 24% nonostante il primo partito (Fratelli d’Italia, appunto), sia salito ancora. Vuol dire che i voti li ha risucchiati dalle borracce grilline, dai centristi confusi, dagli ex radicali alla ricerca di se stessi, ovvero quelli che stanno pagando il fatto di non essere né di destra né di sinistra. La ricetta che poteva funzionare nel 2018, ma non adesso.

Elly Schlein

Non che il PD sia diventato un partito di bolscevichi, ma Schlein deve ripartire proprio dal rilancio del bipolarismo per spiegare agli italiani di essere l’alternativa a Meloni. È qui che gli altri hanno fallito, anche nella stessa coalizione di governo. La Lega non ha palesato una sua identità, ha cercato di incamerare estremisti di destra con il tentativo di avvicinarsi ai metodi utilizzati da Fratelli d’Italia. Ma a quel punto gli elettori hanno votato i veri neofascisti, non gli uomini di Pontida con i simboli del ventennio indossati in fretta al posto della spilla di Alberto da Giussano. All’estero è avvenuto più o meno lo stesso, con i cittadini a rendersi conto che l’alternativa agli estremisti non potevano essere né i centristi né gli alfieri della post-ideologia. E d’altronde destra e sinistra appartengono all’Europa, proprio concettualmente, più che in qualsiasi altro luogo del pianeta. Siamo il continente dei montagnardi e dei girondini, sinistra rivoluzionaria contro alta borghesia. I centristi post rivoluzione francese formavano le marais, la palude: politici dalle posizioni mutevoli che volevano annullare la distinzione tra destra e sinistra. Quella palude ha caratterizzato gli ultimi quindici anni della nostra storia politica, e per il bizzarro gioco dell’eterno ritorno è stata bonificata proprio in seguito all’ascesa dei neofascisti al governo.

Le principali potenze mondiali non hanno mai vissuto la nostra stessa dicotomia destra-sinistra. Gli Stati Uniti hanno estromesso il socialismo dalle loro fondamenta; esiste sì un bipolarismo, ancora più marcato che da noi, ma i loro Democratici in Europa sarebbero considerati dei liberali di centro e i Repubblicani, tolta l’era Trump, una destra all’acqua di rose distante dalla cultura fascista o nazista. Russia e Cina, poi, non hanno mai vissuto delle vere contrapposizioni tra destra e sinistra. Con la rivoluzione sovietica il massimo dello scontro poteva essere tra stalinisti e trotzkisti, ovvero tra due sfumature del marxismo. E nella Repubblica Popolare Cinese non esiste un organo amministrativo fuori dal Partito Comunista Cinese. In Europa, invece, destra e sinistra hanno segnato nel bene e nel male la storia degli ultimi secoli. Fino all’arrivo della palude, che Grillo all’apice del M5S ha spiegato senza mezzi termini: “La specie che sopravvive non è quella più forte, ma quella che si adatta meglio. Noi siamo un po’ democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra, un po’ di centro, possiamo adattarci a qualsiasi cosa”.

Oggi il messaggio è chiaro: la palude ha esaurito la sua breve funzione storica. In Europa soffiano venti di destra, e Fratelli d’Italia e Rassemblement National rappresentano quella più estrema. A resistere, a fatica, sono i socialisti, non le marais. L’ideologia è tornata a essere un valore preponderante. La gente vota per liberare Ilaria Salis dalle grinfie dei neonazisti, non per essere “un po’ questo e un po’ quello”. Siamo alle porte di una nuova stagione di militanza, i cittadini dovranno tornare a riconoscersi in qualcosa di concreto e a combattere le proprie nemesi. Siamo di nuovo montagnardi e girondini, la vera palude adesso è l’astensionismo. Per convincere il 51% degli italiani a ripresentarsi ai seggi bisognerà indicare una direzione, un ideale, dire esplicitamente ciò che si è, non quel che non si è mai stati o ciò in cui ci si potrebbe trasformare per adattarsi. Il tempo dell’adattamento è finito: l’Europa chiede una posizione.

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