In Umbria ed Emilia-Romagna non ha vinto il centrosinistra ma il PD. La vera vincitrice è Schlein. - THE VISION

È straniante commentare i risultati elettorali del centrosinistra senza fare alcuna analisi della sconfitta. Un po’ come spezzare una tradizione, abituarsi a nuovi sistemi sconosciuti. Eppure, il successo in Emilia Romagna e in Umbria è stato netto: mantenere una roccaforte rossa e scippare una regione alla destra è un segnale forte in un periodo costellato da avanzate sovraniste in ogni angolo del pianeta. Non sono state nemmeno delle vittorie risicate: numeri alla mano possiamo parlare di trionfo senza appellarci al sensazionalismo. Nonostante questo, se proprio dobbiamo fare i pignoli, parlare di vittoria del “centrosinistra” non è corretto. Per quanto possa andare avanti arrancando la narrazione del campo largo, a dominare è stato il PD, con gli altri partiti della coalizione obliterati dalla vera vincitrice di queste tornate elettorali: Elly Schlein.

I dati possono aiutarci a capire la portata di questo fenomeno. In Emilia Romagna il candidato sostenuto dalla coalizione di centrosinistra, Michele De Pascale, ha nettamente sconfitto la candidata di centrodestra Elena Ugolini. Se analizziamo i voti dei singoli partiti a sinistra, il PD ha ottenuto il 42,9% e il Movimento Cinque Stelle il 3,5%, sconfitto anche da Alleanza Verdi e Sinistra (5,3%) e dalla lista civica legata a De Pascale (3,8). A destra, Fratelli d’Italia si è fermato al 23,7% e, ancora una volta, la Lega è finita sotto Forza Italia (entrambi i partiti intorno al 5%). Sì, presentarsi uniti e sostenere lo stesso candidato aiuta a livello di percezione di coesione, ma poi di fatto c’è un partito a trainare tutto il centrosinistra. Va bene che il M5S alle regionali non sfondava nemmeno durante i suoi anni d’oro, ma un partito in rotta con i suoi stessi creatori (Grillo e Casaleggio) e che ottiene il 40% in meno del suo competitor di coalizione è sostanzialmente una creatura morta inconsapevole di esserlo.

Michele De Pascale

In Umbria l’andazzo è stato più o meno lo stesso. La presidente uscente Donatella Tesei, supportata dal centrodestra, è stata sconfitta dalla candidata di centrosinistra Stefania Proietti. Anche qui il PD ha cannibalizzato l’intera coalizione superando il 30%, con AVS, M5S e la lista di Proietti appaiati intorno al 4%. Nessuna differenza anche a destra: Lega ancora dietro Forza Italia e Fratelli d’Italia in testa, stavolta senza raggiungere il 20%. Se prendiamo in considerazione anche le recenti elezioni regionali in Liguria, avvenute in seguito ai guai giudiziari dell’ex governatore Giovanni Toti, notiamo come anche da quelle parti il PD sia stato più votato di Fratelli d’Italia, nonostante la vittoria di un centrodestra presentatosi più compatto. E se Schlein ha battuto Meloni tre a zero, viene da chiedersi quali siano i fattori in controtendenza rispetto allo specchio nazionale, nonché la crescita inaspettata di un partito, il PD, che Schlein ha raccolto quando non erano rimaste nemmeno le macerie.

Stefania Proietti

La ricostruzione è stata lenta e non priva di difficoltà. Il primo anno di Schlein da segretaria è apparso persino debole, loffio, soprattutto per chi si aspettava che facesse tabula rasa di tutto il vecchio apparato dem. La sua opposizione al governo Meloni è stata inizialmente poco incisiva, e il timore era che Schlein fungesse solo da bandierina in una terra di nessuno, una landa destinata a non produrre più alcun frutto. Lei stessa ha commesso alcuni errori dettati dall’ingenuità, pensando di ringiovanire il partito con una comunicazione pop forse troppo personalistica e superficiale. La sua bravura è stata quella di accorgersi degli sbagli, studiare l’ambiente intorno a lei, metabolizzare il nuovo ruolo e invertire finalmente la rotta. Si è così passati dalle interviste sull’armocromista personale all’attivismo nelle fabbriche, da una rivoluzione soft – parente stretta del mantenimento di uno status quo – alla concretezza fuori dai riflettori. Per esempio, durante questa campagna elettorale per le regionali, mentre Salvini giochicchiava su Instagram vestito da Trump, Schlein si presentava alle acciaierie di Terni per parlare con gli operai; mentre Meloni si arrampicava sugli specchi per spiegare una manovra imbarazzante, lei faceva presidi in piazza con i cassintegrati. La vittoria di Schlein parte proprio da questa consapevolezza: per ri-convincere gli astenuti di sinistra non bisogna scimmiottare la destra, ma recuperare i terreni perduti che un tempo erano di propria appartenenza cominciando proprio dal mondo del lavoro.

Si parla spesso del voto “intestinale”, e Salvini l’ha declinato nella gastronomia – pubblicare foto di cannoli quando si è in Sicilia e di arrosticini quando si è in Abruzzo ha smesso di funzionare da un bel pezzo. L’intestino però, come ci spiegano i gastroenterologi, è collegato al cervello più di quanto si possa immaginare (parola di chi soffre di colon irritabile). Quindi il voto può certamente essere una questione di pancia, ma l’elettorato non è stupido. Schlein l’ha compreso, e così si è avvicinata alla gente più di qualsiasi altro segretario del PD. A costo di avere dei profili social più noiosi, meno “smart”, l’incubo di parecchi social media manager. Credo che nel 2024 gli italiani stiano avendo un rigetto per i politici-influencer, per le foto della vita privata e dei figli usate per dirottare l’attenzione su altro che non siano le lacune governative o gli scandali personali, per gli slogan vuoti che non corrispondono mai a un riscontro effettivo una volta giunti nei luoghi del potere. In Emilia Romagna e in Umbria, ai cittadini non è importato nulla del quadernetto colorato di Meloni o della cravatta rossa di Salvini, né degli elogi a Elon Musk o delle prelibatezze di qualche sagra di paese. Hanno votato i candidati e i programmi, quelli che a livello territoriale sono ancora più importanti rispetto alle elezioni nazionali. A Norcia o a Ravenna erano interessati alle proposte per amministrare bene il territorio, non ai risultati del voto in Pennsylvania. E Schlein è stata più convincente sia degli avversari sia dei compagni di coalizione.

Antonio Tajani, Giorgia Meloni e Matteo Salvini

Coalizione che adesso dovrà inevitabilmente ammettere gli equilibri di forza. Non è più il PD titubante e monco di Letta e Zingaretti, come non è più il M5S arrembante degli esordi. Presentarsi uniti serve a tutti per garantire una progettualità in vista del vero obiettivo a lungo termine: sconfiggere la destra ed estrometterla dal governo quando ci sarà l’occasione di farlo. Gli altri partiti non potranno però pretendere gli stessi oneri e onori di un PD che ha preso più di dieci volte i loro voti. E allora che si gestiscano le loro grane interne tra garanti-non-più-garanti, Renzi e Calenda come Tyson contro Paul (ed entrambi sono l’attuale Tyson), cercando di non mettere a Schlein i bastoni tra le ruote. Adesso deve essere il PD a dettare l’agenda della coalizione, se l’è guadagnato sul campo. E suona surreale dirlo, quando fino a poco tempo fa era di fatto un partito finito, schiacciato dai suoi stessi fantasmi identitari e dalle correnti fratricide. Non avrei mai scommesso su una risalita del genere, e chi sminuisce questi risultati solo perché conseguiti a livello regionale ignora come il centrodestra targato Meloni abbia cominciato la sua ascesa proprio rafforzandosi sul territorio. Non a caso governa ancora la maggioranza delle regioni. Se però Meloni prende meno voti di Schlein anche dove la sua coalizione vince (Liguria) o dove la destra ha governato per cinque anni (Umbria) significa che una forza è in discesa e l’altra in ascesa. E che la pancia degli italiani sta borbottando.

Matteo Renzi

Non servono, al contempo, nemmeno i facili entusiasmi. La svolta di Schlein è soltanto all’inizio, mancano ancora diversi passaggi per potersi riconnettere a un popolo per troppi anni distante dalle azioni del partito. La ricetta sembra quella giusta, ovvero spingere sui diritti sociali senza dimenticare le battaglie per quelli civili, tornare ad avere delle sembianze vagamente di sinistra, o almeno progressiste, per rappresentare un’alternativa valida a un governo sempre più autoritario che silenzia anche il dissenso. Se si considerano le vittorie in Emilia Romagna e in Umbria un punto d’arrivo allora tutto l’ingranaggio si inceppa. Io ho il timore di leggere stamattina i commenti delle cariatidi del PD, quelle che in passato hanno ostacolato Schlein, intente ad appropriarsi di una vittoria non loro. La nuova segreteria ha come imprinting una discontinuità con il passato, e l’attenzione deve essere sul contrasto alle azioni del governo, non sulle fanfare che suoneranno come a dire “è risorto il centrosinistra”. No, non ancora. Ci si sta svegliando da uno stato comatoso, e in queste fasi confondere il movimento di un dito al risveglio col rigor mortis è un attimo. C’è un’espressione del gergo giovanile che trovo insopportabile, ma adesso calza a pennello: lasciate “cucinare” Elly Schlein. E ripartire dalle certezze è il modo migliore per farlo. C’è una scena di Aprile dove Nanni Moretti allo Speaker’s corner di Hyde Park urla: “Per noi italiani di sinistra il modello deve essere l’Emilia Romagna”. Ecco, ricominciamo da qui, e mentre altri politici su Instagram mangiano, Elly cucina.

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