Non è facile tenere in ostaggio per anni un partito che non ti appartiene, a meno che il tuo nome non sia Matteo Renzi. Per farlo servono dosi massicce di egocentrismo, spalle larghe e una capacità di persuasione fuori dal comune. Nietzsche scriveva: “Dovunque mi arrampichi io sono seguito da un cane chiamato Ego”. Renzi non ha mai provato a fuggire da quel cane, l’ha adottato. Come conseguenza è arrivato all’atto finale del suo progetto di rottamazione, il gesto che alcuni temevano, molti auspicavano, e che in fin dei conti segue l’ordine naturale degli eventi: abbandonare il Pd dopo averlo disgregato dall’interno.
È il colpo di coda di un’estate dominata dai Matteo. I due migliori amici del cane nietzschiano hanno deciso di rinnegare le loro case – prendendole a picconate – per cercare fortuna altrove. Se Salvini, tra un mojito e un dj set, ha fatto crollare un governo in cui faceva il padre padrone con la speranza – fortunatamente scongiurata – di arrivare ai pieni poteri, Renzi ha colto al volo l’occasione per tornare sulla ribalta politica. Sembrava l’ombra di se stesso, un senatore come altri che tirava avanti tra i flop televisivi e le vicende giudiziarie dei familiari. In realtà il suo progetto era ben delineato, prevedibile per tutti. Tutti, tranne il Pd.
Durante la campagna elettorale per le elezioni nazionali del 2018, quelle che hanno segnato l’ascesa del tandem Lega – M5S, Renzi ha preferito defilarsi, avendo fiutato il flop del Pd. Il Matteo di Rignano ha però messo in atto l’unica strategia rimasta per scongiurare l’oblio politico: inserire in cima alle liste elettorali i suoi uomini, in modo tale da avere in Parlamento un’alta rappresentanza di renziani di ferro.
Il potere di Renzi si è palesato appena prima della nascita dell’esecutivo gialloverde. La “politica dei due forni” di Di Maio prevedeva un dialogo con il Pd, ma Renzi ha subito posto il veto. Oggi suonano risibili le sue giustificazioni per il mancato accordo: “L’alleanza con il M5S avrebbe distrutto la democrazia italiana”. Soprattutto perché, 14 mesi dopo, il governo M5S – Pd è nato grazie all’intuizione e alla spinta determinante di un solo uomo: Matteo Renzi.
Era chiaro che a Renzi non convenisse andare a elezioni: Zingaretti avrebbe creato le sue liste, mettendo in un angolo i renziani e cambiando i rapporti di forza all’interno del Parlamento. Invece la nascita del Conte bis ha permesso a Renzi di mantenere i suoi fedelissimi alla Camera e al Senato, fino a portarli al governo come ministri, viceministri e sottosegretari. Una volta concluse – a suo vantaggio – le trattative sulle nomine, Matteo è passato all’incasso. Ha lasciato il Pd, ma con i suoi uomini nelle posizioni di comando. Nonostante la sua dichiarazione di impegno a sostenere l’esecutivo di Conte, un revival di “Enrico, stai sereno!”, è consapevole di avere il potere di far crollare il governo in qualsiasi momento. E lo farà. Non adesso, non nei prossimi mesi, ma lo farà.
Per comunicare la sua scelta, Renzi si è inizialmente affidato a un post su Facebook denso di quei riferimenti alla cultura di un quarantenne con il mito di Fonzie: L’attimo fuggente, Jovanotti e gli anni come boy scout. Poi è entrato nel merito con un’intervista a Repubblica, dove ha spiegato di averlo fatto per il bene del Paese. Ha dichiarato: “Sarà un bene per tutti, anche per Conte”. In realtà tutte le azioni politiche giustificate con il mantra del “bene comune” nascondono un evidente bene personale. D’altronde, Grillo ha dato la sua benedizione al governo con il Pd non certo per la stabilità del Paese, ma per non sparire dallo scenario politico. Salvini non si è staccato dai grillini per un progetto a lungo termine con gli italiani, ma per evitare la responsabilità di una manovra economica lacrime e sangue e per poter un giorno comandare da solo. Renzi segue la stessa strada. Le altre dichiarazioni rilasciate a Repubblica hanno il sapore di formule di circostanza e non aggiungono nulla all’approfondimento politico (“Voglio passare i prossimi mesi a combattere contro Salvini”, “La prossima Leopolda sarà un’esplosione di proposte”). Quello che conta è l’annuncio dei circa 30 parlamentari che lo seguiranno nella scissione, che sembrerebbe far intendere la sua capacità di tenere in mano l’interruttore del governo, pronto a cadere al primo clic.
Inutile girarci intorno: il Pd non è mai stato l’habitat naturale di Renzi. Lui che adesso si lamenta di “essere stato trattato da intruso da molti dem”, non si rende conto che lo era davvero. Questo non gli ha comunque impedito di condizionare per anni le sorti della politica italiana e del centrosinistra. La sua visione politica è sempre stata figlia di un berlusconismo mitigato. Ha sempre fatto un uso abbondante degli escamotage comunicativi del Cavaliere per mettere in atto un’opera di convincimento collettivo, ammiccando alle telecamere e parlando a un pubblico più che a un popolo. Gli stessi elettori del Pd si sono fatti trascinare dal suo entusiasmo con la giustificazione che “Renzi ha carisma, Bersani e Cuperlo no”. Dopo l’ubriacatura dei primi mesi, il suo carisma si è però rivelato come pura retorica liberista gestita da ottimi social media manager.
Bisogna ammettere che Renzi ha dalla sua anche argomentazioni valide: il suo governo – compresa l’appendice guidata da Paolo Gentiloni – è stato tra i migliori della Seconda Repubblica. Non che ci volesse molto, considerando gli altri contendenti, ma ha comunque preso un Paese in crisi e l’ha lasciato con tutti i parametri economici in crescita. Pil, pressione fiscale, Spread sono tutti indicatori che con i precedenti governi hanno visto il segno rosso, e con il successivo esecutivo gialloverde sono tornati oltre i livelli di guardia. Renzi è riuscito anche a far passare alcune leggi timidamente progressiste come le unioni civili, il Dopo di noi e quella sul biotestamento. Restano però le macchie dell’alleanza con Alfano e Verdini, la mancanza di coraggio sullo Ius Soli e l’abolizione dell’art.18, oltre a una riforma scolastica che poteva essere fatta meglio e all’insensata personalizzazione del referendum che ha decretato la fine della sua esperienza a Palazzo Chigi.
Il problema di Renzi è sempre stato quello di non aver abbracciato fino in fondo gli ideali e la storia del suo (ex) partito. L’immagine di Pierferdinando Casini nella storica sede del Pd di Bologna, sotto la fotografia di Gramsci, è emblematica di una stagione politica caotica e del disorientamento che gli elettori di sinistra hanno provato per tanti, troppi anni, fin quando non hanno migrato verso altri lidi. Se l’operaio si è trovato a votare Lega al Nord e M5S al Sud, significa che le politiche renziane hanno tralasciato quella fetta di popolazione che un tempo era il bacino elettorale della sinistra. Non ha senso nel 2019 affidarsi a slogan da tovarish e sventolare in piazza bandiere con falce e martello. Nessuno ha chiesto a Renzi cose simili, ma resta la sua colpa di aver trasformato il Pd in una copia di Forza Italia spostata verso il centro. Non a caso la nuova avventura politica di Renzi virerà verso quella direzione, nelle praterie lasciate libere dagli orfani di Silvio e, ancora prima, di Casini, Mastella e della Democrazia Cristiana.
La speranza è che il Pd possa finalmente ripartire da zero, sfruttando l’addio di Renzi per mettere la parola fine al tradimento della sua identità che ha messo in fuga buona parte del suo elettorato. Derenzizzare il partito non vuol dire, però, tornare a quello che c’era prima di lui, a una classe dirigente che Nanni Moretti definiva inadeguata già nel 2002 e non è praticamente cambiata nei successivi diciassette anni. Sono le stesse facce che non sono state in grado di arginare il berlusconismo per un ventennio, che hanno seguito la strada delle scissioni anno dopo anno, fino a perdere ogni apparenza di coesione e progetto comune. Il rinnovamento del Pd dovrà partire proprio dai protagonisti chiamati a metterlo in pratica. Perché non tutto il “nuovo” ha la strafottenza del Renzi di turno. Per il governo, il futuro è una sfida ancora più impegnativa: da un lato ha il fiato dei renziani sul collo, con la consapevolezza che il destino dell’esecutivo dipenderà da lui e dai suoi parlamentari; dall’altro ci sono due leader come Zingaretti e Di Maio che sembrano non avere il polso della situazione. Adesso però l’avventura di Renzi nel Pd è finita davvero e non si torna indietro. È stata una rottamazione fratricida, un fraintendimento durato anni, il tentativo di rendere il partito qualcosa che non è e che non sarà mai. Renzi potrà modellare la sua creatura politica in disparte, rincorrendo i sondaggi e magari attirando tra le sue fila qualche forzista. Il centrosinistra, intanto, torni a fare il centrosinistra e la pianti di inseguire i due Matteo su battaglie politiche che certamente perderà.