E dunque ieri sera Matteo Renzi – quello che si era dimesso da segretario del PD, dopo la batosta elettorale – era in prima serata su Rai 1, intervistato da Fabio Fazio. Matteo Renzi, che in teoria nel suo partito non ricopre più nessun incarico, a Fabio Fazio non ha raccontato le sue avventure di senatore del collegio di Scandicci, ma ha spiegato che un confronto con Di Maio lo farebbe con lo streaming. Poche ore prima, sul Corriere, lo stesso Di Maio aveva pubblicato una letterina-ultimatum in cui i punti salienti di un eventuale accordo si leggevano con chiarezza: reintroduzione dell’articolo 18, assunzione di 10mila nuovi agenti di polizia, ridiscussione del trattato di Dublino, del Fiscal Compact, eccetera eccetera. Proposte senz’altro discutibili, probabilmente non tutte attuabili, ma in un qualche modo concrete. Matteo Renzi non le ha discusse: Matteo Renzi ha spiegato che gli piacerebbe di nuovo fare il gioco dello streaming. Quella deriva da reality show per cui, giustamente, una volta si ironizzava sui Cinque Stelle. E infatti loro hanno smesso: adesso hanno un altro tono, mettono proposte nero su bianco, insomma a loro modo stanno crescendo. Matteo Renzi invece vuole lo streaming. Probabilmente ha già preparato qualche frase memorabile, qualcosa di immediatamente hashtaggabile, come “Beppe esci da questo blog!” Forse ve lo ricordate. Forse no.
Però continuiamo pure a fare ironia sul Movimento 5 Stelle perché è un partito che nasconde dietro gli streaming una struttura di potere sostanzialmente opaca. Mica come il Pd, un partito che elegge i suoi rappresentanti in modo autenticamente democratico.
Ma insomma, ieri sera Matteo Renzi – quello che un mese fa aveva detto che sarebbe rimasto zitto per due anni – è andato in prima serata e in sostanza ha fatto a pezzi qualsiasi speranza di un accordo tra M5S e Pd. Certo, la decisione non spetta a lui, ma al massimo alla direzione del partito, che si deve ancora democraticamente riunire perché è gente che lavora e doveva organizzarsi per il ponte (così ha spiegato il presidente del Pd, Orfini).
In realtà la direzione avrebbe dovuto riunirsi più di una settimana fa, ma i renziani hanno fatto democraticamente saltare l’appuntamento non si sa bene perché: si sa solo che il senatore Matteo Renzi ha chiesto al reggente Martina di farla posticipare. Tutto questo accade forse perché Matteo Renzi pensa che dopo aver detto no a Fico e Di Maio non si potrà che tornare alle urne: e nelle urne lui non sa cosa potrebbe succedere. Perlomeno, a Fazio ha spiegato così. Ovvero, di sondaggi ne sono stati pubblicati parecchi, e benché sia necessario sempre premettere che in Italia non ci beccano mai, bisogna dire che sono tutti concordi su un fatto: Lega e M5S stanno crescendo, anche se litigano. L’unico momento in cui il M5S è apparso in flessione è quando per un attimo è sembrato credibile un accordo di governo con il Pd. I sondaggi sono concordi, ma il senatore di Scandicci Renzi non è così sicuro. Magari se si rivota a ottobre vince lui, o magari non va così male come l’ultima volta. Cosa ha da perdere in fondo, riproviamo.
Nel frattempo si va avanti a canzonare il M5S, continuando a prospettarlo come un movimento guidato da improvvisatori che non capiscono quanto sia grave la situazione, quanto sia pericoloso rimanere in questo orizzonte di instabilità.
Ieri sera Matteo Renzi, probabilmente a titolo personale, ci ha spiegato che tutto questo non sarebbe successo se gli italiani non gli avessero ammazzato la riforma costituzionale col referendum: ed effettivamente ora avremmo 21 sindaci in Senato, il Cnel sarebbe stato chiuso, le province sarebbero state cancellate dal testo costituzionale, e poi?
Sempre ieri sera Matteo Renzi ci ha spiegato per l’ennesima volta che secondo lui bisognerebbe eleggere un governo come si eleggono i sindaci: col ballottaggio. In una sola affermazione in sostanza Renzi ha dimostrato:
- Che non ha ancora smesso di rimproverare gli italiani per non aver capito il referendum del 4 dicembre del 2016;
- Che insiste a confondere la riforma costituzionale (che non prevedeva il ballottaggio) con la legge elettorale, l’Italicum, che non gli è stata bocciata dagli italiani col No al referendum, ma dalla Corte Costituzionale;
- Che non ha ancora capito che se la Corte Costituzionale si è pronunciata, c’era qualcosa di profondamente sbagliato nell’Italicum; che se la tua idea di democrazia è attribuire un cospicuo premio di maggioranza a chi vince un ballottaggio a livello nazionale, la tua idea di democrazia è il presidenzialismo; e non ci sarebbe neanche niente di male: salvo che l’Italia è una repubblica parlamentare. Può una repubblica parlamentare diventare presidenziale? Alla Francia per esempio con De Gaulle è successo, ma c’è voluto un mezzo colpo di Stato. Non è che puoi semplicemente introdurre la cosa con una legge elettorale e lamentarti perché gli italiani non ti capiscono. In questo caso, più che gli italiani, sono stati i giudici della Consulta: Matteo Renzi, in tv, finge di non essersene accorto. Matteo Renzi, in prima serata, se ne va due anni dopo a spiegare che secondo lui bisognerebbe eleggere il Sindaco d’Italia. Matteo Renzi, segretario dimissionario di un partito allo sbando, rifiuta di capire che in Italia il Presidente del Consiglio, e il Consiglio intero, lo nomina il Presidente della Repubblica, e che questa semplice cosa non se l’è inventata un D’Alema cattivo, ma sta scritta nella Costituzione. È l’articolo 92: non era tra quelli toccati dalla riforma Boschi.
Però diciamo pure che i grillini non capiscono la Costituzione, loro: volevano introdurre il vincolo di mandato! Invece Renzi, in tv, dopo aver perso le elezioni, ci ha spiegato in prima serata che il Pd non può entrare in un governo perché il governo lo devono fare i partiti che vincono. Il che ci costringe a rileggere tutta la storia della repubblica italiana sotto una luce diversa: com’è possibile che il Partito Liberale entrasse nelle maggioranze col 3% mentre il Partito Comunista restava fuori col 30%? O non avevano capito come funzionava la democrazia parlamentare, o non lo ha capito Matteo Renzi. È un vero peccato che non fosse già in circolazione ai tempi per insegnare il mestiere a De Gasperi, ad Aldo Moro. Nel frattempo i suoi sostenitori si sbracciano su Twitter con l’hashtag #SenzaDiMe. Non solo i semplici attivisti: anche sottosegretari. Durante una complessa trattativa per formare un governo, lanciano gli hashtag. Ma prendiamocela pure con il M5S perché tutte le proposte le vuole far votare mediante quella buffa piattaforma Rousseau.
Ironizziamo su di loro anche perché Fico si ostina ad andare a piedi invece che in auto blu; certo, Renzi quando andò al governo le auto blu le vendeva su eBay. Denunciamo ad alta voce il pericolo che costituisce per la democrazia un partito-azienda gestito da una srl, senza nessuna garanzia di democrazia interna: un partito che fornisce ai suoi adepti un kit di attrezzi e appena sgarranno li epura senza pietà, sicché è sempre rimasto saldamente in mano alla famiglia che lo ha fondato. Come si fa ad allearsi con un partito del genere, si domanda Matteo Renzi, che nel 2014 formò un governo con Forza Italia, il partito-azienda di Silvio Berlusconi?
Può darsi che al Pd non convenga davvero sostenere un governo col M5S. Può darsi che finirebbe in breve per ritrovarsi come il partner più ragionevole di una coppia instabile: quello che cerca di far quadrare i conti, di prevenire i casini, e quando non ci riesce deve prendersi tutte le responsabilità. Fino a qualche settimana fa ne ero convinto. Ma hashtag dopo hashtag, teatrino dopo teatrino, onestamente comincio a chiedermi se il Pd sarebbe davvero, in una coppia del genere, il partner più ragionevole. Un partito che si ostina a farsi dettare la linea, in tv, da un segretario dimissionario che continua a levarsi, in tv, i sassolini di una campagna referendaria che ha perso ormai due anni fa. Non era semplice far sembrare Di Maio e Fico, per contrasto, due statisti. Non era semplice, ma qualcuno si sta davvero impegnando.