Mercoledì 13 gennaio Matteo Renzi ha convocato una conferenza stampa dalla Camera dei deputati per ritirare i rappresentanti di Italia Viva (Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto) dal secondo esecutivo Conte, aprendo di fatto la crisi di governo. A sostegno della sua scelta, il leader di Italia Viva ha citato diverse volte la parola democrazia. Per Renzi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe minato le fondamenta della Repubblica con le comunicazioni in diretta sui social media e l’uso di Dpcm e decreti-legge come principale strumento legislativo. Durante l’ora della conferenza stampa, e poi nel suo successivo discorso in Senato, Renzi si è auto nominato strenuo difensore di una democrazia fragile e sotto assedio, che ha bisogno di qualcuno che ne tuteli i principi cardine: il rispetto dello stato di diritto, la trasparenza, il rispetto della dignità e dei diritti di tutti i cittadini. Nella sua narrazione, quel qualcuno è proprio lui.
Non si può negare che un dibattito sulle istituzioni e le condizioni della democrazia italiana sarebbe assolutamente necessario. Ciò che disturba è che questo appello arrivi proprio da Matteo Renzi. Lo stesso che, quando era premier aveva inaugurato la rubrica #MatteoRisponde su Facebook e Twitter per rivolgersi direttamente ai cittadini italiani. Lo stesso che, seguendo una deriva in corso da anni da parte di governi tanto di destra che di sinistra, ha utilizzato in maniera sistematica lo strumento del decreto legge sostituendolo alla legislazione ordinaria, sminuendo così il ruolo del Parlamento. Secondo uno studio di Openpolis, il 65% delle leggi approvate durante il governo Renzi sono appunto decreti legge.
L’attitudine democratica di Renzi non sembra tanto un valore assoluto, quanto uno strumento retorico da utilizzare nel momento più utile. Questa contraddizione è emersa con chiarezza negli ultimi giorni: poco prima dell’inizio delle consultazioni del Presidente della Repubblica con gli esponenti delle varie forze politiche, il leader di Italia Viva ha trovato il tempo per volare a Riad, la capitale dell’Arabia Saudita, per tessere l’elogio del principe ereditario della monarchia che governa il Paese, Mohammed Bin Salman (noto con l’acronimo Mbs).
Mbs ha spesso occupato le prime pagine dei giornali internazionali come volto di uno dei regimi attualmente più brutali del Pianeta per quanto riguarda la gestione del dissenso interno e la condizione femminile. Il caso Jamal Khashoggi, il giornalista saudita assassinato da agenti di Riad nell’ambasciata saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018, rappresenta soltanto l’esempio mediaticamente più eclatante: come spiegato da un report di Amnesty International, nonostante alcune timide riforme degli ultimi anni (come la possibilità di viaggiare senza un tutore maschile o prendere la patente) le donne rimangono sistematicamente discriminate e senza alcuna protezione di fronte a violenze sessuali e domestiche. Mbs ha aumentato la repressione per quanto riguarda la libertà di espressione, di associazione e riunione dei suoi sudditi. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, l’Arabia Saudita è uno dei Paesi al mondo con più giornalisti in carcere, con le autorità accusate di eseguire le condanne in modo sbrigativo e senza processi ufficiali. Il regime saudita è anche responsabile della repressione verso la minoranza sciita del Paese, repressione che in politica estera si traduce nello scontro decennale con l’Iran per l’egemonia sulla regione mediorientale. L’ultimo capitolo di questo scontro è la guerra in Yemen: fortemente sostenuta dal principe Mohammed Bin Salman, il conflitto è una delle più gravi catastrofi umanitarie degli ultimi anni, con quattro milioni di sfollati, più di 100mila morti a partire dal 2015 (ma le stime delle Nazioni Unite salgono a più 200mila), cinque milioni di persone che soffrono la fame e due milioni di bambini che necessitano di cure a causa della malnutrizione acuta. Nonostante questo, l’Italia ha finora intessuto buoni rapporti con l’Arabia Saudita, soprattutto per l’export di armi. Proprio una decina di giorni fa, il ministro degli Esteri Di Maio firmava con Mbs e con il Ministro degli Affari esteri Faisal bin Farhan Al Saud un Memorandum per l’avvio del dialogo strategico bilaterale fra i due Paesi. Arriva oggi, invece, la notizia che il governo ha bloccato le forniture militari proprio per il coinvolgimento dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, “un atto doveroso” secondo Di Maio.
Renzi ha raggiunto l’Arabia Saudita il 28 gennaio come membro dell’advisory board del Future Investment Initiative, un forum internazionale organizzato dal Pif (Public Investment Fund), il fondo sovrano dell’Arabia Saudita che gestisce i principali investimenti del Paese e vanta un capitale di circa 400 miliardi di dollari. Le attività di consulenza presso multinazionali e potenze straniere non sono una novità per diversi ex leader mondiali: finito il suo mandato, l’ex cancelliere tedesco Schroeder ha ricoperto incarichi di rilievo presso l’azienda energetica russa Rosneft e la banca di investimento Rothschild. Tony Blair, l’ex primo ministro britannico, ha fondato l’istituto di consulenza Tony Blair Institute for Global Change, intessendo relazioni milionarie proprio con l’Arabia Saudita. La differenza fondamentale tra Schroder e Blair e Renzi è però che i primi due hanno svolto le loro attività una volta ritirati dalle cariche pubbliche. Renzi, invece, in apparenza noncurante del conflitto di interessi che queste attività comportano, come riporta il quotidiano online Domani riceve denaro e fornisce consulenze a un Paese straniero mentre siede al Senato ed è leader di una forza politica che ha dimostrato di avere un grande peso per la tenuta del governo.
Il tema della conferenza del Future Investment Initiative a cui ha partecipato Renzi era “The Neo-Renaissance”, ovvero il nuovo Rinascimento. Un richiamo al piano di rinnovamento strategico dell’Arabia Saudita ribattezzato Vision 2030. L’obiettivo di Mbs è modernizzare il Paese attraverso la diversificazione dell’economia e lasciandosi alle spalle un sistema basato sullo sfruttamento delle riserve petrolifere. Il piano prevede il rafforzamento in settori chiave come l’educazione, la sanità, le infrastrutture e l’apparato militare, aprendo ancora di più alle relazioni con l’esterno e agli investimenti esteri, ma procedendo con aperture molto limitate riguardo ai diritti umani. È in questo contesto che si situa l’intervista di Renzi al principe saudita Mohammed Bin Salman: per celebrare il “rinascimento” dell’economia saudita è stato scelto un leader politico italiano, un tempo a capo dell’esecutivo (non a caso, Mbs si è rivolto sempre a Renzi con l’appellativo di Mr. Prime Minister) ed ex sindaco di Firenze, riconosciuta a livello internazionale come una delle capitali del Rinascimento italiano, come ha ricordato lo stesso Renzi all’inizio dell’intervista. Il ruolo di Renzi sembra quindi studiato per rafforzare il soft power saudita, funzionale per legittimare sulla scena internazionale Mbs in vista di una sua futura salita al trono e a rafforzare la narrazione del “Rinascimento” che aspetta il Paese sotto la sua guida.
Ascoltando l’intervista si comprende subito come si tratti di una scena costruita a tavolino per celebrare il regime saudita. Renzi elogia la gioventù della popolazione saudita (oltre il 65% di under 35), la capacità di investimento e di innovazione del Paese e il dinamismo di Riad. Scherza paragonando il costo del lavoro della capitale saudita a quello italiano, tralasciando che un reddito medio di 23mila dollari l’anno è garantito anche dallo sfruttamento sistematico dei lavoratori immigrati, come denunciato in un report dello Human Rights Watch. L’intera conversazione tra Renzi e Mbs si riduce a un’occasione per illustrare i risultati raggiunti dall’Arabia Saudita, sorvolando sistematicamente sulla violazione dei diritti umani, di libertà di espressione e una società tradizionalmente patriarcale che non sembra scuotere la vocazione femminista dichiarata da Renzi in diverse occasioni.
Renzi ha associato la sua persona e il ruolo istituzionale che ricopre in Parlamento alla narrazione di uno dei regimi più repressivi del Pianeta. Mentre il governo italiano prende una decisione importante, bloccando le forniture militari che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti utilizzano anche contro i civili in Yemen, Renzi ha prestato il suo volto per la propaganda di Riad. Se il leader di Italia Viva avesse la dignità e la coerenza democratica che spesso evoca nei suoi discorsi, ora dovrebbe chiudere ogni rapporto con l’Arabia Saudita fino al suo ritiro dalla vita politica del Paese, oppure dimettersi dalla carica di senatore. Questo dovrebbe essere il minimo per chi negli ultimi mesi si è auto proclamato paladino della democrazia italiana.