
L’8 e il 9 giugno, in tutta Italia, si voterà per i cinque referendum abrogativi: quattro quesiti, promossi dalla CGIL, riguarderanno i diritti dei lavoratori, la precarietà e la sicurezza sul lavoro; il quinto la cittadinanza e i tempi per ottenerla. Raggiungere il quorum del 50%+1 degli aventi diritto al voto – pari a circa 25 milioni – è fondamentale per la validità delle consultazioni. In un Paese in cui la presidente del Consiglio dichiara molto apertamente che si recherà alle urne senza ritirare le schede, un gesto che equivale a un’astensione, e il presidente del Senato, insieme ad altri esponenti della maggioranza, invita a non votare, è essenziale informare e informarsi, parlare con chi è indeciso o non sa nulla a riguardo, per esercitare al meglio la democrazia. Anche perché il boicottaggio da parte del governo del referendum è passato anche proprio per la mancanza di informazioni, tanto che l’AGCOM ha emesso un provvedimento di richiamo nei confronti della Rai e di tutte le emittenti televisive e radiofoniche nazionali affinché venisse offerta ai cittadini “un’informazione corretta, imparziale e completa sui quesiti referendari e sulle ragioni a sostegno delle opzioni di voto”. Cosa che non è avvenuta, essendo il referendum stato oggetto solo dell’1% del tempo in telegiornali e talk sulla rete pubblica.
Attualmente, secondo le rilevazioni di Ipsos pubblicate sul Corriere a inizio maggio, la possibile affluenza al referendum sfiora il 38%, con una netta prevalenza di “Sì” su tutti i quesiti. La sfida di ostacolare il voto non è così complessa, considerato che negli ultimi 25 anni solo il referendum del 2011 sull’acqua pubblica è stato ritenuto valido grazie al raggiungimento del quorum. Per far sì che le cose cambino davvero, però, è essenziale raggiungerlo anche questa volta. Non possiamo far finta che tutto questo non ci riguardi: riguarda non solo noi, ma anche il futuro del Paese, delle nuove generazioni. È un messaggio chiaro anche verso il governo Meloni: la partecipazione è resistenza, sui diritti non si arretra. Ecco perché comprendere al meglio le conseguenze di ciò che siamo chiamati a votare ci aiuta a esprimerci al meglio, a non essere governati dal disinteresse.
Il primo dei quattro quesiti sul lavoro ha a che fare con i licenziamenti illegittimi e punta a eliminare una parte del Jobs Act, l’insieme delle misure e dei provvedimenti normativi voluti dal governo Renzi tra il 2014 e il 2016 per – idealmente – raggiungere una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, riformandolo per far crescere l’occupazione, ma che ha finito per avere un impatto positivo limitato e minore rispetto a quanto promosso, aumentando in diversi casi più la precarietà che la stabilità dei lavoratori. Con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 in caso di licenziamento illegittimo non hanno diritto al reintegro nel proprio posto di lavoro – anche se un giudice dovesse evidenziare la mancanza di una giusta causa. A oggi sono più di 3 milioni e 500mila le persone colpite da questa norma, che resterebbero con tutele parziali nel caso si ritrovassero immotivatamente senza lavoro, e il numero è destinato a crescere. La legge, infatti, esclude il reintegro anche nel caso in cui il giudice accerti che il licenziamento sia ingiusto e privo di fondamento. L’eventuale vittoria del “Sì” riporterebbe le cose a come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori era stato modificato dalla legge Fornero del 2012, aumentando il numero dei casi in cui i lavoratori licenziati ingiustamente possono ottenere il reintegro, che erano stati invece ridotti dal Jobs Act. È vero che il numero di mensilità massime dell’indennizzo verrebbe ridotto da 36 a 24, come sostiene il fronte contrario, ma mentre prima il risarcimento costituiva la principale soluzione adottata, oggi la Corte Costituzionale ha capovolto l’impianto, convertendolo in un rimedio residuale ed elevando invece la reintegrazione a provvedimento generale.
Il secondo quesito chiede maggiori tutele economiche per i lavoratori delle imprese con meno di 16 dipendenti. Il testo, infatti, riguarda l’eliminazione del tetto massimo all’indennità prevista nei licenziamenti nelle piccole aziende, quelle con meno di 16 dipendenti: una lavoratrice o un lavoratore, al momento, può ottenere al massimo sei mensilità di risarcimento anche quando il giudice riconosce che il licenziamento è del tutto infondato. Questa condizione espone circa 3 milioni e 700mila dipendenti a una forte situazione di ricatto e precarietà, soprattutto considerato che in Italia le piccole e medie imprese costituiscono il 95% del tessuto lavorativo nazionale. L’obiettivo del “Sì” è quello di rafforzare le tutele, eliminando il limite delle sei mensilità e permettendo al giudice di stabilire l’entità del risarcimento senza limiti predefiniti, in totale libertà e in modo equo. Al lavoratore resterebbe comunque la necessità di provare il danno subito, quindi il rischio secondo cui la sentenza potrebbe stabilire una somma sproporzionata che metta in difficoltà l’impresa appare largamente infondata.
Il terzo quesito mira a modificare le attuali regole sui contratti a termine per contrastare in modo efficace la diffusione del precariato. In Italia, circa 2 milioni e 300 mila persone lavorano con un contratto a tempo determinato, che oggi è possibile attivare per un periodo fino a 12 mesi senza dover indicare alcuna motivazione oggettiva. Solitamente, quello a tempo determinato è un contratto che dovrebbe essere impiegato solo per coprire le esigenze di un determinato periodo, per esempio quando serve sostituire temporaneamente una dipendente in maternità – nonostante essere madri costituisca ancora un grande impedimento per la carriera delle donne, spesso licenziate immotivatamente o demansionate – o comunque se si hanno particolari esigenze aziendali che si prevede siano temporanee. Dal canto suo, chi fa impresa sostiene che una certa flessibilità sia necessaria, perché non sempre è possibile definire a priori la durata di un certo bisogno, mentre secondo CGIL la possibilità di non inserire una causale ha portato molte aziende ad abusare di questa forma contrattuale, aumentando la precarietà. Se il quesito venisse approvato, il datore di lavoro sarebbe così obbligato a specificare fin da subito la ragione per cui sceglie di assumere una persona con un contratto a tempo determinato anziché con uno a tempo indeterminato, che dovrebbe costituire la forma più comune e non un’eccezione.
Il quarto intervento per cui siamo chiamati a votare riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, e propone di estendere la responsabilità dell’impresa committente – cioè che commissiona un lavoro o un servizio – per assicurare più tutele economiche e giuridiche ai lavoratori in caso di infortuni negli appalti. In Italia, negli ultimi tempi, si sono registrate in generale oltre 400mila denunce di infortunio all’anno, mentre tra il 2021 e il 2024 più di quattromila persone hanno perso la vita sul lavoro, oltre mille nell’ultimo anno. Significa, in media, tre lavoratrici o lavoratori ogni giorno. La legge del 2008 in materia prevede che in caso di appalto la ditta committente sia responsabile solo degli incidenti che avvengono su mansioni su cui ha possibilità di intervento e controllo, mentre la vittoria del “Sì” estenderebbe questa responsabilità. Secondo CGIL e gli altri promotori del referendum, intervenendo sul tema si limiterebbe il ricorso a ditte spesso non in regola con le norme sulla sicurezza, che propongono costi minori proprio perché tagliano su quest’ultima, aumentando in generale l’attenzione sugli infortuni sul lavoro.
Oltre ai quattro quesiti sul lavoro, il referendum dell’8 e del 9 giugno ne prevede un quinto a tema cittadinanza. La questione è stata promossa dal deputato di +Europa Riccardo Magi, per poi ottenere il sostegno di numerosi altri partiti e associazioni e il sostegno di una forte mobilitazione online, pari a 637mila firme. La proposta coinvolgerebbe potenzialmente tra 1 milione e 700mila persone straniere, come stimato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, che è partito dal numero di soggiornanti non Ue titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata in Italia e vi ha intrecciato altri elementi come la provenienza da Paesi che non riconoscono la doppia cittadinanza, e i 2,5 milioni, come sostenuto dai promotori. La vittoria del “Sì” ridurrebbe semplicemente i tempi di residenza necessari per poter diventare cittadini italiani, da 10 a 5, mentre resterebbero in vigore gli altri criteri fondamentali: dimostrare una conoscenza dell’italiano di livello almeno intermedio (B1), attraverso prove di ascolto, comprensione di testi scritti e produzione scritta e orale; avere un reddito minimo lordo di 8.263 euro all’anno; non possedere precedenti penali. Senza voler rispondere a chi sostiene il fronte del “No” perché la cittadinanza sarebbe un merito tramandato dal fatto che i nostri nonni abbiano combattuto “per i confini del Paese” o a chi afferma che “regalare” la cittadinanza ci porterebbe a essere sempre più sostituiti dai migranti, anche nel lavoro – come se, a prescindere dalle loro competenze, non fossero già sfruttati per svolgere lavoro povero e sottoqualificato –, uno dei pilastri del fronte contrario è l’idea che l’Italia rilasci già un alto numero di cittadinanze. Questa ipotesi, però, non tiene conto di due fattori: le persone straniere già da decenni in Italia, che hanno potuto presentare domanda solo recentemente, e le richieste di naturalizzazione di lontani discendenti di emigranti italiani, la cui norma è stata rivista solo recentemente.
Non solo negli altri grandi Paesi europei la richiesta per la cittadinanza ha tempi molto più brevi dei nostri, ma la vittoria del “Sì” riporterebbe la normativa alle regole precedenti alla modifica dell’articolo 9 della legge 91 del 1992, che già prevedeva un tempo di residenza pari a cinque anni. I tentativi di riformare la cittadinanza sono stati diversi e questo rappresenterebbe solo un piccolo passo, considerato anche che i tempi burocratici sono spesso infiniti, tanto che le procedure durano di solito tre anni dalla richiesta. Ridurre i tempi di permanenza renderebbe più semplice la vita a molti cittadini stranieri residenti stabilmente in Italia che oggi, pur studiando, lavorando e contribuendo con le tasse alla crescita del Paese, non godono degli stessi diritti riconosciuti ai cittadini italiani, ma sono anzi più soggetti a controlli e fanno più fatica a trovare abitazioni in affitto o lavori stabili. Aiuterebbe anche i loro figli minori nati nel Paese, permettendogli di acquisire la cittadinanza italiana dai genitori anziché dover attendere di compiere 18 anni per poterla richiedere.
I cinque quesiti a cui siamo chiamati a votare sono una questione di giustizia sociale, per cercare di riequilibrare i rapporti di potere tra dipendenti e datori di lavoro, per dotare della cittadinanza e dei relativi diritti chi non dovrebbe fare tutta questa fatica per ottenerla, ma sono anche un tema di saper guardare al futuro. “[I quesiti del referendum] Sono tutti modi per contrastare la precarietà, arginare lo strapotere dei capi d’azienda, e allo stesso tempo per aumentare le tutele dei lavoratori, smettendo di scaricare solo su di loro il rischio di incidenti e infortuni”, sostiene la sociologa Francesca Coin. “Anche ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale per ottenere la cittadinanza italiana ha a che fare con il lavoro, non è solo una questione di civiltà. È un intervento necessario per ridurre la ricattabilità dei lavoratori stranieri e contrastare una spinta al ribasso nei salari che riguarda tutti”.
Andare a votare è fondamentale, convincere tutti a farlo anche. Il silenzio, l’astensionismo, fanno solo il gioco del potere e non possiamo permettercelo. Chi oggi dà per scontati i propri diritti dimentica che sono il frutto di battaglie e sforzi collettivi e che, come ci ricorda continuamente il presente, non possono mai essere dati per conquistati per sempre. “Al mare” vorremmo andarci anche noi, come coloro che boicotteranno il referendum affermando che domenica e lunedì saranno in spiaggia o a fare aperitivo. Ma vorremmo andarci con più diritti e maggiori tutele. Basta poco per perderli, o per non guadagnarne di nuovi. Gli ultimi decenni ci hanno convinto che nulla sia abbastanza per cambiare davvero le cose, ma non possiamo arrenderci a questa disillusione. La democrazia è partecipazione, è esserci, per noi e per gli altri. E l’8 e il 9 giugno non possiamo essere da meno.
