Se questo governo è stato eletto lo si deve ai due temi che hanno tenuto banco durane la campagna elettorale: immigrazione e lavoro. La prima è stata affrontata durante l’estate, quando l’opinione pubblica era terrorizzata dalla presunta invasione migranti. Ora, invece, è giunto il momento della partita decisiva: predisporre il reddito di cittadinanza, la principale promessa dei pentastellati. A differenza dei migranti pronti a invadere l’Occidente sovrano, stavolta le file dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento saranno reali. Così come i fantomatici 780 euro da erogare ogni mese. Non è più tempo di scherzare, eppure il governo non sembra avere le idee molto chiare.
Innanzitutto va chiarito che chiamarlo “reddito” significa usare un termine improprio. Perché il reddito di cittadinanza è più simile a un buono spesa. I soldi non saranno erogati in forma fisica, ma accreditati su carta di credito o – come si vociferava in un primo momento – su tessera sanitaria. Potranno essere usati per comprare beni di prima necessità e quindi saranno spendibili solo per la sussistenza. Non per i “consumi immorali”, come il gioco d’azzardo. E il premier Conte ci ha svelato un altro importante dettaglio, ovvero che non saranno cumulabili: “Se in un mese non vengono spesi tutti, il mese successivo si riparte comunque da 780 euro. L’obiettivo è spingere le persone a comprare ciò che è necessario rimettendo in moto l’economia locale.”
L’aspetto più controverso del reddito di cittadinanza in salsa italiota sono le criticità sui presunti beneficiari. Innanzitutto si rivolge a una platea molto ristretta: le coperture sono sufficienti a soddisfare solamente una parte dei poveri assoluti, selezionati in base all’Isee. I “fortunati” saranno scelti tra chi ha un reddito annuo inferiore a 9mila euro, senza casa di proprietà (che decurta il reddito a 380 euro) e residenti in Italia da almeno dieci anni. In accordo con la linea nazionalista dell’esecutivo infatti, il disegno di legge cerca di eliminare in maniera chirurgica l’eventualità che siano gli stranieri a rientrare nei parametri indicati. Ma, ironia della sorte, non tutto può essere previsto alla perfezione: si stima che sul territorio italiano vivano fra i 120mila e i 180mila cittadini di origine rom e sinti, il 50% dei quali sono italiani. C’è chi si sta già lamentando: dare il reddito agli “zingari” sarebbe un paradossale scherzo del destino, soprattutto per la componente leghista del governo giallo-verde.
Un’altra questione è che sarà impossibile trovare un lavoro adeguato per tutti coloro che vorranno accedere al reddito. Secondo Di Maio, le persone che verranno raggiunte dalla misura sono 5 milioni. Dovranno impegnare due ore al giorno nella ricerca di un’occupazione, più 8 ore settimanali in lavori socialmente utili non retribuiti. Lo Stato si impegnerà a proporre fino a tre offerte di lavoro congrue al candidato, che ne potrà rifiutare due, se non accetterà la terza verrà escluso dal programma. Il concetto di “lavoro congruo” è molto scivoloso e non si capisce su che parametri si baserà. È probabile che il candidato dovrà accettare un lavoro inferiore alle sue capacità, anche perché un reiterato rifiuto significherebbe perdere i pochi soldi conquistati. Come ci dicono le statistiche, il mercato del lavoro è saturo. Sarà difficile per lo Stato ricollocare tutti senza incentivare le assunzioni con politiche specifiche. A questo si aggiunge il fatto che i lavori selezionati, teoricamente, dovrebbero essere compatibili con le capacità del candidato e con il suo percorso di studi. Specifiche che sarà difficile rispettare, soprattutto nei primi tempi, quando si prevede un grande afflusso di aventi diritto. Con queste premesse è facile ipotizzare che il lavoratore avrà un potere contrattuale pari allo zero: il coltello sarà dalla parte del datore di lavoro, che potrà negoziare a suo piacimento la retribuzione e gli orari, sfruttando lo scenario dei tre rifiuti come una spada di Damocle sulle possibili rimostranze del lavoratore.
Proviamo a immaginare uno scenario verosimile: sei iscritto al programma del reddito da due settimane, ti propongono un lavoro in un fast-food a 6 euro all’ora, rifiuti per amor proprio. Passa un mese e ti propongono un posto da netturbino, anche stavolta rifiuti per gli orari tutt’altro che facili. Vorresti qualcosa che si conciliasse con la possibilità di passare del tempo con la tua famiglia, nel frattempo svolgi le mansioni che ti sono state affidate dallo Stato. Dopo due mesi arriva la terza proposta di lavoro: impiegato nella logistica. Paga da fame e turni massacranti. Di fronte a te hai un bivio: accettare un lavoro al limite dello sfruttamento in un settore molto problematico, oppure rifiutare e azzerare le tue possibilità di rientrare nel reddito in futuro. In entrambi i casi non sei stato aiutato: ti è stata sottratta la facoltà di scelta, e la tua forza lavoro è stata impiegata in modo coatto, a scapito della possibilità di emanciparsi. Finirai a spostare pacchi da un magazzino all’altro, mangiandoti le mani per non aver accettato la prima occupazione dietro le friggitrici.
Appare abbastanza chiaro che il reddito pentastellato non è una misura di welfare, ma piuttosto una contromisura di workfare, volta a ritoccare i dati sull’occupazione. Lo stesso Di Maio ha usato parole da sceriffo, ricalcando la retorica della lotta ai “fannulloni” che ricorda l’appellativo choosy tanto in voga ai tempi della Fornero: “Non darò un solo euro a una persona che vorrà stare sul divano senza fare nulla.” Il vicepremier parla di “patto”, come un insegnante che si pone di fronte a uno studente svogliato: “Con il reddito di cittadinanza facciamo un patto: vai nel centro per l’impiego, dove ti impegni per 8 ore a settimana nei lavori utili e intanto ti devi formare per un lavoro. Passi la giornata così, poi ti faccio tre proposte di lavoro. Se le rifiuti, perdi il reddito, se le accetti, perdi il reddito.”
Di primaria importanza sarà la riforma dei centri per l’impiego, dei 10 miliardi stanziati per la manovra, 9 andranno a finanziare il reddito e uno sarà usato per rammodernare un sistema obsoleto. Secondo i dati solo il 4% dei richiedenti trova un’effettiva collocazione nel mercato del lavoro. I centri per l’impiego mancano di personale, di competenze e di infrastrutture. Pensare che un solo miliardo basti a rimettere in piedi un’istituzione in difficoltà significa credere in una stima davvero ottimista, ma d’altronde anche pensare che 9 miliardi basteranno a sostenere il peso economico del reddito è un’utopia.
Ricapitoliamo: hai fatto la fila all’ufficio collocamento, passi le mattine a mandare curriculum, documentando i tuoi invii come ti hanno detto di fare, il pomeriggio indossi una pettorina fosforescente e pulisci le strade, torni a casa la sera con la paura di dover scegliere fra questo precariato e un lavoro che non ti piacerà. Ma almeno a fine mese potrai mettere le mani su 780 euro. Sbagliato. Perché avrai soltanto i soldi “per comprare il pane”, nel vero senso della parola. Avrai solo quelli, e dovrai spenderli tutti entro fine mese. Non ti è permesso essere un risparmiatore.
In un certo senso si potrà monitorare la “moralità” del cittadino attraverso i suoi consumi, uno scenario di ingegneria sociale che si nasconde dietro la finta promessa di 780 euro. In Cina hanno un sistema simile: si chiama Social Credit System e si basa sul monitoraggio dei consumi e delle interazioni del cittadino. Attraverso un complesso algoritmo il sistema assegna dei punti per il “senso civico” a ciascuno, crediti che possono essere utilizzati in vari modi: da buoni pasto a prestiti agevolati. Dal 2020 questo sistema sarà obbligatorio in tutta la Cina. Sono cosciente che si tratta di una realtà differente dalla nostra, ma è inquietante trovare delle dinamiche di controllo simili anche nel reddito di cittadinanza nostrano. Dieci anni fa la Casaleggio Associati produceva un video in cui spiegava i cambiamenti politico-sociali propiziati dalle nuove tecnologie. Si tratta di una visione securitaria che ha i caratteri della distopia. La misura di workfare del governo giallo-verde potrebbe essere il primo passo verso un controllo che neanche immaginiamo.