Quando ho chiesto a Robert Biedroń, europarlamentare e candidato alle ultime presidenziali in Polonia, che cosa volesse aggiungere a conclusione di una conversazione sullo stato dei diritti umani e civili nel suo Paese, lui mi ha detto: “Citerei Barack Obama: ‘Anche se sembra impossibile, chi ama questa nazione può cambiarla.’”
Nelle parole dell’ex presidente degli Stati Uniti c’è una buona dose di retorica. Allo stesso tempo però rispecchiano il sentimento di tutte quelle persone che nella storia, di fronte a un’ingiustizia – anche se le probabilità di sanarla erano poche e spesso a rischio della vita – sono scese in piazza credendo di avere il potere (e il dovere) di cambiare le cose. A qualche cinico a cui questa può sembrare una descrizione favolistica della realtà, il 2020, nonostante una pandemia e più di un milione di morti, dimostra il contrario: negli Stati Uniti a spingere in strada i cittadini è stato l’ennesimo episodio di razzismo sistemico, in Thailandia un potere monarchico anacronistico e autoritario, in Bielorussia l’arroganza di un governo che fa delle elezioni una messa in scena, in Libano l’esasperazione di un popolo nei confronti di una classe politica paralizzata, a Hong Kong una legge che mette a rischio la libertà di una generazione cresciuta in un sistema più democratico di quello che le si prospetta.
Lotte per i diritti come queste si combattono per strada, a volte anche con mezzi poco ortodossi e violenti se nelle istituzioni non ci sono gli spazi per farlo democraticamente. Forse è il motivo per cui la protesta di piazza ha perso valore agli occhi di chi, dal secondo dopoguerra in avanti, è vissuto in una condizione di generale democrazia e pensa di non averne più bisogno. I diritti, però, non vanno dati per scontati, perché la società cambia e con lei i valori e gli interessi della classe politica. Quello che oggi consideriamo un dato di fatto (il diritto all’aborto, per dirne uno), domani potrebbe essere messo in discussione.
Chi abita nell’Unione europea, da questo punto di vista, è doppiamente tutelato: da un lato le istituzioni nazionali, dall’altro quelle comunitarie. Tra queste, il luogo in cui forse più che in ogni altro vengono difesi i diritti civili, politici e umani degli europei è il Parlamento di Strasburgo. Non è l’unica istituzione a farlo e la sua presenza non toglie valore alle piazze, ma è un avamposto di democrazia che, per quanto lento o migliorabile, a volte tendiamo a sottovalutare. Il 2020 offre un esempio concreto. Quando a luglio il Consiglio ha raggiunto un accordo sul bilancio pluriennale e sul Recovery Fund, subito il presidente dell’Eurocamera David Sassoli ha fatto sapere che Strasburgo, che ha il compito di approvarlo, non avrebbe dato il suo benestare a un patto raggiunto a discapito dei programmi centrali per l’Ue e i diritti dei suoi cittadini. Durante le 90 ore di negoziati, infatti, si è parlato molto di vincolare l’accesso ai fondi comunitari al rispetto del valori fondanti della nostra comunità, ma alla fine nel patto è stato aggiunto solo un vago riferimento alla necessità di tutelare la democrazia. “Un meccanismo che non può nemmeno essere attivato nella pratica, a causa di procedimenti incerti e con potenziali scappatoie, è utile solo agli interessi di chi non desidera vedere nessuna misura in azione”, ha dichiarato il finlandese Petri Sarvamaa, del Partito popolare europeo.
Anche ora che ci avviciniamo alla scadenza per l’approvazione del bilancio, gli europarlamentari non hanno smesso di ribadire la promessa di non cedere di un passo su questo aspetto. Durante la plenaria del 7 ottobre, per esempio, è stata adottata una risoluzione con cui si invocano nuovi e concreti strumenti contro i governi autoritari. Quelli attuali, per il Parlamento, non sono sufficienti e lo dimostrano gli scarsi effetti che hanno sortito sulle politiche dei due Stati membri che da diverso tempo sono sotto osservazione: l’Ungheria e la Polonia.
L’esecutivo di Budapest guidato da Viktor Orbán negli anni ha aumentato il suo controllo sulla magistratura; ha introdotto leggi che limitano il diritto di associazione nella società civile, attaccando Ong e attivisti per i rifugiati con una legge poi definita contraria al diritto comunitario; ha ridotto le tutele per i lavoratori e colpito il mondo delle università ostacolando l’apertura di istituti finanziati dall’estero e incrementando l’influenza del governo sull’Accademia delle scienze (anche questa normativa è stata recentemente dichiarata illegittima). Nel Paese, dal 2018, la stampa è in mano a un gruppo editoriale allineato con l’esecutivo che controlla l’80% dell’informazione pubblica, erodendo gli spazi per le opinioni critiche, mentre la narrativa diffusa contribuisce ad aumentare l’odio verso la comunità Rom, quella Lgbtiq+, i senzatetto, le donne, i rifugiati e i richiedenti asilo.
In Polonia la situazione è simile. Durante l’ultima campagna elettorale, in cui Andrzej Duda ha vinto con un margine piuttosto risicato, il bersaglio principale del suo partito Diritto e Giustizia è stata la comunità Lgbtiq+. Per il primo ministro Mateusz Morawiecki questa è colpevole di minare le fondamenta della società con la sua “barbarie pseudo-intellettuale” e, per Duda, di diffondere un’ideologia “più distruttiva del comunismo”. Sulla base di queste convinzioni in Polonia oggi ci sono circa un’ottantina di comuni che si sono definiti “aree libere da Lgbt” e a cui la Commissione europea ha deciso di tagliare i fondi come forma di sanzione. Non è un caso se per l’osservatorio Ilga-Europe la Polonia è il peggior Paese europeo in cui vivere se non sei un eterosessuale cisgender. Non è solo la comunità Lgbtqi+ polacca a dover rimanere vigile. “I target sono tanti, dipende dall’umore dei membri del governo. Fino ad oggi abbiamo assistito ad attacchi contro le persone disabili, gli insegnanti, il personale medico, gli immigrati, i giudici, i vegetariani e persino i ciclisti”, ci spiega l’europarlamentare polacco Biedroń, “ma soprattutto, abbiamo visto il governo colpire ‘la minoranza’ più grande che esiste, le donne polacche”. Anche secondo Amnesty International, a essere in pericolo nel Paese sono l’indipendenza dei giudici, la libertà di riunione, quella di espressione e i diritti dei richiedenti asilo.
A oggi l’Ue ha a disposizione diversi mezzi per tutelare i cittadini europei da questo genere di abusi – a cui siamo tutti potenzialmente vulnerabili, non solo polacchi e ungheresi. Però si tratta perlopiù di strumenti di monitoraggio che, come ha spiegato l’eurodeputato slovacco Michal Šimečka, non ridaranno “alla magistratura polacca l’indipendenza”, né salveranno “il giornale ungherese Index”. All’osservazione si aggiungono le procedure di infrazione, che possono portare a sanzioni finanziarie o alla sospensione dei diritti di appartenenza all’Unione (come il diritto di voto in Consiglio), ma hanno un grosso limite: vanno approvate all’unanimità. Per questo oggi, con l’approvazione del bilancio 2021-2027 e del Recovery Fund sul tavolo, il Parlamento insiste sull’introduzione di un meccanismo che permetta alla Commissione di bloccare lo stanziamento dei fondi ai Paesi che violano lo Stato di diritto, con poi la possibilità solo successiva da parte del Consiglio di bloccare la misura a maggioranza qualificata. Lo scopo non è quello di tagliare le risorse a iniziative di cui beneficiano direttamente i cittadini, ma dirottarle dai governi alle autorità regionali o alle associazioni locali riconosciute per il loro impegno civile, qualora l’esecutivo in questione non risultasse affidabile.
Il rischio è però che questo genere di misure, per quanto prese nell’interesse dei cittadini, vengano poi strumentalizzate a livello nazionale e fatte passare come “punizioni” dell’Europa. “Diversamente da quanto raccontano i rappresentanti di Diritto e Giustizia”, spiega Biedroń, “noi non vogliamo che le conseguenze di questi tagli ricadano sui cittadini, ma sui governi. Vogliamo proteggerli dall’uso scorretto dei fondi e dalla corruzione. Per troppo tempo abbiamo dato per scontato il rispetto dei valori europei, che poi coincidono con il rispetto dei diritti umani di base. Queste misure potrebbero accrescere il sentimento anti-Europeo? La risposta è sì, ma allo stesso tempo aumentano il sostegno all’Ue in altre parti della società”.
Sia Orbán che Duda, sostenuti anche dai leader di Repubblica Ceca e Slovacchia, hanno fatto sapere che, se dovesse passare la proposta del Parlamento o anche solo quella della Commissione (che è persino meno radicale), sono pronti a far saltare il tavolo sul Recovery Fund e sul bilancio. C’è anche chi sostiene che gli Stati dell’Est potrebbero trovare degli alleati in quelli del Nord Europa, mai del tutto favorevoli al piano per la ripresa. Tuttavia è anche vero che in questo momento nessuno può dire con sincerità di non avere bisogno di un aiuto finanziario per gestire gli effetti economici e sociali della pandemia – nemmeno i Paesi Bassi, che strenuamente e per settimane hanno ostacolato l’approvazione del piano per la ripresa e oggi si ritrovano con più di 7mila nuovi positivi al giorno in un Paese da 17 milioni di abitanti. Questo significa che anche il Parlamento, e in generale coloro che sostengono l’introduzione dei vincoli ai fondi, hanno dalla loro un’ottima leva.
Spesso si dice che l’Unione europea è solo un’unione monetaria a cui gli Stati aderiscono per interesse. In realtà la componente democratica e politica nel cuore delle istituzioni comunitarie è forte, ne ha ispirato la loro stessa fondazione e ha stimolato negli anni riforme fondamentali nei Paesi membri e in chi si candidava a farne parte. Quella che oggi è sul tavolo delle trattative è un’ulteriore occasione per fidarci delle istituzioni europee e dare loro nuovi e più efficaci strumenti per difendere i nostri diritti.