Ci si aspettava qualcosa di più da questa puntata di Un giorno in pretura. Gli elementi per creare uno spettacolo avvincente c’erano tutti: l’accusato che sbandiera il rosario in favore di telecamera, le memorie difensive consegnate in anteprima a Barbara D’Urso, le due tifoserie in piazza, Giulia Bongiorno – già avvocata di Andreotti – ferita da una lastra pericolante in tribunale, la città blindata, persino il countdown su Facebook per alimentare l’attesa. Invece si è rivelata parecchio fiacca, con l’amaro in bocca per il cliffhanger finale che non ha lasciato nemmeno un titolo accattivante per i giornali. La certezza è che Matteo Salvini è riuscito a trasformare il processo a suo carico in un teatrino elettorale.
Catania è ormai da anni l’epicentro della coalizione di centrodestra. Nel 2017 Berlusconi, Salvini e Meloni si ritrovarono nella città etnea per dar vita al cosiddetto Patto dell’arancino: al ristorante Trattoria del Cavaliere i tre politici decisero di sostenere alle elezioni regionali siciliane Nello Musumeci e, soprattutto, di correre insieme alle elezioni nazionali dell’anno seguente. Tre anni dopo, Catania è il luogo del processo che vede coinvolto il leader leghista, accusato di sequestro di persona per non aver fatto sbarcare, quando era ministro dell’Interno, 131 migranti soccorsi dalla nave Gregoretti della Marina militare. Nel luglio del 2019, l’imbarcazione rimase al largo di Siracusa per sei giorni senza essere attrezzata per ospitare a bordo quel numero di persone e così a lungo, causando disagi ai migranti e all’equipaggio. Lo sbarco avvenne solo dopo che alcuni Stati europei e il Vaticano dettero la loro disponibilità ad accogliere i migranti. Dopo la richiesta da parte del Tribunale dei ministri di Catania dell’autorizzazione a procedere contro Salvini, è arrivata questo febbraio l’approvazione del Senato. Il leghista ha immediatamente colto l’occasione e ha cavalcato la vicenda giudiziaria per rafforzare la sua immagine di difensore della patria, l’uomo che “chiude i porti”. Una rappresentazione lontana dalla realtà: mentre teneva bloccate in mare 131 persone stremate, altre migliaia sono sbarcate sulle nostre coste nel corso di pochi mesi.
Arrivati al giorno dell’udienza preliminare, il tridente del centrodestra si è parzialmente riunito a Catania. Berlusconi, alle prese con il Covid, è stato sostituito dal vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani, mentre Giorgia Meloni ha supportato l’alleato di coalizione con un corollario di selfie, caffè vista mare e dichiarazioni perlomeno discutibili che racchiudono tutte le storture del sovranismo in salsa Bannon, e che vanno analizzate per capire meglio la strategia usata da Salvini per indossare le vesti ereditate dagli anni del berlusconismo: quelle del martire.
La leader di Fratelli d’Italia ha inizialmente postato su Facebook una foto con Salvini e Tajani, scrivendo: “È un dovere, ancor prima che un diritto, di qualsiasi ministro, fare ciò che gli chiede la maggioranza degli italiani e difendere le leggi e i confini di questa Nazione”. Punto primo: Salvini non rappresenta la maggioranza degli italiani. Punto secondo: il sovranismo si nutre della creazione di pericoli immaginari per far credere ai cittadini di aver bisogno di protezione. È il gioco della percezione, con l’opinione pubblica che non crede in ciò che vede, ma in ciò che le è stato propinato da personaggi politici che giocano sia sull’identificazione – “sono come voi, posso capirvi”– che sull’elevazione a sergente di ferro – “vi garantisco che sconfiggeremo i nemici”. Per questo una parte degli italiani crede di dover difendere la propria fortezza Bastiani dall’arrivo dei Tartari, e cerca inevitabilmente la sicurezza dell’uomo forte. Matteo Salvini, appunto. Punto terzo: Meloni parla di difendere le leggi e i confini del Paese, ma è proprio il tribunale a doversi esprimere sul rispetto delle leggi, mentre i confini non vanno difesi, considerando che non siamo in guerra e non siamo oggetto di nessuna vera invasione. La muscolarità del Ventennio lasciamola lì, senza far riaffiorare cattivi ricordi.
Meloni ha anche dichiarato alla stampa che “I problemi della politica non si risolvono così, un avversario politico lo devi battere se sei capace con le regole della democrazia. Se invece lo fai sparire in galera, questo succede nei regimi, e io non voglio regimi in Italia”. Detto da chi viene dal Fronte della Gioventù del Msi di Almirante e come capo di un partito composto da elementi che celebrano la Marcia su Roma e la nascita di Mussolini, un’affermazione simile non brilla per coerenza. La questione essenziale è poi che nei regimi gli avversari politici finiscono in carcere, al confino o sottoterra senza un processo, mentre Salvini ha tutti gli strumenti garantiti dalla Costituzione per difendersi. Scandalizzarsi per un processo significa screditare la magistratura, delegittimarla, scavalcare il ruolo dei poteri democratici soltanto per fini di propaganda. Appellarsi al sostegno del popolo, come ha fatto per anni Berlusconi, coincide con una visione distorta della Legge in relazione alla politica, come se lo status di politico popolare garantisse in automatico un’immunità ingiustificata.
Al netto di qualsiasi polemica sull’argomento, Salvini è probabilmente stato il primo a trarre vantaggio da questo processo. Da un lato ha potuto accusare la sinistra di volerlo colpire nei tribunali, riportando in auge vecchi mantra sulle toghe rosse; dall’altro ha ingigantito la sua narrazione di uomo contro i poteri forti, il Capitano vicino al popolo che agisce per il bene della collettività, solo contro tutti. Qualche giorno fa abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione di questo protagonismo, con la sua interpretazione dell’eroe sofferente durante un comizio a Formello, dichiarando di essere presente nonostante febbre e dolori. Resosi conto della pericolosità di queste affermazioni in un periodo di pandemia, il giorno dopo ha smentito se stesso, scrivendo di non aver mai avuto la febbre e attaccando i giornalisti che avevano riportato le sue stesse parole. Dove il desiderio di martirio incrocia la strada della schizofrenia, lì si colloca la narrazione di questa vicenda da parte di Matteo Salvini.
Da questo incipit, Salvini ha creato una strategia basata sul mettere alla berlina un procedimento giudiziario fino a renderlo un pretesto di marketing che ha al centro lui stesso. Siamo passati dalle magliette con la scritta “Processate anche me” all’autocompassione sui social, dalle invocazioni religiose all’invito a una mobilitazione che in questo periodo sarebbe sconsigliabile. Invece i suoi seguaci hanno raggiunto Catania per mostrargli la loro vicinanza. Si temevano scontri con i manifestanti della piattaforma “Mai con Salvini”, ma le autorità catanesi hanno riservato piazze diverse alle due fazioni, e nulla è andato storto. Salvini ha radunato la sua folla davanti al porto, munita di gadget leghisti e un lessico infarcito di slogan salviniani. La stessa che fino a pochi anni fa veniva insultata dalla Lega, con gli esponenti del Carroccio che tifavano per l’eruzione dell’Etna e consideravano i siciliani dei terroni di merda.
Durante i comizi di queste giornate catanesi, il palco di Salvini ha ospitato persino l’inaccettabile retorica di chi rimpiange presunte qualità della mafia locale. È il caso della leghista siciliana Angela Maraventano, ex senatrice della Repubblica che ha dichiarato: “La nostra mafia ormai non ha più quella sensibilità e quel coraggio che aveva prima. Dove sono? Non esiste più, perché noi la stiamo completamente eliminando. Nessuno ha più il coraggio di difendere il proprio territorio”. Il giorno prima Salvini aveva postato su Facebook delle parole di Paolo Borsellino già citate in modo del tutto inappropriato, figuriamoci dopo l’exploit di Maraventano. La verità è che la Lega non sembra proprio avere voce in capitolo per parlare di giustizia, e tutto lo spettacolo imbastito da Salvini per la sua trasferta catanese è lo specchio della mediocrità che caratterizza ogni sua mossa politica, contagiando anche i suoi seguaci. Perché casualmente il 3 ottobre è stata anche la Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, l’anniversario del naufragio del 2013 al largo di Lampedusa, quando persero la vita 368 migranti. Nello stesso giorno e nella stessa regione la destra ha portato in piazza i suoi sostenitori per manifestare a favore di un politico che ha che ha ritenuto corretto tenere bloccate per giorni, su una nave, 131 persone in condizioni estreme, come fossero ostaggi di una strategia che doveva essere ostentata fino al limite. Mai come adesso scegliere di stare dalla parte giusta della Storia è un atto di responsabilità civile.
Come detto, sabato non si è arrivati a nessuna conclusione. La Procura, ed era prevedibile dopo l’originaria richiesta di archiviazione, ha chiesto di nuovo il “non luogo a procedere”, mentre il gup Nunzio Sarpietro ha rinviato l’udienza preliminare al 20 novembre, quando verranno ascoltati Conte, Di Maio e Toninelli, e al 4 dicembre, quando sarà la volta di Trenta, Lamorgese e Massari. Ci attendono altri mesi di spettacolarizzazione di questo caso giudiziario, di campagna elettorale sulla pelle degli ultimi, altre forme di distorsione del significato di giustizia, ormai svilito sotto il peso della propaganda. A prescindere da come finirà questa vicenda, rimarrà lo sdegno per l’approccio della destra italiana alla legge, nonché l’ossessione di Salvini per la speculazione, con il vizietto di prendere un avvenimento – positivo o negativo, purché se ne parli – e usarlo come leva per spargere astio e spingere una parte degli italiani sulle barricate. Perché oltre ai migranti tiene mentalmente in scacco anche gli italiani, e non possiamo più permetterci di andare alla deriva.