Non mi chiamo Nando Pagnoncelli, e fin qui ci siamo, eppure mi è venuta la curiosità di porre a delle persone a caso alcune domande su Giorgia Meloni. Un campione limitato, limitatissimo: dieci persone; tra i venti e i settant’anni, sei uomini e quattro donne di diversa estrazione sociale; e nessun preconcetto rispetto alle risposte. Mi interessava capire l’efficacia della comunicazione di Meloni e il modo usato per far passare – oppure omettere – certe informazioni, nonché le azioni stesse del suo governo. Le domande sono state tre: “È a conoscenza della revoca della diminuzione dell’IVA sugli assorbenti e su alcuni prodotti per l’infanzia?”, “È a conoscenza della riforma costituzionale proposta dal governo sul tema del premierato?, “È a conoscenza della separazione tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno?”.
Un sondaggio con sole dieci persone ovviamente non è affidabile, ma ciò che è emerso dalle risposte mi ha fatto riflettere. Nove persone su dieci erano a conoscenza della separazione tra Meloni e Giambruno, due su dieci della retromarcia sull’abbassamento delle aliquote iva per determinati prodotti e solo una su dieci della riforma costituzionale. Si sa, il gossip tira sempre, e allo stesso tempo è svilente appurare come l’informazione sugli argomenti più seri non sia arrivata alla popolazione o l’abbia raggiunta in proporzioni insufficienti, anche quando si tratta di misure, come il premierato, che si basano sulla vera dottrina della destra di tutto il mondo: accentramento e pretesa di pieni poteri quando si giunge al governo.
In principio fu il presidenzialismo. Meloni lo propose durante la campagna elettorale parallelamente al “sindaco d’Italia” di Renzi, due misure che si assomigliavano e che hanno un punto fondamentale in comune: per realizzarle si dovrebbe stravolgere l’intera Costituzione o prendere in prestito quella francese. Ora che è al governo, Meloni ha virato verso un altro progetto: non più l’elezione diretta del presidente della Repubblica, bensì del presidente del Consiglio. È comunque un’azione che toglierebbe potere al Quirinale, considerando che è il presidente della Repubblica a dare l’incarico di formare un governo in seguito alle elezioni avvenute secondo la formula vigente della democrazia rappresentativa. Erroneamente, almeno dalla discesa in campo di Berlusconi in poi, molti elettori credono già di votare per un premier, anche perché la personalizzazione delle campagne elettorali ha portato sempre di più il processo politico a una sfida tra leader e non tra partiti, tra faccioni sui manifesti e non tra coalizioni. Non a caso si è parlato in modo improprio di “governi non eletti dal popolo” quando il presidente della Repubblica ha incaricato un tecnico o una diversa coalizione di formare un nuovo esecutivo. Ovvero ciò che è previsto dalla nostra Costituzione. Con il premierato non si salterebbe solo un passaggio elettorale e le conseguenti norme costituzionali, che eventualmente andrebbero cambiate, in quanto la posta in gioco è più alta. Meloni riuscirebbe a ottenere ciò che i precedenti leader del centrodestra, ovvero Salvini e Berlusconi, hanno chiesto senza successo: in gergo politico, i pieni poteri.
No, l’Italia non diventerebbe una dittatura e non ci sarebbero effetti simili a quelli che seguirono la marcia su Roma. Cionondimeno, si creerebbe un nuovo equilibrio istituzionale nella suddivisione dei poteri, e come ci insegna la Storia il rischio dell’ingordigia del leader di turno è una consuetudine di destra. Non occorre andare particolarmente indietro nei secoli per constatare questo dato di fatto, considerando che Orbán, Netanyahu, Erdogan, Trump e Bolsonaro hanno già usato questo stratagemma nei loro Paesi. Escludendo Erdogan (anche se la rima premiarato-sultanato risulta cinicamente efficace), Meloni ha sempre espresso ammirazione per gli altri leader di destra, colleghi di sovranismo e spasmodica ricerca del potere. Anche a costo di riscrivere la Costituzione a proprio piacimento, di scrivere una riforma della Giustizia per annullare la Corte suprema o di pianificare colpi di Stato.
Attraverso la bozza di governo della riforma costituzionale, oltre all’elezione diretta del presidente del Consiglio si notano due sostanziali cambiamenti: il premio di maggioranza al 55% e la norma “anti-ribaltone”, che impedirebbe al presidente della Repubblica di nominare – nel caso dovesse cadere un governo – una figura esterna alla coalizione uscente come leader di un nuovo esecutivo. Dunque il progetto è quello di sottrarre potere a Sergio Mattarella e ai suoi successori e dirottarlo verso Giorgia Meloni e i suoi successori – ovvero sempre lei, se le opposizioni nel frattempo non dovessero risvegliarsi. Storicamente, quando la destra prende più potere del dovuto si creano dei cortocircuiti democratici a livello nazionale e internazionale. Il rischio è quello di avvicinarsi a una democratura, come in Ungheria o in Turchia, o di generare forme esasperate di violenza, come in Israele. In Italia, inutile ribadirlo, l’ultima forza politica di estrema destra a pretendere – e ottenere – il potere ha causato vent’anni di dittatura, milioni di morti, leggi razziali e una guerra mondiale.
Eppure, il tema del premierato sembra non interessare ai cittadini, che ancora si interrogano sulla differenza tra blu Estoril e blu Cina e che sembrano essere più interessati a un ciuffo di capelli che a una manovra di governo. Qui, però, la colpa della popolazione è relativa: attraverso i social e i media tradizionali, infatti, un politico può facilmente indirizzare l’opinione pubblica e veicolare i messaggi che gli sono più congeniali. Trovano dunque meno cassa di risonanza le notizie sulle previsioni discriminatorie nei confronti delle donne con meno di due figli presenti negli ultimi decreti, relegate a trafiletti, e – al massimo – a un’indignazione passeggera, mentre vengono pompati traguardi inutili o addirittura millantati, come dimostra il video autocelebrativo di Meloni per l’anniversario del suo esecutivo. È un po’ lo stratagemma che usava Berlusconi quando, di fronte a una crisi economica dilagante, diceva che in fondo i ristoranti erano ancora pieni. La famosa “arma di distrazione di massa”.
Se avessimo delle forze d’opposizione degne d’essere chiamate tali, il governo verrebbe pungolato e messo all’angolo. Così non è: PD, M5S e compagni continuano a sonnecchiare, permettendo al governo di ampliare il proprio raggio d’azione. Come detto, il rischio è minimo, finché resta a fare da scudo la nostra Costituzione, che è stata scritta proprio per evitare nuove forme di dittatura, vista l’esperienza fascista che l’ha preceduta, oggi ancora relativamente fresca. Ci mette dunque a riparo, ma non del tutto, se lo stesso governo per realizzare certe misure è costretto a modificarla in alcuni punti. Toccando alcune sfere della legge elettorale, per ottenere il premierato è probabile che si arrivi a un referendum. Ricordando come è andato quello costituzionale del 2016, trasformato dal protagonista in persona in un “Renzi Sì-Renzi No”, è quasi scontato che anche il futuro possa diventare un voto di conferma sulla stessa Giorgia Meloni.
Solo che oggi lo scenario è diverso rispetto al 2016, e il vento delle destre soffia con più veemenza in Europa e nel mondo. Se il progetto di Meloni dovesse davvero andare in porto, lei acquisirebbe uno status ben più rilevante di quello odierno, che già di per sé la pone in prima fila. Depauperare gli elementi decisionali di un presidente della Repubblica comporterebbe una disfunzione democratica in un Paese che non può permetterselo. In Francia esiste una forma di presidenzialismo perché si è arrivati a costruire l’intero sistema politico ed elettorale in quel modo, ma da noi questa architettura al momento risulterebbe posticcia, un modo per garantire più vigore al leader utilizzando però un vecchio codice, la Costituzione, che in teoria servirebbe proprio a evitare accentramenti di potere di ogni sorta.
Riflettendoci, sancirebbe la vittoria del populismo; quello cavalcato da Berlusconi in primis e, in versione gentista, dal M5S, per poi tornare all’ovile di destra. In realtà, lo ha già dichiarato, come se fino a oggi le preferenze degli elettori fossero state vane. Ma se il popolo è l’insieme dei cittadini, e in sede di voto l’insieme degli elettori, allora ci sono già gli strumenti per eleggere i nostri rappresentanti; se invece il popolo è un contenitore di sentimenti, allora inevitabilmente, per l’effetto bandwagon, seguirà sempre il potente di turno. E più il leader si rafforzerà, più si avrà la percezione di dover far parte di qualcosa, di dover aderire a una sorta di culto personalistico. Forse, nella società capitalista del terzo millennio è difficile fare una distinzione tra destra e sinistra, ma se c’è un parametro di riconoscibilità, oltre alle istanze progressiste e alle lotte per i diritti civili, forse è proprio l’indole della destra per l’accumulazione di potere. I reazionari e i liberali di destra hanno sempre avuto una visione gerarchica della società, rispetto al pensiero egualitario della sinistra, e di conseguenza la scalata verso il vertice – una volta raggiunto l’agio economico – riguarda esclusivamente il potere e non più il denaro. Il conservatorismo, d’altronde, è anche e soprattutto tenere il polso della situazione controllando direttamente la massa. Dall’alto, appunto. Il sindaco d’Italia si trasforma prima in sceriffo d’Italia, e poi in capo. Infine, in padrone. Ed è per questo che la destra va fermata, a meno di non voler girare la nostra bandiera e trasformarla in quella dell’Ungheria.