Insieme agli immigrati e ai cosiddetti “burocrati” dell’Unione europea, i mercati finanziari sono il terzo grande nemico esterno che tiene in piedi il governo populista di Giuseppe Conte. Come gli altri due, si tratta di un soggetto certamente non immaginario, ma di cui si esagerano molto poteri e responsabilità. Così come gli italiani sovrastimano fortemente il peso degli stranieri nella composizione della popolazione nazionale residente, a leggere le cronache di questi mesi potrei giurare che fanno lo stesso con gli investimenti stranieri nel debito pubblico: appena un terzo dei titoli di Stato è in mani non italiane, probabilmente meno. Di questo terzo, meno del 5% fa capo a soggetti esterni all’Unione europea. Finanziare le spericolate politiche del governo è, insomma, un problema che riguarda prima di tutto gli italiani e che, saltando alle conclusioni, costerà molto alla collettività, che si dovrà indebitare a favore dei più ricchi e delle banche, aumentando così le diseguaglianze (già grandi) interne al Paese.
Partiamo dalle basi: l’Italia ha un debito pubblico di circa 2.300 miliardi di euro, pari al 130% del Pil. Questo vuol dire che, anche se tutti gli italiani lavorassero per un anno intero versando tutto quello che guadagnano allo Stato, non basterebbe per onorare i debiti che sono stati contratti nel corso dei decenni: rimarrebbe un 30% ancora “scoperto”. Il debito italiano, così come quello degli altri Paesi, è in massima parte composto da titoli di Stato. Questo significa che il governo, a intervalli regolari, indice un’asta chiedendo soldi ai privati (banche, fondi pensione, fondi d’investimento, ma anche semplici cittadini) che promette di restituire in sei mesi, un anno, due, cinque, dieci, trent’anni. Maggiore è la fiducia sul fatto che questi soldi verranno restituiti, minori sono gli interessi che vengono pagati. In coda c’è una postilla, fondamentale: i titoli di Stato si possono comprare e rivendere anche prima della loro scadenza sui mercati finanziari. Se io ho un titolo che ho pagato 7 e che mi garantirà a scadenza un pagamento di 10, posso rivenderlo a 8 a un altro investitore se nel frattempo è risalita la probabilità che i soldi mi vengano effettivamente restituiti, oppure a 6, se ho timore di non vedere più il becco di un quattrino. Chi compra rischia, sperando in un guadagno qualora tutto vada a buon fine; chi vende rinuncia a un possibile guadagno futuro, incassando subito. Lo Stato italiano, invece, paga solo a scadenza.
Fino a qualche anno fa, gli stranieri erano molto fiduciosi sul fatto che l’Italia avrebbe restituito i soldi presi in prestito, principalmente perché il nostro Paese si trovava dentro l’Unione europea e si immaginava fosse impossibile uscirne. Prima della crisi del 2011, in particolare, il 40% del nostro debito era detenuto fuori dai confini e per avere soldi in prestito l’Italia pagava all’incirca quanto la Germania. Dopo il default greco è cambiato tutto: l’opzione che uno Stato europeo possa non pagare i suoi debiti è diventata concreta, così come l’uscita dall’euro. A quel punto gli stranieri hanno iniziato a diffidare dei nostri titoli: ne compravano meno, e chiedevano interessi più alti. Lo spread è questo: la differenza tra quanto paghiamo noi di interessi e quanto pagano i tedeschi. Nel 2011, quando cadde il governo Berlusconi, lo spread superò i 500 punti base e gli italiani pagavano dunque interessi di cinque punti percentuali più alti per prendere dei soldi in prestito per dieci anni. Più uno Stato paga interessi alti, più è difficile che riesca a ripagare i suoi debitori; più è difficile che paghi, più i tassi si alzano. Questo è il meccanismo che porta uno Stato al default. Su questo schema base, si possono innestare movimenti speculativi. Esistono infatti altri tipi di titoli finanziari, come i futures, che dovrebbero funzionare come assicurazioni sugli investimenti e che in realtà costituiscono strumenti per scommettere sull’andamento dei rendimenti. Il fatto è che, alla base di tutto, c’è la fiducia sulla possibilità di uno Stato di ripagare i suoi debiti.
Sebbene l’insediamento di un governo come quello di Mario Monti, ritenuto più affidabile dai mercati rispetto a quello di Berlusconi, abbia certamente aiutato, il motivo principale per cui l’Italia non ha fatto default nel 2011 è un altro, e si chiama Bce. Mario Draghi, a capo della Banca centrale europea, nel 2012 ha dichiarato che avrebbe fatto quanto necessario (whatever it takes) per salvare l’euro. “E credetemi,” aveva aggiunto, “sarà abbastanza.” Il piano della Bce prevedeva un regime prolungato di tassi di interesse bassi e, a partire dal 2015, un programma denominato quantitative easing. Attraverso quest’ultimo, ogni mese, la Banca acquistava sui mercati i titoli degli Stati membri per 60 miliardi di euro. L’obiettivo dichiarato era immettere liquidità sui mercati, contrastando così gli effetti della crisi. Normalmente questo si ottiene facendo pagare meno interessi alle banche che chiedono prestiti alla Bce, abbassando quindi il costo del denaro. In questo caso invece, la Bce ha optato per un intervento ulteriore, che costituisse anche un aiuto concreto ai Paesi più in difficoltà: l’acquisto di titoli è avvenuto per tutti i Paesi (diversamente il piano sarebbe andato contro le regole Ue), ma a beneficiarne sono stati soprattutto quelli più in difficoltà, come Grecia, Italia, Spagna e Portogallo. In pratica la Bce, con il pretesto di riportare soldi sui mercati, ristabilendo così un clima di fiducia, nello stesso momento si è temporaneamente sostituita agli investitori che diffidavano dei Paesi in difficoltà. Per effetto di questi acquisti, secondo la normale legge della domanda e dell’offerta, i prezzi (ovvero gli interessi) sono calati. Gli italiani hanno visto lo spread assotigliarsi e hanno creduto di aver risolto il loro problema, ma si illudevano.
A fine 2017, agli stranieri che prima della crisi avevano in mano quasi la metà del debito era rimasto il 32,2%: una fuga abbastanza rapida. Bankitalia, che acquista per conto della Bce, possedeva il 15,4%, mentre il 52,2% era in mano agli investitori italiani – cioè banche (27,2%), fondi d’investimento e assicurazioni (19,9%) e imprese e famiglie (5,1%). Supponendo che gli acquisti futuri si mantengano in queste proporzioni, dovrebbe risultare chiaro quanto siano assurdi alcuni dei cavalli di battaglia dei sovranisti. Primo: l’aumento dei tassi di interesse si traduce soprattutto in un aumento dei rendimenti per gli italiani ricchi che hanno soldi in banca, nei fondi di investimento, nei fondi pensione etc. Questo è uno dei motivi per cui aumentare il debito pubblico oltre certi livelli non è una coraggiosa sfida ai mercati, ma rischia di penalizzare soprattutto i più poveri. Gli interessi sui debiti pubblici infatti li paghiamo tutti attraverso le tasse (chi le paga), mentre i rendimenti li intascano solo quelli che hanno risparmi da parte in titoli di Stato. Secondo: lasciare che le banche falliscano per “non fare favori ai banchieri” è uno slogan che difficilmente si traduce in realtà quando le stesse banche sono quelle che, acquistando i titoli di Stato, permettono al governo di pagare le pensioni. Terzo: gli stranieri sono titolari di uno spicchio di debito italiano sicuramente significativo, ma non maggioritario. In particolare, gli investitori extra-europei sono solo il 5% del totale.
Questo assumendo che le proporzioni nel possesso dei titoli di Stato rimangano invariate, ma in realtà sappiamo già che non è così. La Bce ha annunciato che, come largamente previsto, il programma di acquisto dei titoli di Stato è in scadenza a fine anno. I soldi già impegnati verranno reinvestiti allo scadere dei titoli, ma non verrà immessa nuova liquidità ogni mese, come fatto finora. “Secondo l’Autorità dei conti pubblici,” spiega Repubblica, “mentre nel 2016 la Bce ha acquistato sul mercato secondario il 45% delle nuove emissioni a medio e lungo termine, scenderà al 24% nel 2018 e quindi al 9,5% nel 2019. Vuol dire che l’Italia dovrà rifinanziare il suo debito a medio e lungo termine facendo leva sui privati: dovranno sottoscrivere 201 miliardi nel 2019, dai 165 del 2017.”
Gli stranieri, però, invece di comprare di più, vendono. In un’analisi circolata molto sui social a metà agosto, Bloomberg riportava che a maggio gli stranieri avevano venduto 36,8 miliardi di bond italiani, a giugno altri 31,8. Il fatto che a luglio e agosto siano cresciuti i rendimenti e i movimenti di acquisto e vendita intorno al debito sovrano italiano sembra indicare che la fuga stia continuando. Poiché per uno che vende ci deve essere uno che compra, le banche italiane stanno invece rimpinguando i portafogli.
In conclusione, la finanza spietata che punta a far cadere il governo giallo-verde speculando sui titoli italiani si è messa già in buona parte al riparo. Il governo lo sa, e per questo sta cercando strade alternative: piazzare i titoli di Stato alla Bce, alla Cina, agli Usa, alla Russia. La prima strada è sbarrata, le altre tre implicano il passaggio dalla padella dei mercati alla brace delle potenze straniere. Rimane un’ultima via, quella che con ogni probabilità alla fine verrà imboccata: piazzare i titoli a banche, fondi e famiglie italiane, garantendo loro rendimenti sempre più alti. Sperando che vogliano comprare, ovvio, e che non pensino pure loro che prestare soldi allo Stato italiano sia troppo rischioso, anche se potenzialmente molto redditizio. Altrimenti, c’è sempre il prelievo forzoso dai conti correnti, che non è fantascienza. È già successo nel 1992, se ne è parlato (senza poi procedere all’attuazione) nel 2011. Dare la colpa ai mercati finanziari è un bel modo per prepararsi a mettere le mani nelle tasche degli italiani. O almeno, di coloro che tengono i loro risparmi in Italia: gli straricchi hanno probabilmente i loro guadagni già al riparo altrove.