Dopo vari mesi di tentennamenti, lo scorso 25 aprile, Joe Robinette Biden ha ufficializzato la sua ricandidatura alla presidenza per il prossimo anno. All’annuncio non si sono fatte attendere le varie obiezioni, sia dalla stampa che dall’elettorato democratico stesso. Biden è al momento relativamente popolare in Europa, anche grazie alla ferma risposta all’aggressione Russa dell’Ucraina tenuta durante l’ultimo anno. Tuttavia, per l’elettorato statunitense – quello che in teoria lo deve eleggere – la faccenda è più complicata di così. In termini di popolarità dell’agenda politica, quella di Biden, fatta di stimoli economici volti a ridurre l’inflazione e a rilanciare gli investimenti nelle infrastrutture, sembra per ora piuttosto apprezzata. Eppure, gli elettori democratici non sembrano particolarmente entusiasti della sua ricandidatura, e uno dei motivi più ricorrenti sembra essere la sua età.
Nato nel 1942, Joe Biden è, al momento, il più anziano presidente della storia statunitense. Se dovesse essere rieletto, terminerebbe il suo mandato a 86 anni, nel 2029. Considerando quindi il tipo di responsabilità e stress continui che la presidenza richiede, non è strano che questa sia una delle maggiori preoccupazioni dei suoi elettori. La questione dell’età dei candidati alla presidenza statunitense non è nuova. L’argomento era già entrato nel dibattito pubblico nel 1984, in occasione della ricandidatura dell’allora Presidente Ronald Reagan. All’epoca, Reagan aveva solo 73 anni, ma era già il presidente più vecchio di sempre. Prima di lui, il record era stato del meno noto William Henry Harrison, morto a 68 anni di polmonite nel 1841, a poche ore dall’inaugurazione del suo mandato. Posto davanti alla questione dell’età da parte di un giornalista, durante un dibattito elettorale a Kansas City, Reagan usò come sempre il suo ben noto charme, sostenendo che no, l’età non era un problema, in quanto non avrebbe sfruttato “la giovinezza e l’inesperienza” del suo avversario – il candidato democratico 56enne Walter Mondale.
Reagan, quello stesso anno vinse le elezioni, con un record di 49 Stati su 50. Alla fine della sua presidenza, la guerra fredda era praticamente finita, l’Europa si stava rapidamente demilitarizzando e i rapporti USA-URSS non erano mai stati migliori. Tuttavia, cinque anni dopo il suo ritiro dalla politica, annunciò che gli era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Alla luce di questa rivelazione, si è speculato a lungo se la malattia non fosse sopraggiunta molto prima, al punto da interpretare alcune delle gaffes e delle défaillance di Reagan durante la presidenza come segnali prodromici della sua condizione. Ancora oggi, la domanda resta senza risposta.
Certamente, superati gli ottant’anni, come nel caso di Biden, il rischio di demenza o di malattie letali tende ad aumentare. Tuttavia, studi recenti hanno anche dimostrato come mantenere una buona attività fisica e mentale nell’età avanzata aiuti a restare in salute più a lungo. In alcuni casi, è possibile addirittura registrare un miglioramento di certe funzioni cerebrali, un fenomeno noto come “neuroplasticità dell’invecchiamento”. In questo senso, Biden sembrerebbe sulla buona strada per mantenersi in salute anche in un ipotetico secondo mandato: è molto istruito, ha continue interazioni sociali, un lavoro stimolante e una vivace rete familiare. Inoltre, stando a quanto riportato dalla Casa Bianca stessa, mantiene un regime di attività fisica regolare – almeno cinque giorni alla settimana.
Un’altra critica mossa dai detrattori di Biden, soprattutto quelli più giovani, mette inoltre in dubbio la sua capacità, come presidente, di indirizzare il Paese verso importanti cambiamenti di tipo sociale. Anche in questo caso, tuttavia, Biden ha dimostrato in passato di poter cambiare idea nel tempo, abbracciando spesso questioni progressiste prima ancora che entrassero completamente nel dibattito pubblico – come per esempio i diritti delle persone transgender. Ma se il problema per Joe Biden non si pone almeno da un punto di vista della salute e delle idee, di certo è suggestivo che le ultime due campagne elettorali siano state dominate da settuagenari. Donald Trump, Hillary Rodham Clinton, Bernie Sanders e lo stesso Biden, sono infatti tutti nati tra il 1941 e il 1947.
Tale fenomeno sembra meno casuale se si considera l’età media dei politici che siedono oggi nel Congresso. Nella storia degli Stati Uniti, i legislatori sono sempre stati più anziani rispetto al resto della nazione. Questo valeva per l’America del XIX secolo – quando l’età media era di 17 anni, e quella del Congresso si aggirava sui quaranta. Oggi, in modo simile, la media nazionale si aggira intorno ai 38 anni, mentre quella dei politici di Washington si attesta ai sessanta. Parte della spiegazione di questo fenomeno è presto detta: l’aspettativa di vita è letteralmente esplosa nell’ultimo secolo, con la conseguenza che quella che consideriamo come un’età avanzata si è spostata ulteriormente. I leader anziani, tuttavia, non sono un risultato inevitabile dell’alta aspettativa di vita occidentale. In Europa, per esempio, il fenomeno sembra invece inverso. Emmanuel Macron (1977), Giorgia Meloni (1975) e Rishi Sunak (1980) hanno tutti meno di cinquant’anni, e persino Olaf Scholz (1958), il più anziano tra i premier europei membri del G7, ha comunque sedici anni meno di Biden.
È possibile che la ragione risieda anche nel sistema presidenziale statunitense, che sembra premiare volti già noti all’elettorato, come Biden, o con importanti risorse finanziarie personali, come Trump – spesso a scapito di quello che i partiti stessi vorrebbero. C’è tuttavia un altro importante fenomeno all’opera nella democrazia a stelle e strisce, che sembra riguardare una generazione in particolare. Per buona parte del dopoguerra, il Congresso ha avuto almeno un 10% dei suoi occupanti sotto i quarant’anni. Tale numero ha avuto un picco negli anni ottanta, quando è salito fino al 17%, per poi invertirsi nel decennio successivo. Oggi, gli under quaranta eletti a Capitol Hill sono solo il 4%. La ragione di tale invecchiamento è da ricercarsi probabilmente nella particolare demografia del Paese. Gli anni quaranta e cinquanta, infatti, sono stati caratterizzati da un aumento delle nascite senza precedenti. Questa generazione, i ben noti “baby boomer”, non solo superavano in numero quelle precedenti e successive, ma erano anche tra i più impegnati politicamente, eleggendo rappresentanti o addirittura candidandosi loro stessi.
Tale fenomeno spiegherebbe come mai gli anni dal 1993 al 2020 siano stati caratterizzati da tre presidenti su quattro – Bill Clinton, George W. Bush e Trump – nati lo stesso anno, con Barack Obama come unica eccezione. In sostanza, i presidenti degli Stati Uniti non stanno statisticamente diventando più vecchi. Tuttavia, nel bene e nel male, l’egemonia culturale e politica del Paese appartiene ancora a una generazione specifica, che grazie anche all’aumento dell’aspettativa di vita può vantare oggi un’autorità senza precedenti rispetto a chi è venuto prima di loro. Nonostante quindi l’americano medio sia ormai un millennial, quindi nato negli anni ottanta e novanta, i boomer rimangono, almeno per ora, la generazione più influente.