Per Jeremy, Glastonbury è stato un bagno di folla. Jeremy chi? Jeremy Corbyn – l’equivalente UK di Bersani – che ha avuto l’occasione di salire sul palco di uno dei festival più famosi di sempre. Un festival nato negli anni Settanta sull’onda del movimento hippie e cresciuto fino a diventare uno degli eventi mediatici più attesi dell’anno in Inghilterra e non solo, baluardo di artisti alternativi, impegnati e milionari.
Al suo ingresso sul palco, la folla acclama Corbyn come un eroe – la stessa folla che la sera prima, durante la performance dei Radiohead, intonava il suo nome sulle note di “Seven Nation Army”, la famosa traccia dei The White Stripes che tanto abbiamo amato nel finale dei mondiali 2006 (“Ma come si permettono?” mi viene da chiedermi). Jeremy sale sul palco e, dopo un paio di frasi vuote sull’importanza di questi spazi di aggregazione, dove si incontrano lo spirito della musica, e dell’amore, e delle idee, e pure quello dei grandi messaggi, insomma, dopo averci ricordato che più che di un festival si tratta di una seduta spiritica, eccolo che parte.
“E se potete vedere così lontano,” dice, “guardate quel muro là in fondo, che circonda questo meraviglioso festival. C’è un messaggio su quel muro, per il presidente Donald Trump. E sapete cosa dice? Costruisci ponti, non muri!”
La folla va in visibilio. Non ci vede più, pura estasi (anche se c’è da dire che anche l’ecstasy ha fatto il suo), bandiere che sventolano con le sue iniziali inscritte in un cuore, manco fosse un raduno di fan di Justin Bieber. Insomma, un tripudio.
Non sorprende quindi che sul momento molti non notino l’ironia di quest’esempio infelice. Anche io, appena sentita quella frase, sento sì un leggero fastidio da qualche parte dentro di me, ma non capisco esattamente dove e perché. Quindi blocco il video su Youtube, torno indietro di qualche secondo, e riascolto. Di nuovo: “Guardate quel muro… costruisci ponti, non muri.” Ma come? Cos’è, una presa per il culo? Mi dici di non costruire muri e me lo scrivi su un muro che hai costruito tu? Se c’era un ponte a Glastonbury col cazzo che ci venivano solo 170.000 persone.
Ok, c’è da dire che il muro a cui si riferisce Corbyn non è esattamente quello che ha in mente Trump. Fair enough. Ricordiamo però il super-recinto di tre metri e mezzo, costato più di un milione di sterline, che circonda tutto il festival con l’obiettivo di tener fuori le migliaia di persone che non sono riuscite ad accaparrarsi uno degli esclusivissimi biglietti da duecento sterline durante i pochi secondi prima che andassero sold-out. Sarà pure un festival dove “la gente si riunisce e realizza cose” (cosa poi nello specifico, non è dato sapere), però non esageriamo. L’aggregazione sì, ma fino a un certo punto.
Al di là del muro, in ogni caso, ciò che infastidisce è la manifesta incoerenza di fondo che pervade la retorica di questi eventi. Gli slogan della democrazia e dell’arte che si proclama alternativa si fondono nell’apoteosi dell’ipocrisia, dove tutto è calcolato e quindi niente è sincero, niente è spontaneo. Ogni frase è pronunciata per ottenere un effetto. Ogni atteggiamento, ogni stile, ogni presa di posizione. Nel caso non fosse chiaro, stiamo parlando di una campagna elettorare, che Corbyn, sinuoso come un serpente, ha intavolato dopo a malapena due minuti dall’inizio del suo intervento. Le persone non possono essere che categorizzate, misurate, e successivamente divise in infinite analisi e sondaggi in base agli effetti e agli affetti che si vogliono innescare. E di che effetti stiamo parlando in questo caso? L’acconsentire, l’acclamare, l’approvare, l’accettare, il supportare. E di che affetti stiamo parlando? L’esaltazione, l’eccitazione, il sentimento di unione verso uno scopo comune, la potenza del gruppo. Niente di male, ben inteso, ma qui sono sfruttati meramente per convenienza, spolpati fino all’osso.
Ogni spazio dev’essere invaso da questa logica inquietante, ogni occasione è buona per far campagna elettorale, anche se la devi camuffare da sessione motivazionale per hipster quarantenni alla ricerca della gioventù perduta. Perché – non prendiamoci in giro – il paradosso del muro si nasconde dietro ogni frase fatta pronunciata da Corbyn mentre gongola sul palco. Ogni slogan mira allo stesso risultato, il traguardo in vista è uno solo. E per raggiungerlo l’importante è il vuoto, l’assenza di esempi concreti. Si fluttua nell’indeterminatezza del “realizzare cose”, dello “sbloccare il potenziale che è in noi”. L’equivalente della collezione di tutte le citazioni di Paulo Coelho, Osho e Gandhi che avete pubblicato su Facebook in quelle tristi giornate di pioggia. Solo in questo modo sembra si possa trascendere la singolarità di ognuno e omologarla alla volontà generale che legittima l’esercizio del potere. Il mezzo è creare quest’illusione di unità, ben espressa dai versi di Percy Bysshe Shelly “We are many, they are few” – noi siamo molti, loro pochi – citati da Corbyn a coronare il suo richiamo alle armi. Lo scopo finale di quest’unità, ovviamente, è il voto. Ora che credete di essere una cosa sola, ora che vi ho indicato cosa può fare la determinazione della collettività, esercitate il vostro potere di espressione, esercitate il vostro dovere di cittadini in quei pochi secondi all’interno della cabina elettorale. Poi, non preoccupatevi, potete tranquillamente tornare a essere ciò per cui venite considerati tutto il resto del tempo: consumatori. Ma nel momento della scelta civica, della responsabilità politica, ricordatevi di essere una cosa sola che vuole una sola cosa: me. “La pace è possibile e dev’essere raggiunta,” declama, e sono curioso di vedere quanto velocemente il Regno Unito cederà il suo secondo posto di esportatore d’armi nel mondo, una volta che Jeremy Corbyn sarà eletto, se lo sarà.
Ma questa, si sa, è la politica. Quantomeno la politica istituzionale di una democrazia capitalistica, ce l’ha insegnato House of Cards. La cosa triste è che anche uno spazio solitamente estraneo a questo tipo di discorso, uno spazio che teoricamente non dovrebbe prestare i suoi palchi al teatrino della politica, venga asservito alla logica della produzione di consenso. Normalmente gli anticorpi erano naturali. Ve lo immaginate Bersani a incitare la folla in delirio sul palco dell’Heineken Jamming Festival? No, appunto, e puramente per una questione di decenza, quel tipo di fastidio che si prova a immaginare una scena di sesso tra due ultrasettantenni. Ma ora la decenza è un concetto superato e bigotto, buono giusto per le leggi fasciste alla Minniti sul decoro pubblico. Siamo stati così anestetizzati da anni di porno libero sul web e abuso di psicofarmaci che ora per eccitarci le orgie si devono fare negli ospizi. No rughe, no endorfine. Cosa non faremmo per un po’ di novità, per sentire di nuovo quel brivido?
Scusate, sono partito un po’ per la tangente, torniamo a noi e ai nostri politici che si improvvisano rockstar e guide spirituali ai festival trasgressivi. Questi luoghi dove l’arte, la musica e la creatività potrebbero effettivamente contribuire a una coscienza politica che si esprime quotidianamente nel considerare le possibili conseguenze delle nostre azioni sugli altri, e quindi su noi stessi, infine diventano anch’essi un veicolo della rinuncia individuale alla responsabilità collettiva. Ciò che più si doveva discostare da miseri calcoli elettorali è ormai bersaglio e vittima della loro fredda e cinica logica. Pure i Radiohead vi dicono chi dovete votare: cosa state aspettando a unirvi al canto?
Se ci va bene, Bersani non rinuncerà tanto facilmente alla sagra della pecora. Ma fidatevi, non manca molto prima di vedere Di Maio e Di Battista duettare come dei novelli Paola e Chiara sul palco di un concerto di Vasco. D’altronde, non sorprende che a quest’ultimo i controlli fossero non per la droga ma per le bottiglie. “Tanto le canne neanche le fumate più, e anche fosse… quelle mica possiamo vendervele. L’importante è che paghiate 7 euro per quella birra.” Volete un consiglio? Molto meglio andare ai rave.