L’ultima direzione del Partito Democratico ha certificato, qualora ve ne fosse bisogno, che il vero leader del partito uscito pesantemente sconfitto dalle elezioni del 4 marzo (toccando il suo minimo storico), resta colui che secondo molti lo ha portato alla rovinosa disfatta, ovvero il “senatore semplice” Matteo Renzi. Non potrebbe non essere così e il motivo è facilmente intuibile, anche se tanti fanno finta di non ricordarsene: tutti gli organi decisionali dei democratici, dalla Direzione Nazionale all’Assemblea dei mille, dagli organismi dirigenti delle federazioni a gran parte dei segretari delle sezioni, sono figli delle primarie che si sono svolte il 30 aprile del 2017. In quell’occasione, l’ex segretario pretese, e ottenne, una nuova conta interna per blindare il partito dopo un’altra sconfitta, quella del “sì” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
Alla prova dei gazebo, la mozione Renzi-Martina (sì, il Martina che ora viene presentato come il principale antagonista di Renzi) ottenne il 69,17%, quella legata alla candidatura del ministro della giustizia Andrea Orlando si fermò 19,96% e quella proposta dal presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, si attestò al 10,87%. Per avere un’idea delle proporzioni, parla chiaro il numero dei delegati all’assemblea nazionale: 700 sono quelli assegnati alla mozione Renzi-Martina, 212 quelli della mozione Orlando, appena 88 quelli fedeli a Michele Emiliano. Certo, bisogna ricordare che nello schieramento che sostenne la candidatura dell’allora segretario uscente vi erano anche correnti interne che recentemente hanno assunto una posizione diversa, come l’AreaDem che fa capo al ministro della cultura Dario Franceschini e gli stessi uomini vicini all’attuale reggente Maurizio Martina. Ma, nella composizione degli organigrammi, l’ex premier si assicurò una maggioranza schiacciante in tutte le sedi decisionali; quella stessa maggioranza che si è palesata alla vigilia della Direzione Nazionale di ieri; quella che avrebbe dovuto sancire la definitiva scissione del Pd, quella che oddio quanto è arrogante Renzi che si permette di parlare a nome di un partito di cui non è più segretario. Una Direzione che si è aperta con una spada di Damocle posizionata sulla testa del reggente Martina: un documento di indirizzo politico presentato da Lorenzo Guerini e sottoscritto il giorno prima da 120 dirigenti su 209. Un breve testo di 1391 caratteri (spazi inclusi) per ribadire un semplice messaggio: la linea è quella decisa da Renzi e non ne esistono altre, la Direzione Nazionale è una semplice formalità.
Ma l’egemonia renziana è chiara anche in Parlamento, all’interno i gruppi parlamentari di Camera e Senato, nati dalle liste personalmente compilate da Matteo Renzi. Lì il dominio è ancora più schiacciante, e anche in quel caso le proporzioni possono essere tratte dal numero di firme apposte in calce al documento di Guerini: 77 su 109 quelle dei deputati e 38 su 52 quelle dei senatori. Con questi numeri, l’epilogo dell’inutile riunione di ieri era già scritto, con buona pace delle dichiarazioni formali su una presunta “unità ritrovata” rilasciate dagli sconfitti. Martina nella sua relazione ha dovuto chiudere a ogni possibilità di confronto con il Movimento 5 Stelle e con la Lega (che un confronto col Pd in verità non lo ha mai neanche chiesto), lasciando aperta solo l’ipotesi di partecipare a un tavolo per la formazione di un governo istituzionale a scadenza con tutti dentro – l’improbabile “governo di tregua” invocato a Silvio Berlusconi in queste ore. In cambio, se così si può dire, il reggente ha ottenuto la non-sfiducia delle truppe renziane, almeno fino alla prossima Assemblea Nazionale che sarà convocata da qui a breve. Una resa senza condizioni in cui la relazione dal segretario reggente ha ricalcato nei contenuti la contestata intervista rilasciata da Renzi a Fabio Fazio tre giorni prima della Direzione.
La domanda da porsi è che cosa renda un leader pesantemente sconfitto in almeno tre importanti tornate elettorali (amministrative, referendum costituzionale, elezioni politiche) e dopo ben due dimissioni ancora così forte da riuscire a rimanere in sella. La verità per molti è dura da digerire, ma per ciò che è oggi il Partito Democratico, per la composizione del suo elettorato attivo – ovvero quel numero sempre più esiguo di militanti e di votanti alle primarie – l’ex sindaco di Firenze è ancora in grado di raccogliere su se stesso o su un uomo da lui indicato assai più consensi di ogni altro in una prossima conta interna. Una conta che anche questa volta verrà chiamata “congresso”, ma che con le assise dei gloriosi partiti del Novecento ha ormai da tempo ben poco a che vedere. La realtà dice che in area dem non esiste nessuno capace di trainare un consenso pari a quello dell’ex presidente del Consiglio. Non Martina, non Orlando, non Cuperlo né tantomeno Calenda. Renzi gode di un consenso che potremmo definire “pop”, figlio dei tempi in cui viviamo e parente neanche troppo lontano di quello dei partiti che hanno contribuito all’analfabetizzazione politica di larghe fasce della popolazione: la Lega di Matteo Salvini e soprattutto il Movimento 5 Stelle della Casaleggio Associati. Il senatore di Rignano sull’Arno non ha mai avuto rivali nella capacità di semplificare i concetti, già dai tempi della famigerata “rottamazione”, una campagna creata ad arte per arginare gli avversari interni della “vecchia scuola” e creare un circolo di alleati magari “datati”, ma fedeli. E l’ultimo capitolo è stata la riuscitissima, quanto discussa, campagna social che ha avuto come hashtag #senzadime, fatta montare – non si è ancora ben capito da chi – per posizionarsi come unico vero autentico oppositore di un ipotetico governo Pd-M5S. Alzare i toni dello scontro interno non è mai stato un problema per Matteo Renzi che, al contrario, riesce a dare il meglio di sé proprio nel corpo a corpo, non avendo grandi doti diplomatiche né una naturale inclinazione alla mediazione. E più si restringe il campo degli attivisti e dello stesso elettorato, più l’ex premier riesce radicalizzare il suo consenso, una vera e propria vocazione minoritaria che si basa sul non detto: “Meglio pochi ma buoni”.
Dall’altra parte, poi, ci sono i suoi oppositori interni, almeno quelli che sono rimasti dopo tanti addii di questi anni. Malgrado molti di loro siano politici di vecchio corso come Dario Franceschini e Gianni Cuperlo, o giovani cresciuti in partiti che ancora formavano i loro quadri come Andrea Orlando e Maurizio Martina, la loro radicata attitudine a seguire i riti della politica e quelle regole non scritte di rispetto dei ruoli, li rende totalmente inadatti a un confronto con lo spregiudicato Matteo Renzi, pur essendo nella maggior parte dei casi più preparati politicamente e più abituati alla gestione del potere. Gli ultimi giorni non sono stati altro che una prova plastica di tutto questo: il reggente e altri esponenti di punta del partito, mantenendo una posizione di apertura, seppur di facciata e di garbo istituzionale verso il Presidente della Repubblica, hanno lasciato al leader di Rignano il campo libero sul fronte “mai al governo con Di Maio”, con l’unico risultato di apparire come oscuri registi di accordi sottobanco, che probabilmente non ci sarebbero mai stati. Dal canto suo, Renzi ha condotto una campagna mirata a cristallizzare il suo consenso interno e mobilitare sulla sua linea anche molti di coloro che in passato non avevano sostenuto. Ora l’obiettivo appare quello di riprendersi il partito già dalla prossima Assemblea Nazionale, sostituendo “l’inaffidabile Martina” con un uomo di sua fiducia, magari lo stesso Lorenzo Guerini. Poi ci sarà il congresso dove difficilmente il semi-invisibile Nicola Zingaretti o in neo-iscritto Carlo Calenda potrebbero contrastare la campagna virale #MatteoRitorna.
Piaccia o meno, ad oggi Matteo Renzi è ancora il leader incontrastato dell’ultimo partito strutturato italiano, malgrado sia inviso a gran parte dell’elettorato, compresa una grossa fetta di ex elettori di sinistra che, proprio a causa di Matteo Renzi, al Partito Democratico oggi preferiscono altro. Compreso il Movimento 5 Stelle della Casaleggio Associati. Tutte le altre facce che popolano il Nazareno restano relegati al ruolo di rumore di fondo: un rumore di sicuro utile a riempire i palinsesti televisivi nelle fasce con meno ascolti o i pastoni delle cronache politiche di quotidiani sempre meno letti, ma che alla fine viene regolarmente coperto da una dichiarazione con la “c” aspirata.