Mentre stiamo già assaggiando il boccone amaro della destra al potere, tra occhiolini agli evasori, esseri umani paragonati a merce, nostalgici del Fascismo dichiarati nei ruoli di comando e decreti da stato di polizia, si sono perse le tracce dei principali sconfitti alle elezioni. A più di quaranta giorni dal 25 settembre, il Partito Democratico sembra non essersi accorto di tutto ciò che è successo da quel giorno in avanti ed esiste soltanto come simulacro di se stesso. Lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, d’altronde, si chiedeva: “I vincitori sono sempre colpevoli, e va bene. Ma gli sconfitti, è sicuro che siano innocenti?”.
Il PD è maestro nel coniare termini basandosi sui suoi stessi fallimenti. Dopo la non-vittoria di Bersani nel 2013, adesso abbiamo assistito alle non-dimissioni di Letta in seguito alla Waterloo elettorale. Sì, ha dichiarato che non sarà più segretario, ma sta traghettando il partito verso un Congresso più che tardivo che sembra non arrivare mai e assume i tratti del grottesco, un po’ come il processo di Kafka. C’è chi ha parlato di cambiare nome al partito, chi di lasciarlo così; chi di inseguire l’elettorato di centro e chi di non commettere lo stesso errore capitale. La visione del tutto autoreferenziale ha portato a un ulteriore crollo nei sondaggi e a una sensazione di precarietà che si è manifestata con l’assenza di opposizione alle prime mosse del neo governo. Relegato al ruolo di punching ball, il PD è riuscito nell’impresa di farsi perculare al Senato persino da Matteo Renzi, sotto le risate di Meloni, Salvini e Berlusconi.
Questo immobilismo ha comportato il paradossale incoronamento di Giuseppe Conte come leader dei progressisti. L’investitura, o bacio della morte, è arrivata nientemeno che da Massimo D’Alema, l’uomo che – nel bene e soprattutto nel male – ha segnato gli ultimi trent’anni del centrosinistra italiano. Secondo “Baffino”, Conte è un progressista e il PD deve ripartire dal dialogo con il Movimento Cinque Stelle. Pazienza se Conte è anche il trasformista per antonomasia, colui che ha criticato i decreti sicurezza da lui stesso firmati; che ha contestato l’invio delle armi all’Ucraina dopo aver votato a favore cinque volte in Parlamento; che ha inveito contro l’aumento delle spese militari, quando in qualità di premier è stato lui stesso ad aumentarle e a confermare l’impegno con la Nato di portarle al 2% del nostro Pil. Conte è l’uomo che un giorno potrebbe svegliarsi sovranista salviniano, quello dopo rivoluzionario di sinistra, e se continua a risalire nei sondaggi e a non risultare una macchietta la causa è principalmente di un PD che sta delegando le sue istanze pseudo-progressiste a chiunque passi per strada. Essendo attualmente un partito fantasma, nemmeno ai vecchi alleati viene il pensiero di imbastire un’alleanza, ha perso ogni potere contrattuale, e Conte ha deciso di negoziare con i dem anche per le elezioni regionali del Lazio. Il detto “Non svegliare il can che dorme” vale per tutti tranne per il PD, esperto in sonni inappropriati già dai tempi di Berlusconi al potere.
La verità, che non può essere più nascosta, è che il PD – e in passato i suoi partiti antesignani, che poi avevano le stesse facce e nomi – non è in grado di fare opposizione. Non ha mai contrastato il berlusconismo nemmeno di fronte alla carta facile del conflitto d’interesse, semmai l’ha accompagnato nella sua aziendalizzazione del Paese. Si è conferito i meriti delle rare cadute del Caimano, che però ha visto crollare i suoi governi la prima volta per il tradimento di Bossi, la seconda per uno tsunami economico di dimensioni epocali. Il PD non ha dunque mai avuto un ruolo di contrasto, non ha impedito le leggi ad personam e neanche “l’acquisto” di senatori della sua stessa area. Ha assistito passivamente al berlusconismo allo stesso modo in cui adesso sta osservando l’ascesa dell’estrema destra al potere dopo una campagna elettorale al limite dell’imbarazzante. Perdendo le sue roccaforti e quelle categorie sociali che un tempo gli appartenevano (operai su tutti), è rimasto solo l’intonaco imborghesito di una struttura che sta cadendo a pezzi e che può essere ristrutturata soltanto partendo dall’accettazione delle proprie macerie – cosa che ancora non è avvenuta.
D’altronde stiamo parlando di un partito che per rinnovarsi ha scelto di richiamare un segretario già defenestrato dieci anni prima. La politica, si sa, è una creatura che distrugge tutto ciò che non è al passo coi tempi, un leviatano che punisce l’anacronismo a costo di favorire l’inverosimile: come appunto un M5S che si è attestato la palma di partito di centrosinistra, approfittando della narcolessia piddina. Lo stesso Movimento che, qualche anno fa, apriva con convinzione ai simpatici “ragazzi di Casapound” e che veniva accolto ad Harvard come “partito populista di destra”. È questo ciò che succede se chi dovrebbe detenere una certa denominazione finisce poi per smarrirla prendendo scelte incomprensibili. Il vuoto di rappresentanza tra gli elettori del PD stesso è scaturito anche da decisioni masochistiche: come escludere dalle liste giovani promesse di sinistra per inserire personaggi del calibro di Casini e Di Maio. Mettiamoci nei panni di un elettore bolognese “rosso”, presentatosi alle urne con la prospettiva di votare un democristiano che ha fatto parte dei governi di Berlusconi: pur di non votare a destra o altri partiti, è stato costretto a mettere una crocetta tappandosi il naso, pur non credendo nel suo stesso voto.
Questo è il simbolo di una crisi ideologica che continua ad accumulare i sintomi dell’appiattimento, o la totale assenza di una visione a lungo termine. La vittoria di Meloni e, soprattutto, l’ulteriore crescita dell’astensionismo non è altro che il rifiuto di cedere, per l’ennesima volta, al voto utile propagandato dal PD. Anche perché è compito arduo trovare una qualsiasi utilità in un voto a un partito ormai morto.
Giuditta Pini, una delle politiche depennate dalle liste elettorali, una settimana dopo il tonfo del 25 settembre è intervenuta alla Direzione Nazionale riassumendo in un discorso di cinque minuti tutte le contraddizioni del suo partito. Ha detto che “le liste non le ha fatte lo Spirito Santo, ma il gruppo dirigente”, e che il fallimento “non è stato un incidente della Storia”, in quanto il PD ha governato negli ultimi anni senza manifestare la volontà di cambiare qualcosa. “Con quale faccia siamo andati in giro a dire che volevamo abolire la Bossi-Fini, quando non l’abbiamo mai fatto in nove anni di governo? Come facciamo a dire di essere contro gli accordi con la Libia, se siamo responsabili e questo partito non ha cambiato quelle norme?”, ha tuonato Pini. Ha inoltre ricordato che il PD ha il secondo gruppo parlamentare più anziano dopo Forza Italia e che ha eletto il 70% di uomini e solo il 30% di donne. Durante la stessa riunione, anche la presidente del partito, Valentina Cuppi, ha toccato l’argomento di genere, sentenziando senza mezzi termini: “Questo è un partito maschilista e ha una logica di correnti”. Le voci di protesta sono il sale della discussione politica, ma il timore è che serviranno a poco e che dopo il Congresso ci ritroveremo sì con un nome nuovo, ma già catalogato come prossimo “ex segretario del PD”.
Se Letta domenica scorsa si presenta nella piazza sbagliata – quella dei Di Battista e della resa dell’Ucraina, per intenderci – e viene subissato di insulti, o se in Lombardia è iniziato il gioco degli avvicinamenti e delle retromarce, con la tentazione di votare la berlusconiana – ora terzopolista – Letizia Moratti, poi smorzata da Letta, e con Cottarelli proposto come nome e poi autoesclusosi dalla corsa, la sensazione è che la confusione regni sovrana. Procrastinare la rifondazione del partito, che deve partire principalmente dalle idee e non soltanto dai nomi, vuol dire permettere al governo di agire indisturbato e alle altre opposizioni di conquistare campo. Il processo che doveva partire già il 26 settembre non è ancora iniziato: siamo appesi alle scaramucce tra correnti che continuano a moltiplicarsi; e alle divisioni interne, basate sulla retorica e sulla verbosità di un’analisi che tocca i fatti interni al partito e non volge mai lo sguardo alle esigenze del popolo e degli elettori. Letta aveva promesso: “Faremo un’opposizione dura e intransigente”. Ma faremo chi? Al momento il PD non sa nemmeno se manterrà il suo simbolo, il suo nome, chi sarà il prossimo segretario, quale piano di rilancio attuerà. Se il M5S è nato per fare opposizione (non avendo le capacità pratiche per governare e basandosi per natura all’ostruzionismo contro la maggioranza), il PD per anni si è arrovellato per finire in qualche modo al governo e mantenere uno status quo precario, solo per illudersi di contare ancora qualcosa. Se le premesse sono quelle di prendere ancora tempo, alimentando uno stillicidio sempre più simile a un accanimento terapeutico, è bene che qualcuno – un deus ex machina quanto mai salvifico – stacchi la spina e fermi questa deriva gattopardiana del tutto cambia affinché nulla cambi, altrimenti al ventennio berlusconiano aggiungeremo quello meloniano, che potrà contare ancora una volta su un’opposizione senza carattere e dedita all’autolesionismo.