Il PD sbaglia di grosso se crede di poter risolvere le cause della propria disfatta in 48 ore - THE VISION

Il giorno dopo la sua Waterloo, è come se nel PD non fosse successo sostanzialmente nulla. Parola d’ordine: procrastinare. Letta rinvia al Congresso la consegna del suo scalpo, gli altri esponenti di partito tentano sui social e in tv qualche timida riflessione sulla sconfitta, aspettando anche loro un segno dall’alto, mentre qualcuno inizia ad autocandidarsi per la segreteria, come l’ex ministra Paola De Micheli, in politica dai tempi dell’Ulivo di Prodi, gli anni Novanta. Nessuno sembra essersi reso conto di non aver perso una partita di burraco ma l’ultima battaglia per non portare l’estrema destra al potere.

I giorni successivi alle elezioni sono quelli dedicati alle analisi dei flussi elettorali, ai dati più specifici sui voti per fasce d’età, condizioni economiche, provenienza geografica. Questi ultimi evidenziano lo scollamento tra il PD e il “Paese reale” e, ironicamente, confermano tutti gli stereotipi legati al partito che in questi anni sono stati diffusi: “Il partito delle ZTL e degli anziani”. Una forza di centrosinistra, in teoria progressista, dovrebbe puntare sul voto dei giovani, delle donne e del ceto medio-basso. Secondo le elaborazioni dell’Istituto Ixè, di SWG e di Youtrend, il PD ha fallito miseramente la sua missione.

Paola De Micheli

I numeri di Ixè rivelano che se a votare fossero stati soltanto gli over 65, il PD sarebbe stato il primo partito con il 26,3% delle preferenze. Una cifra enorme, considerando il 19,1% ottenuto nel totale. L’altra faccia della medaglia viene da sé: con il voto della fascia 18-24 anni avrebbe racimolato solo un misero 13,5%. Per intenderci, in quel segmento anagrafico Renzi e Calenda sono al 17,6%. Ci stiamo riferendo a giovani che, per la prima volta, hanno potuto votare anche per il Senato, e che non si sono sentiti rappresentati da un partito obsoleto, deficitario a livello comunicativo e pressoché assente, o inadeguato, sui social. Nell’ultimo mese ci sono stati eventi che hanno portato gli opinionisti a decretare la fine del Novecento con ventidue anni di ritardo – la morte di Michail Gorbačëv, della regina Elisabetta, e pure il ritiro di Roger Federer dai campi da tennis.

Siamo dunque all’accanimento terapeutico: il PD è in uno stato vegetativo, attaccato alle macchine del potere che da anni lo fanno sopravvivere passivamente, elaborando piani per rimanere negli esecutivi più che mettendosi a riflettere sulla propria identità e sul proprio futuro. Anche il suo problema politico con le donne è stato nascosto sotto il tappeto, sia dopo l’uscita di Zingaretti, quando si era chiesta una leadership al femminile, sia adesso – soprattutto adesso – che tocca rendersi conto che un evento atteso da decenni, ovvero una donna come premier, è stato consegnato non soltanto agli avversari, ma a una leader che porta avanti politiche dannose per le donne stesse. Anche qui Ixè delinea un quadro poco confortante per il PD: se a votare fossero state soltanto le donne, il partito di Letta avrebbe ottenuto il 16,9%. È il gap più ampio sul voto per genere tra tutti i partiti che si sono presentati alle elezioni. Ad esempio Forza Italia, Lega, M5S, Sinistra Italiana e Verdi hanno ottenuto più voti dalle donne che dagli uomini, mentre Fratelli d’Italia si assesta su numeri bilanciati. Dal 2007 a oggi, il PD non ha mai avuto a capo della segreteria una donna, ed è stato così anche ai tempi dei DS o dell’Ulivo. Per un partito che si professa progressista e di sinistra è una vergogna.

Nicola Zingaretti

Se un tempo la lotta di classe era una prerogativa della sinistra, da anni ormai si osserva un ribaltamento che conferma l’identità del PD, enormemente più votato dalle classi più abbienti. Youtrend disegna una mappa del voto in base ai singoli comuni e si vede come la maggioranza dei voti ottenuti dal PD provenga dalle zone centrali delle grandi città, quindi quelle più benestanti e in genere più colte. Ixè va ancora più a fondo, con una tabella sul voto per condizioni economiche, dividendole in quattro categorie: agiate, serene, appena accettabili e inadeguate. Se avessero votato soltanto i cittadini in condizioni economiche “inadeguate”, il PD avrebbe ottenuto un insignificante 8,1%, contro il 22,7% delle classi agiate. Su questi dati non c’è però una correlazione con delle proposte della destra a favore dei ceti più bassi, considerando che la Flat Tax li penalizzerebbe e, al contrario, la patrimoniale proposta dal PD avrebbe colpito i redditi milionari per aiutare i cittadini meno abbienti. È dunque un dato legato alla propaganda che apparentemente attecchisce più tra i non laureati, nelle periferie e nei piccoli centri (come avvenuto anche per i fenomeni Trump, Brexit e Bolsonaro), ovvero dove il voto nasce come conseguenza della frustrazione personale che trova rifugio negli slogan facili e nel populismo, oltre che nell’azzardo di “provare quelli nuovi” – anche se Meloni non è di certo una novità, essendo già stata ministra in uno dei peggiori governi della nostra Repubblica. Quindi è innanzitutto un problema di comunicazione, una delle principali debolezze del PD, che non ha tardato a manifestarsi nemmeno durante questa campagna elettorale, basti pensare tra le tante cose agli imbarazzanti cartelloni elettorali “Pancetta o guanciale?”.

Enrico Letta

SWG entra nello specifico con il dato del voto degli operai. Il partito che all’interno della sua sede ha una gigantografia di Enrico Berlinguer, tra gli operai ha preso meno voti di Fratelli d’Italia e del Movimento Cinque Stelle. Allora qui entrano in gioco nuove riflessioni: se il PD vuole continuare a essere il partito di Capalbio e non di Termini Imerese a questo punto rinneghi definitivamente una parte del suo passato scrollandosi di dosso l’eredità rossa; accetti le conformazioni di Casini e non di un pre-1989 tristemente incartapecorito; si consegni apertamente al neoliberismo e alla moderazione; altrimenti distrugga tutto per poter ricostruire da zero, curando l’atrofizzazione che da anni ha portato a una profonda disillusione oltre che a una vera e propria diaspora dell’elettorato di sinistra.

Per farlo è necessario rottamare più di una generazione politica, a partire da quella che Nanni Moretti già nel 2002 considerava perdente, gridandolo in piazza Navona davanti ai diretti interessati: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Frederick Douglass, una delle figure più rappresentative nella lotta per diritti negli Stati Uniti del Diciannovesimo secolo, diceva: “È più facile costruire bambini forti che riparare uomini rotti”. Il PD ha invece preferito riciclare le stesse facce, piazzarle nei collegi sicuri, rafforzare l’immobilismo e uccidere nella culla qualsiasi accenno di novità. Anche a causa della riduzione del numero dei parlamentari, il partito ha preferito confermare i volti noti, e poco digeriti dai cittadini, escludendo dalle liste figure meno “aziendaliste”, quelle però capaci di criticare il partito di fronte a certe tematiche affrontate senza coraggio, come ad esempio Giuditta Pini. Chi doveva alzare il vessillo del progressismo si è dimostrato conservatore e gli elettori se ne sono accorti. A quanto pare, sembra che l’abitudine del “riparare gli uomini rotti” sia rimasta anche dopo l’ennesima batosta. Oltre all’auto-candidatura di De Micheli, in politica da trent’anni, alcune voci parlano di Matteo Orfini e Stefano Bonaccini come possibili nomi forti. Orfini è un delfino di D’Alema, che già diciotto anni fa lo volle come suo stretto collaboratore, salvo poi ribellarsi al suo stesso padrino negli ultimi anni. È già stato segretario del PD ad interim nel 2017, nonché presidente dal 2014 al 2019. Bonaccini invece è riuscito nell’ardua impresa di far arrivare la Lega al 43% alle ultime regionali nella rossissima Emilia Romagna, vincendo a fatica. La stessa regione che alle elezioni di domenica ha perso collegi dati per sicuri. È inoltre parecchio vicino a Matteo Renzi: si considerano amici ed è stato proprio il leader di Italia Viva a consigliare al PD di nominare lo stesso Bonaccini come nuovo segretario. Seguendo questa strada è evidente a tutti, tranne a loro, che per il PD l’emorragia di voti e di rappresentanza non si arresterà.

Matteo Orfini
Stefano Bonaccini

Se Elly Schlein o Giuditta Pini vengono considerate venusiane nella rete passatista del PD, almeno si scelga una direzione da cui ripartire, a prescindere dai nomi. Perché al momento viene difficile capire per quale motivo un diciottenne o un operaio dovrebbero votare il PD, considerando che nemmeno le giuste proposte sull’ambiente di Letta sono riuscite a raggiungere i giovani (i più impegnati sul fronte dell’emergenza climatica), e che gli esponenti di partito, ormai, se passano dalle fabbriche è solo per andare ai piani alti per parlare con i vertici e organizzare il prossimo meeting a Cernobbio. Nemmeno i politici di Fratelli d’Italia hanno particolarmente a cuore i diritti dei lavoratori, sia chiaro, ma sicuramente usano una comunicazione che coinvolge gli operai, soprattutto riguardo la quota 41 per la pensione, pur essendo figlia di mistificazione e chimere elettorali. Non si sono ancora resi conto della portata di questa crisi di rappresentanza, del messaggio eloquente dell’astensionismo, di un’identità che mostra le crepe in tutta l’Europa, se persino la Svezia dei figli di Olof Palme vira a destra. Nel continente resiste Pedro Sanchèz in Spagna, premier e segretario del Partito Socialista Operaio Spagnolo. Ecco, forse bisognerebbe ripartire dalla denominazione, da una visione anche linguistica di un progetto: quelle parole – “socialista” e “operaio” – che il PD ha chiuso con cura in un baule perdendo poi la chiave per riaprirlo.

Giuditta Pini

Assisteremo invece al solito congresso sterile dove i vari colpevoli del socialisticidio spiegheranno di doversi riaggrappare alle radici che loro stessi hanno reciso. Dopo aver rispolverato Letta non ci stupiremmo se richiamassero Veltroni, proponessero l’eterno Franceschini o si prodigassero nel disseppellimento della bara di Ciriaco De Mita. Continueranno a non sentire i campanelli d’allarme, a ignorare le istanze delle minoranze dem o il fuggi fuggi di un elettorato rassegnato alla sordità di un partito che non ha mai percepito il malumore delle sue stesse piazze. Poi, però, nessuno si lamenti per l’ungherizzazione del Paese e per gli operai che votano Meloni. È la diretta conseguenza di una stasi identitaria, di un contenitore senza alcun tipo di visione e progettualità e soprattutto di una cronica incapacità di comunicare, di parlare agli elettori. E la tendenza non sembra poter cambiare, visto il timore di una tabula rasa. Continuiamo così, facciamoci del male.

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