Enrico Letta è una brava persona, sì. Enrico Letta, però, non era la figura adatta a guidare il PD e ha fallito su tutta la linea. Per essere un politico lungimirante e avveduto non basta essere una persona perbene. Le scelte strategiche di Letta si sono rivelate scellerate e hanno portato il centrosinistra, per l’ennesima volta, a concentrarsi – tanto per cambiare – sull’analisi della sua sconfitta. Un leader dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, e dopo non essersi presentato davanti ai microfoni mandando al suo posto un’affranta Debora Serracchiani, Letta ha annunciato che non si presenterà come candidato al prossimo congresso del PD. Il popolo di centrosinistra non ha così sentito a caldo le parole di quello che presto sarà, e dovrebbe essere, l’ex segretario del Partito Democratico.
Le colpe comunque sono strutturali, poiché Letta è stato scelto dai vertici del partito. Non si è certo autoeletto, è stato “prelevato” dalle sue aule parigine – decisione che risulta tuttora incomprensibile. In primo luogo perché Letta era già stato estromesso dalla leadership del PD nel 2013, complice lo zampino di Matteo Renzi. Era stato sereno per tutti questi anni per poi essere ricatapultato in una realtà ostica, nel periodo più difficile per il Paese e per il partito, dopo le dimissioni di Zingaretti durante la pandemia. Il fatto curioso è che Letta sia stato l’unico segretario del PD a essersi presentato da leader alle elezioni senza esser stato eletto alle primarie di partito, a differenza di Veltroni, Bersani e Renzi. Non avendo avuto quindi un’acclamazione diretta dell’elettorato, Letta ha avuto carta bianca dal partito, in un contesto in cui sembravano anche essersi diradate le nebbie delle scissioni interne e il fantasma stesso del renzismo. Cinque anni fa si diceva che un PD derenzizzato avrebbe acquisito una sua identità e recuperato una fetta di elettori delusi. Son tornati alla base anche certi personaggi che avevano preferito l’esilio in altri partitini (Articolo 1 su tutti). Nonostante queste premesse, considerando la proporzione tra percentuali e votanti, Letta è riuscito nell’ardua impresa di prendere meno voti del PD renziano del 2018.
Gli occhi della tigre si sono rivelati quelli di una talpa cieca di fronte al quadro politico che si stava delineando. Il trionfo dell’estrema destra di Giorgia Meloni, così come quello dell’astensionismo, sono un’onta che il PD si porterà dietro a lungo. Dopo le dimissioni di Zingaretti, ci si aspettava dal partito una ventata d’aria nuova, la freschezza di una leadership giovane, una classe dirigente rinnovata, possibilmente con una donna al comando. Invece è stato reinserito “il fu rottamato”, puntando sull’usato di pronta reperibilità. Non soltanto la segreteria di Letta non ha rintracciato l’elettorato perduto, ovvero il ceto medio-basso ormai sequestrato da populismi e nazionalismi di ogni sorta, ma ha persino smarrito le poche certezze che rimanevano al centrosinistra, perdendo collegi in diverse roccaforti rosse. Nessuna Caporetto d’altronde capita per caso e questa non fa eccezione.
I tentennamenti durante la campagna elettorale sono stati molteplici, a partire dalla parte iniziale segnata dalle alleanze e dalle liste. Il corteggiamento a Calenda non è andato a buon fine e ha causato un effetto boomerang: dai baci e dal volemose bene si è passati al ruolo da sedotto e abbandonato, lasciando una scia di polemiche mediatiche che sono andate avanti fino al termine della campagna elettorale. Insistere su nomi estranei alla galassia di centrosinistra – Casini su tutti – e aggiungerne di nuovi – l’ex nemico Di Maio, irrilevante a livello elettorale e dannoso per l’immagine del partito – ha inevitabilmente scosso un elettorato già di per sé confuso, che da anni vota il PD come male minore. Non c’è dubbio che sia l’unico partito italiano a essere odiato dai suoi stessi elettori e a essere votato solo per non far vincere gli altri. E Letta non ha fatto niente per ribaltare questa narrazione. Anzi, l’ha supportata basando la campagna elettorale sul ricatto velato, quel “votateci o vincono i cattivi” che sentiamo almeno dal 1994 e che per forza di cose non ha mai fidelizzato l’elettore. Un’intera generazione – i ventenni e i trentenni di oggi – non si è mai sentita rappresentata pienamente da un partito di centrosinistra e, a differenza dei suoi genitori, non sa cosa voglia dire credere in una forza politica, avere un’ideologia forte a cui aderire. Il seggio è stato per loro, per noi, un luogo per non far vincere Berlusconi, poi Salvini, infine Meloni, e abbiamo sempre fallito. Non è mai stato il posto in cui far emergere la propria passione politica e svolgere diritti e doveri da cittadini. Forse, la catastrofe di queste elezioni farà capire al PD l’importanza di un’inversione di rotta, di fare una tabula rasa, ripartendo dai nomi estranei ai meccanismi elefantiaci di un partito nato vecchio, rimasto giurassico anche a livello di comunicazione nell’era dei social e distante dal Paese reale.
Qualche giorno fa il Guardian ha incoronato Elly Schlein come “astro nascente della sinistra italiana”. Il profilo è quello giusto: una figura giovane, ma con un’esperienza invidiabile tra estero – all’Europarlamento – e Italia – vicepresidente dell’Emilia Romagna –; posizioni spesso critiche in passato contro il suo stesso partito; ottime capacità dialettiche e una prospettiva verso il futuro e non verso il passato. All’ultimo comizio prima delle elezioni, il 23 settembre in piazza del Popolo a Roma, Schlein ha fatto quello che Letta non è stato mai in grado di fare: contrastare Meloni sullo stesso piano. Ha dichiarato: “Sono una donna, amo un’altra donna, ma non sono meno donna per questo”. Ovvero una lezione su come poter usare gli slogan senza per forza impantanarsi nella mota del populismo. Il linguaggio di Letta, invece, è sempre stato sì garbato, ma mai abbastanza incisivo per captare gli umori dei cittadini toccando le corde giuste. Il mondo è andato avanti e il PD sembra non essersi ancora aggiornato, attestandosi come l’Internet Explorer della politica.
Numeri alla mano: PD, Terzo Polo e Movimento Cinque Stelle se si fossero presentati con una coalizione unica avrebbero potuto far avere i sudori freddi a Meloni. Questa è forse una delle “colpe” meno imputabili a Letta, considerando l’arroccamento del M5S nell’antidraghismo e la stessa scelta di far cadere l’ultimo governo. La frattura era ormai visibile, come si è notato anche a livello regionale con le scissioni avvenute ad esempio in Sicilia. Risultato: anche lì trionfo della destra. In generale, Letta ha preferito delegare più che seguire una direzione autonoma. Nonostante fosse un sinonimo di responsabilità e serietà istituzionale, l’agenda Draghi – brandita anche da Renzi e Calenda – non è stata recepita dall’elettorato come un segnale di forza, ma l’esatto opposto. Era giusto non rinnegare l’esperienza Draghi, ma a questo bisognava accompagnare una narrazione e un programma solido, che non si limitasse a controbattere goffamente allo spauracchio Meloni, proprio perché il centrosinistra aveva bisogno – ora più che mai – di votare per qualcuno, non contro qualcuno. Difficilmente un diciottenne avrebbe votato Letta dopo aver ascoltato un suo intervento in tv o sui social – campo dove il PD è colpevolmente arretrato. Avrebbe invece votato Schlein, perché coinvolta in battaglie concrete e sentite, come quella per l’ambiente e per il futuro della Terra. Tema che ha toccato timidamente anche Letta, sì, ma con un linguaggio troppo datato, per non parlare dei vari scivoloni sull’inclusione delle minoranze.
Un cambio al vertice darebbe nuova linfa anche come forza di opposizione. E, di fronte al primo governo neofascista della nostra repubblica, ne abbiamo tremendamente bisogno. Affrontare i prossimi anni con strumenti vetusti vuol dire consegnare definitivamente il Paese alla propaganda sovranista, mentre fuori c’è una schiera di giovani che desiderano lottare per salvaguardare l’ambiente e i diritti. Sono solo in attesa di una realtà che possano riconoscere e in cui possano identificarsi, di un linguaggio che li rappresenti. Letta non l’ha avuto ed evidentemente non può averlo. Avanti la prossima o il prossimo, allora, e che abbia la capacità di combattere anche per gli ultimi e i penultimi, per gli indifesi, i discriminati e i disorientati. Facendosi capire, in un’epoca in cui la comunicazione è il motore portante del mondo, mentre quella del PD è rimasta al tempo del telegrafo.