È dal referendum del 4 dicembre 2016 che il centro-sinistra non se la passa molto bene. Fino a quel momento, i colpi di testa di Matteo Renzi e la sua anima da rottamatore indomito sembravano quasi aver dato una nuova luce al Partito democratico, ma si trattava di un abbaglio. Il renzismo era un morbo subdolo, perché per un certo tipo di elettore non convinto a pieno di questa dirigenza significava trovarsi l’anima spaccata in due: è questa sinistra che voglio? No, ma è pur sempre un’alternativa alla destra; è questa terza via à la Blair da quarantenne rampante che gira in bici e distribuisce voucher che mi sta bene? No, ma è comunque una via di fuga dalla fantomatica “ondata populista”, questa sorta di invasione barbarica che ha appestato l’Occidente e di cui probabilmente non ci liberemo con facilità.
Questo discorso, per quanto mi riguarda, poteva avere senso in un’ottica di Realpolitik del “basta che funzioni” passivo e apatico, tipico della mia generazione. Per noi nati a cavallo tra la caduta del muro di Berlino e l’ascesa di Silvio Berlusconi, orientarsi tra i pilastri del pensiero politico del Novecento non è facile, così come non è semplice sbarazzarsi di quel senso opprimente di condanna universale alla sofferenza che ci hanno regalato gli anni della crisi. Non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è pace, e allora ben venga il Jobs Act e i tirocini col rimborso spese, basta che si lavori, basta non sentirsi inutili. Ad oggi, però, questo modo di pensare evidentemente non ha più ragione d’esistere perché non solo Renzi è stato sepolto e triturato dalle sue stesse iniziative suicide, ma tutto il Partito democratico si è scavato una fossa profonda chilometri. E allora quel sentimento di “finché va bene” sarebbe il caso di scrollarcelo di dosso, a questo punto: non è un crimine pretendere un leader di sinistra che sia veramente di sinistra, è un diritto. Non è disfattista pretendere che le istanze di questo schieramento politico vengano risanate dopo anni di ipocrisia moderata, è sano.
Il problema maggiore in questa fase post-apocalittica della sinistra italiana, dunque, è proprio quello di non avere al suo interno un personaggio che abbia il coraggio di dire apertamente che no, questa tattica non funziona, Renzi non funziona e Carlo Calenda non è affatto una proposta da contemplare. Se siamo arrivati al punto in cui persino la Lega e il Movimento Cinque Stelle si sono appropriati dei discorsi canonici della sinistra – come ad esempio una recente critica di Salvini alle multinazionali – farciti con le rispettive idiozie propagandistiche e inconsistenti, vuol dire che la risposta è sotto al naso e se la sta facendo fregare da un ministro che usa le emoji coi cuoricini nel suo account ufficiale su Twitter. Il segnale, evidentemente, è che il modello del Partito democratico ha fallito, e il fallimento è avvenuto prima di tutto in termini di comunicazione.
Se ci stupiamo tanto del fatto che le persone sono razziste, che ripudiano l’idea di convivere con gli immigrati nelle loro città, dovremmo anche chiederci perché nessun discorso politico si è impegnato a fare capire loro che il problema non sono gli esseri umani che scappano dalla miseria, ma i veri responsabili di questo fenomeno. Persino Gianni Cuperlo, all’Assemblea del Pd dello scorso 7 luglio, lo ha fatto notare: va bene non riguardare nostalgicamente al passato di Bandiera Rossa, ma non possiamo nemmeno essere il partito di Uno su mille ce la fa. E se proprio non vogliamo più cantare gli inni partigiani per manifestare al mondo che siamo portatori fieri di quei valori universali che non invecchiano mai, quanto meno diamo alla sinistra la possibilità di poter essere presente e schierata in favore proprio di quelle persone che si sentono abbandonate e frustrate, che hanno perso ogni fiducia nello Stato e che hanno demonizzato la sua presenza nelle loro vite dandogli il nome di Ka$ta.
Del resto, non sarebbe nemmeno un colpo di testa in controtendenza con tutto il resto dell’Occidente, anzi. Se la sinistra italiana volesse davvero approfittare di questo momento di vuoto cosmico per ricostituirsi in quanto vera entità politica e non semplice macchietta moderata ed elitaria, avrebbe anche dei buoni spunti dall’estero. Gli esempi di personalità politiche – non per forza di successo, ma comunque capaci di dare segnali forti alle istanze più condivise – che negli ultimi anni hanno decisamente dato un cambio di rotta alla sinistra verso una direzione molto meno improntata su modelli moderati alla Macron o alla Clinton non sono pochi: Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e Julia Salazar negli Stati Uniti – roccaforte anti-socialista dove la presenza di due personaggi simili non era nemmeno pensabile – Andrés Manuel López Obrador in Messico, Antònio Costa in Portogallo, Jean-Luc Mélenchon in Francia.
Pietro Grasso con il suo Liberi e Uguali ci aveva provato a fare il Corbyn d’Italia, ma evidentemente ha sbagliato qualcosa, forse proprio a partire dalla sua carriera politica: essere un simbolo della lotta alla mafia è una qualifica nobile, ma non è stato abbastanza per costruire una personalità politica sufficientemente carismatica. La grandissima forza di Corbyn, infatti, sta sia nella sua incredibile coerenza, che nella grande capacità comunicativa, coinvolgente, entusiasmante che deriva dalla sua storia di militante. Parlare di uguaglianza, di diritti, di università pubblica, di sanità alla portata di tutti, di accoglienza e unità dovrebbe essere già di per sé un discorso che parte avvantaggiato dalla sua natura positiva e innegabilmente condivisibile. Se “la gente non ne può più”, come piace sottolineare al M5S e alla Lega per farsi qualche bracciata nel mare della frustrazione, allora prendiamone atto, e impostiamo lo scheletro della nuova sinistra esattamente su questa consapevolezza. Partendo dalla struttura sociale, dalle fondamenta su cui si basano le esigenze degli elettori: la sicurezza di una vita soddisfacente, l’assistenza di cui si ha bisogno, l’idea di uno Stato in cui esiste il pubblico, e non solo l’esclusività del vantaggio privato.
Può dunque esistere un leader della sinistra in grado di riportare alle radici dei bisogni il suo percorso politico, senza doversi nascondere dietro alle questioni civili per racimolare giusto quel minimo di consensi e quel riconoscimento di umanità? I due discorsi, Corbyn ne è la prova, possono coesistere: a chi accusa le minoranze (come succede oggi rispetto al famoso “gli immigrati ci rubano i posti di lavoro”), il leader del partito Laburista risponde che non sono loro il problema, ma è la crisi come conseguenza del sistema capitalistico. E la cosa più stupefacente è che proprio questo esponente così bistrattato e boicottato proprio dal suo stesso partito, dopo anni nelle retrovie fatti di battaglie ed encomiabile solidità e coerenza rispetto al proprio pensiero di partenza, sta portando i laburisti a una molto probabile vittoria nelle elezioni britanniche imminenti. Non è quindi solo una questione di bei comizi commoventi, è davvero una fase di rinascita storica di una sinistra addormentata che pensava di potersi proteggere con le bandiere arcobaleno indossate a mo’ di armatura per nascondere le intenzioni tutt’altro che socialiste. Jeremy Corbyn, soprattutto, lo abbiamo capito ormai da tempo, piace ai giovani: è un sessantanovenne che riesce con disinvoltura a passare dai comizi al Glastonbury ai faccia a faccia con Cameron in cui rigira una presa in giro a un suo vestito in una perfetta ed elegantissima occasione per umiliare l’ex leader conservatore. Non riesco purtroppo a immaginare Maurizio Martina che incanta il pubblico del Rock in Roma – che già di per sé è un’immagine abbastanza triste – con altrettanta efficacia, né Carlo Calenda che riesce a smuovere un vero e proprio fan club di ventenni orgogliosi di mettere sul petto il simbolo del suo partito.
Esistono delle piccole realtà di fermento giovanile della sinistra – da Potere al Popolo a Senso Comune – in cui si stanno ridiscutendo le sorti di questo schieramento, anche in termini contemporanei e non solo come circoli per i nostalgici dell’Italia pre-svolta della Bolognina. I risultati, ovviamente, non possono arrivare nell’immediato, motivo per cui sarebbe auspicabile che questo fantomatico leader piombasse sulla terra come un messia, forte e deciso, preparato al dialogo sia con la pluralità del presente che con chi invece sente ancora di avere dei valori ben definiti e ben lontani da tutto ciò che è stato finora il Pd. Ma la verità è che questa persona, uomo o donna, giovane o anziano che sia, non c’è. Non c’è un personaggio che abbia abbastanza carisma e popolarità e allo stesso tempo che abbia anche una storia e una solidità di idee e valori tanto forti da meritarsi la fiducia sia dei più moderati che dei cuori puri.
Eppure, a chi continua a difendere le ragioni del centro-sinistra italiano, accusando le critiche di sterilità o eccessivo attaccamento a vecchiume ideologico, non mi sento affatto di dire che ha ragione, anzi. Ciò che mi preme di dire, da venticinquenne nata e cresciuta nel pieno della disfatta della sinistra, tra ramoscelli di ulivo e fiorellini appassiti, è proprio che hanno sbagliato tutto, che per riconquistarsi la mia fiducia, insieme a quella di chi nella baraonda della modernità ha preferito affidarsi a personaggi discutibili, dovrebbero proprio ripartire dall’essenza di ciò che significa la sinistra. Non solo dai suoi orpelli decorativi. Il nuovo leader della sinistra non c’è perché nessuno ha il coraggio di dire apertamente che questo sistema ha fallito, e perché ancora nessuno, in Italia, è stato tanto umile da andare a rispolverare proprio le istanze di quelle lotte giovanili che costellano i curriculum di molti esponenti del Pd.