È morto Silvio Berlusconi. Oggi finisce ufficialmente la seconda Repubblica. - THE VISION

Quando la mia amica con cui ero al telefono mi ha detto quelle tre parole (“è-morto-Berlusconi”, scandite con una sorta di smarrimento) entrambi ci siamo detti che non abbiamo mai conosciuto l’Italia senza di lui. Abbiamo contrastato per anni il suo modo di intendere la politica, la società, gli atti con cui ha trasformato culturalmente un Paese rendendolo la sua azienda, eppure siamo stati colti da una sensazione di stordimento probabilmente comune. La sua morte segna davvero la fine di un’epoca di cui tutti abbiamo fatto parte, sostenitori e avversari, giovani e anziani, operai e imprenditori. Oggi si è chiusa ufficialmente la Seconda Repubblica.

Fa impressione aprire le principali testate online con coccodrilli probabilmente preparati da anni, analisi sulla persona e sul personaggio che alla fine si sono fuse in un’unica entità. Tutti sono concordi nell’affermare la sua importanza storica e ciò che ha rappresentato nel Paese a prescindere da ogni giudizio in merito. Quello che forse va aggiunto è un pensiero che probabilmente non tutti condivideranno, ma che in fin dei conti è più che verosimile: ha vinto lui. Silvio Berlusconi non ha avuto la sua Hammamet, non ha tentato nemmeno di fuggire travestendosi da soldato tedesco, non è stato “sconfitto”. Ha terminato la vita con la sua creatura al governo, con i suoi uomini e donne tra i ministri, con lui stesso di nuovo senatore. Anche a livello giuridico ha chiuso gli occhi “soltanto” con una condanna per frode fiscale. Verrà omaggiato dalle istituzioni, dagli avversari politici e certe macchie verranno ridimensionate col tempo – un revisionismo già in atto quando era ancora in vita. La sinistra non è riuscita a contrastarlo politicamente e il berlusconismo sopravviverà anche allo stesso Berlusconi. I suoi delfini sono nelle posizioni di potere, le sue televisioni sono ancora accese, il “pullman di troie” sarà sempre nel parcheggio pronto ad attendere i suoi calciatori e noi, gli altri, saremo “sempre e ancora dei poveri comunisti”.

Il culto di Berlusconi non si è eclissato e a testimoniarlo sono i primissimi commenti di oggi. “Pessimo politico, grande imprenditore” è la frase che ho letto più spesso in questi minuti. E se sul primo giudizio resterà sempre un alone di ambiguità a seconda della fazione politica, sul secondo credo che permarrà questa convinzione, seppur controversa. Il Berlusconi imprenditore aveva già posto le basi per berlusconizzare l’Italia. L’ha fatto attraverso le sue televisioni, come presidente di un Milan vincente e grazie ad agganci politici (e non solo) che hanno plasmato la sua ascesa prima della discesa in campo ufficiale del 1994. Era un grande imprenditore perché sapeva rapportarsi come nessuno con i suoi dipendenti, dal suo braccio destro all’ultimo dei magazzinieri. Anche se non so quanto possa essere definito grande un imprenditore chi deve parte della sua fortuna ai favori di Craxi o degli amici poco raccomandabili di Dell’Utri.

Bettino Craxi, Silvio Berlusconi e l’imprenditore Salvatore Ligresti, Milano
Silvio Berlusconi al ristorante Garibaldi con Urbano Cairo e Marcello Dell’Utri, 1985

Le sentenze hanno confermato i suoi rapporti con Cosa Nostra, così come l’appartenenza alla P2, e in tante altre occasioni ha schivato la mannaia giudiziaria grazie a leggi ad personam o ad archiviazioni poco limpide. Non è però il momento per fare un ulteriore processo a chi non c’è più. Non per la retorica della morte che cancella ogni peccato, ma perché la figura di Berlusconi ha rappresentato molto altro, arrivando a modificare i tratti dell’italiano medio proprio perché era quello il suo scopo. Così ha indossato le vesti del presidente operaio, dell’uomo che “se ce l’ha fatta lui ce la possono fare tutti”, del messia che ha fatto credere a un popolo intero di poter raggiungere un determinato status in base al proprio conto in banca, alle donne-trofeo, all’arricchimento materialista come fine stesso dell’esistenza. L’ha fatto spedendoci per posta i suoi libretti dove si vantava dei suoi traguardi raggiunti, creando l’equivalente dell’American Dream in salsa italiana. Per anni all’estero hanno riso dell’Italia, di un presidente del Consiglio inappropriato, ma nel mentre noi avevamo già assorbito le spore del berlusconismo, sia chi abbracciava che chi provavano a contrastarlo. Giorgio Gaber diceva: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Ed è forse questa la sua vittoria: aver segnato un’epoca entrando non solo nelle case, ma nelle menti di tutti gli italiani.

Silvio Berlusconi e Bettino Craxi, Hammamet, Tunisia 1984

È stata un’era di edonismo sfrenato, di machismo esasperato, della commercializzazione di qualsiasi elemento potesse essere commercializzato, persino un ideale. Quando ha smesso di essere il perno politico del Paese, scendendo sotto il 10% alle elezioni, gli stessi avversari si sono accorti di come Berlusconi fosse l’unico collante ideologico che teneva in piedi partiti, giornali e spettacoli comici. Per anni la sinistra si è nutrita esclusivamente della narrazione del nemico da sconfiggere. Con un Berlusconi prima condannato e poi vecchio e malato, però, è crollato il castello di carte su cui si basava la forza d’opposizione della Seconda Repubblica. All’epoca chiunque fosse schierato contro di lui veniva inserito nello stesso calderone, con l’antiberlusconismo elevato a movimento politico e sociale. Quella che all’epoca sembrava un’unione di elementi con la stessa prospettiva politica, oggi si è frammentata proprio in concomitanza col calo politico di Berlusconi. Senza il nemico, il Caimano, è venuto meno il bersaglio che reggeva una baracca dalle fondamenta fragili. E la morte di Berlusconi probabilmente amplificherà ancora di più questa disgregazione. È il primo giorno della mia vita senza Silvio Berlusconi, e sento che dovrò metabolizzare questa situazione inedita forse ancor più di un elettore di Forza Italia.

Il suo partito, di fatto il prolungamento delle sue aziende, non avrà più senso d’esistere senza di lui. Il governo stesso dovrà porsi degli interrogativi sugli smottamenti inevitabili dell’elettorato. Qualcuno si sposterà ancora più a destra seguendo il solco sovranista tracciato da Meloni e Salvini, altri cercheranno un lido centrista più moderato, e i Renzi e i Calenda si fionderanno a raccattare i detriti di Forza Italia che giungeranno a valle. Noi stessi cittadini inizieremo a parlare di un Paese prima e dopo Berlusconi. Certamente alcuni tratti del berlusconismo resteranno, come per esempio i modi di fare politica che hanno fatto scuola: la demagogia, l’elettorato visto non come popolo ma come pubblico, o addirittura possibile acquirente a cui vendere qualcosa. È stato lui a trasformare le elezioni politiche in una riproduzione del televoto dei suoi programmi televisivi. Ha persino smesso di essere un politico per diventare quella che è a tutti gli effetti la maschera dell’italiano. All’estero, per decenni, non siamo più stati pizza-pasta-mandolino, ma pizza-pasta-Berlusconi. Questo perché lui ha tentato di rendere ciascuno di noi la sua proiezione, spesso riuscendoci. La sua è stata un’appropriazione culturale del Paese. Il potere mediatico delle sue televisioni ha contagiato intere generazioni creando l’immaginario di una società fatta a misura dei suoi vizi e capricci. Siamo stati un popolo di veline e tronisti, di imprenditori wannabe, di puttanieri di provincia, di allergici alle tasse, di buontemponi poco avvezzi all’istituzionalità dei luoghi di lavoro, a prescindere che fosse un ufficio in periferia o una riunione del G8. In questi anni ci siamo divisi in chi era diventato Berlusconi, quasi per un’osmosi fantascientifica, e chi si impegnava a non esserlo, nutrendo spesso però una sorta di ossessione nei suoi confronti che gli conferiva inconsciamente l’aura del superuomo.

Negli ultimi tempi, poi, Berlusconi è riuscito a raggiungere quel traguardo che, per esempio, Craxi e Andreotti non hanno mai nemmeno sfiorato: fare compassione. Non tanto per lo stato di salute e per i video che era costretto a fare, quanto per un accanimento politico che lui stesso ha cercato e che da almeno dieci anni non aveva più senso. Era come se venisse scongelato per le occasioni propizie, e osservando la sua fragilità si annullavano i decenni di battaglie contro un malcostume che ha portato in Italia come tratto distintivo. Colui che un tempo era la maschera dell’italiano medio è finito a esserne una macchietta, e anche le sue ambiguità morali sono andate in prescrizione. In futuro, soprattutto in un Paese dalla scarsa memoria a lungo termine, probabilmente cadranno ancor di più nell’oblio. È per questo che ha vinto. Verranno insabbiati i suoi errori politici, la sua condanna, gli altri processi, le attribuzioni del ruolo da testa di ponte tra politica e realtà criminali. Resterà il “grande imprenditore”, il presidente più vincente della storia del calcio, il suo sorriso da poster elettorale, la galanteria caciarona e la scia del potente che ce l’ha fatta. E forse ce lo siamo davvero meritato, Silvio Berlusconi.

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